Tales of Mystery and Imagination

Tales of Mystery and Imagination

" Tales of Mystery and Imagination es un blog sin ánimo de lucro cuyo único fin consiste en rendir justo homenaje a los escritores de terror, ciencia-ficción y fantasía del mundo. Los derechos de los textos que aquí aparecen pertenecen a cada autor.

Las imágenes han sido obtenidas de la red y son de dominio público. No obstante, si alguien tiene derecho reservado sobre alguna de ellas y se siente perjudicado por su publicación, por favor, no dude en comunicárnoslo.

Showing posts with label Niccolò Ammaniti. Show all posts
Showing posts with label Niccolò Ammaniti. Show all posts

Niccolò Ammaniti: Ferro

Niccolò Ammaniti, Ferro, , Relatos de misterio, Tales of mystery, Relatos de terror, Horror stories, Short stories, Science fiction stories, Anthology of horror, Antología de terror, Anthology of mystery, Antología de misterio, Scary stories, Scary Tales, Salomé Guadalupe Ingelmo

Sììììììììì, ancora, mi farai morire cosi, sìììììì, non smettere, sto venendo. AAAHHH.

Spengo il video. 

Spengo la tele.

Carne. Genitali priapeschi. Erezioni. Sudore. Balistiche eiaculazioni.

Tutto quel sesso mi gira in testa e mi frastorna come uno stormo di corvi strepitanti.

Queste cassette mi sfiniscono e stremano.

È oramai solo un rituale introduttivo che cornpio quotidianamente prima di masturbarmi.

Prima guardo la cassetta e poi mi masturbo. 

II film serve solo come antipasto.

Le seghe che mi sparo hanno perso il rigore della realtà per diventare astratte e ispirate a principi complessi, metafisici.

II  bene e il male, la vita, la riproduzione, la duplicazione del DNA, la morte, Dio.

Oggi però ho bisogno di qualcosa di più terreno. 

Vorrei sentire un corpo agitarsi sotto il mio.

Vorrei venire in qualcosa di diverso della mia mano. 

Non vorrei che il mio sperma finisse nel cesso.

Vorrei morire dentro qualcosa che sbatte le gambe. 

Giro per casa indeciso.

Deciso solo ad appagare le voglie torbide che mi si muo­ vono nel cranio come selvatiche fiere alienate dalla cattivita.

Mi faccio una doccia.

L'acqua scorre sul mio corpo, cola in lucide strisce e que­sto invece di placarmi mi eccita ancor di più.

Vecchio babbuino frustrato che non sei altro.

Niccolò Ammaniti: Carta

Niccolò Ammaniti, Carta, Relatos de misterio, Tales of mystery, Relatos de terror, Horror stories, Short stories, Science fiction stories, Anthology of horror, Antología de terror, Anthology of mystery, Antología de misterio, Scary stories, Scary Tales, Salomé Guadalupe Ingelmo
 

Era strana quella mattina. Forse era quella cappa grigia e stagnante che si era adagiata sulla città, forse era solo che avevo dormito in un letto di merda. Non lo so. Fatto sta che arrivai al lavoro alla solita ora.


A quel tempo lavoravo alla USL della seconda circoscrizione e non facevo un cazzo tutto il giorno. Di lavoro ce n’era da fare ma io trovavo sempre il modo di inguattarmi, di partire per illusorie commissioni.


Lavoravo nel reparto derattizzazione e disinfestazione.


Se vi si riempie la casa di pulci, che vi formano dei calzini neri e pieni di vita intorno alle caviglie, non vi resta che chiamare noi. Se vi si stipa il solaio di sorci e se vi risalgono su dal cesso zoccole grosse come barboncini arriviamo e mettiamo a ferro e a fuoco il vostro appartamento.


A farla breve, quella mattina, arrivai al lavoro più scazzato del solito. Volevo stare a casa. Tomba doveva scendere alle 11:30 nello speciale e avevo calcolato che sarei potuto tornare intorno alle 11 e prepararmi per bene. Appena entrato vidi Franco, l’usciere, che se ne stava seduto dentro la guardiola e giocava a scopa con Carmela, la bidella. Tutte le mattine la stessa storia. Perdeva sempre.


‘A Coluzza, c’è Michelozzi che ti cerca…» disse il portiere senza alzare lo sguardo dalle carte.


E che vuole?»

Niccolò Ammaniti: Ti sogno con terrore


Niccolò Ammaniti



Ti sogno,...
Perché continuava a sognarlo?
Perché il suo subconscio si ostinava a tirarlo fuori?
Un coniglio da un cappello a cilindro.
Et voilà!
Giovanni.
Tutte le notti. Regolare. Un orologio.
Se ne era andata lontano. Lontano.
Aveva messo più di duemila chilometri di distanza tra lei e lui. Chilometri di campagne e di paesi e di città e di fiumi e di montagne e mare. Ora viveva in un altro posto. In un mondo diverso. Vedeva altra gente. Non aveva più niente da spartire con lui.
Eppure...
L'ultima volta che lo aveva sentito era stato tre mesi pri­ma, al telefono. Roba di vecchie bollette non pagate, risolta in cinque minuti.
Ti mando i soldi, quante? Va bene, non ti preoccupare.
Eppure...
Eppure continuava a sognarlo. Giovanni.
Francesca Morale si alzò dal letto. Si sentiva stanca, affa­ticata e imbarazzata da quel piacere che si era presa inco­scientemente. Odiava quel perverso lavorio che faceva il suo cervello ogni notte appena la coscienza moriva, uccisa dal sonno.
Ricordava tutto molto bene.
Quella notte erano stati a sciare in uno strano posto. Pote­va essere un'isola? Capri? Coperta di neve. Al posto dei fara­glioni iceberg azzurri affilati come lame. Metri di neve copri­vano la piazzetta, i tavolini, le scale della chiesa.
Si rincorrevano, affondavano nel manto candido, si tira­vano su. Poi sprofondavano in una fossa di ghiaccio. Una lu­ce diffusa e azzurra rischiarava la loro tana. La loro tana da orsi. Sentiva ancora nel naso l'odore di selvatico e d'escre­menti che riempiva quel buco.
Là dentro avevano fatto l'amore.
Non in maniera normale, come ogni cristiano dovrebbe fare. Lui l'aveva afferrata con le sue mani rozze, gettata a ter­ra e se l'era sbattuta da dietro. Come una cagna. L'aveva in­sultata dicendole che era una puttana e martellata. Immobi­lizzata per i capelli. Affogata nella neve.
In definitiva era stata stuprata.
Ti è piaciuto! Ti è piaciuto! Ti è piac...
Che cosa fastidiosa!
Le era piaciuto.
Francesca andò in bagno. Si gelava là dentro. Le matto­nelle bianche e umide. Quel terribile neon giallo.
Un languore sensuale le ristagnava addosso, nella carne, nonostante il freddo pungente, rendendola indolente e pigra.
Poggiò le mani sul lavandino e si guardò nello specchio.
Il sogno le balenava davanti ancora vivido, come in un film porno di quarta.
Aveva la faccia sbattuta. Stanca. Le narici dilatate e rosse. Gli occhi gonfi e le occhiaie. Come se non avesse dormito.
Hai la faccia... la faccia di una che ha fatto sesso. Semplice, pensò.
Si toccò i seni. Erano gonfi come quando aveva le sue co­se. I capezzoli turgidi e doloranti e scuri come se fossero sta­ti strizzati da mollette. Viscido tra le gambe.
Sentiva ancora addosso le manate di Giovanni.
Si bagnò la faccia con l'acqua fredda.
E aspettò che l'ondata passasse. Che il sogno si dissolvesse.

Niccolò Ammaniti: Rispetto



Usciamo all'imbrunire.
Andiamo a divertirci. A fare i coglioni.
Sappiamo divertirci noi. Sappiamo tirare fuori il meglio dal buco.
Saliamo in macchina e decidiamo di smuovere il culo. A morire un po' sulla pista. Ridiamo e ci fermiamo in un bar sulla provinciale a prendere le birre.
Questa sera è diversa e lo avvertiamo tutti. Aspiriamo dai finestrini aperti l'aria che ci rimbalza in faccia a 180. Siamo una fottuta muta di bastardi in movimento. Siamo come bu­fali. Solo più grossi. O come le iene. Solo più famelici. Cazzo se siamo famelici stasera. E quanto siamo affamati. Affamati di fica. Affamati di fica ruvida.
Entriamo nel parcheggio ma non c'è un cazzo di posto. Come è sempre di sabato sera. La lasciamo in terza fila e tut­ti incominciano a suonare come stronzi. Aspettiamo tran­quilli e vediamo che la nostra macchina intralcia. Non lascia passare. Ma questo ci dà in testa. Ci piace. È la nostra sfida. Veniteci a dire qualcosa. Forza. Tirateli fuori questi coglioni.
Noi siamo qua e sono cazzi da cagare.
Appoggiati come stronzi al cofano della macchina.
Avete dei problemi?
Se pensate che siamo degli incivili rottinculo basta che ce lo fate presente.
È il vostro momento. È il momento delle lamentele.
Ma non vi fate avanti. Perché?
Conigli.
Entriamo in discoteca compatti.
Ce una cifra di gente. Una cifra di passera ignorante.

Niccolò Ammaniti: Lo zoologo


Mi ricordo bene.
La birreria si chiamava "Il becco giallo".
Era piccola, affollata e cercava di assomigliare a un pub inglese con quei muri rivestiti di legno e i boccali appesi sopra il bancone.
Sedevo a un tavolo con professori, assistenti e ricercatori dell'università di Bologna. Non li conoscevo bene.
Avevo tenuto, quella mattina, alla facoltà di scienze biologiche di Bologna un convegno sulle dinamiche onnonali durante la metamorfosi degli anfibi urodeli.
Un successo.
Dopo il congresso essendo solo e con l'unica possibilità di ritornarmene in albergo, nella mia squallida cameretta, i colleghi mi avevano invitato ad andare con loro, a bere.
Accettai.
Bevemmo molta birra e finimmo a parlare di università, di concorsi per ricercatori e di dottorati. L'atmosfera calda e fumosa di quel posto induceva alle chiacchiere, ai pettegolezzi accademici.
La solita zuppa.
Metti insieme più di due colleghi, non importa quali, geometri, bancari o calciatori, finiranno sempre a parlare di lavoro.

Sedeva accanto a me il vecchio e stimato professor Tauri, ordinario della cattedra di biochimica. Un omino grasso e con un nasone a patata e due belle guance rosse rosse che veniva voglia di pizzicargliele.
Era insoddisfatto. Sbuffava. A un tratto, afferrò il boccale di birra e lo sbatté sul tavolo più volte come fosse un giudice che picchia il martello per chiedere il silenzio.
«Per favore! Non possiamo parlare tutti insieme. Voglio parlare io! Se no me ne vado» ci intimò con la sua aria da tricheco prepotente.
«Parli, parli pure, professore» dissi io.
Lui si guardò in giro, a controllare che la sua platea fosse attenta, poi allungò il collo da tapiro e disse soddisfatto:

Niccolò Ammaniti: La figlia di Siva



Una grassa signora americana con una Nikon a tracolla camminava per i luridi vicoli di una cittadina indiana.
I capelli biondi raccolti in un’unica treccia, la pelle bianca arrossata da quel sole forestiero.
Grossi occhiali con una montatura massiccia di tartaruga e legno di sandalo coprivano gli occhi miopi.
Era vestita con semplicità. Una maglietta azzurra e pantaloncini coloniali color panna. Ai piedi, sandali con la suola di sughero.
Aveva abbandonato il gruppo con cui era partita da Seattle per continuare a curiosare indisturbata nei vicoli di quella cittadina indiana.
Gli altri, stanchi del caldo e della bolgia, se n’erano tornati in albergo, a fare il bagno in piscina, a immergere i piedi gonfi nell’acqua tiepida.
Lei non capiva il loro atteggiamento di superiorità nei confronti degli indiani e il loro continuo fastidio per la povertà e la mancanza di igiene di quel Paese. Non riuscivano a vedere oltre la punta del loro naso. Quello, almeno secondo lei e altri luminari che si erano occupati del problema, era un sistema regolato perfettamente da secoli e aveva prodotto una tra le più complesse e affascinanti culture di tutto il pianeta.
Era stato terribilmente imbarazzante passare quei giorni con le sue amiche che non si erano avvicinate a un piatto locale, che non toccavano con le mani nemmeno i bambini per paura di chissà quali malattie mortali. Avevano finalmente mostrato il loro vero volto e questo l’aveva ferita. Razziste, questa era la parola. Era terribile vedere queste persone storcere il naso: tutto faceva loro schifo. O Dio che orrore! O Dio che impressione!

Niccolò Ammaniti: La pizza posseduta



“Scusi, lei è uno scrittore cannibale?”
Chi mi stava facendo questa domanda non era il solito giornalista, critico, lettore, ma una vecchietta piccolina e gobba, chiusa in una lunga vestaglia di flanella a fiori.
“Non ho capito... Che ha detto?”
“Ho detto: lei è uno scrittore cannibale?”
Se ne stava lì, come una testuggine, in piedi davanti alla porta di casa mia, appoggiata a un bastone nero e mi guardava dal basso del suo metro e mezzo, attraverso due fondi di bottiglia.
La vedova Menichelli.
Abitava nel mio palazzo. Al secondo o al terzo piano. E si vedeva raramente in giro. Usciva solo per andare a fare la spesa al supermarket SMEC di viale Regina, trascinandosi dietro un enorme carrello mezzo sfondato.
Non guardava in faccia nessuno. Non salutava nessuno. Quella era la prima volta che ci parlavo in vita mia.
“Allora, giovanotto, è o non è uno scrittore cannibale?” insistette spostandosi in bocca la dentiera.
Che le potevo rispondere?
Che non mi piacciono le etichette, che me l’hanno appiccicato addosso, che io sono uno scrittore e basta, insomma le solite cazzate che dico ogni volta a tutti?”
No.
Troppo complicato.
“Sissignora. Ha davanti uno Scrittore Cannibale. Che cosa posso fare per lei?”
“Bene, mi deve aiutare. Mio nipote Gianfranco è impazzito. Lei mi deve aiutare.”

Niccolò Ammaniti: Il libro nero di Sanremo





Mango se ne stava accasciato sulla poltrona del suo camerino e rifletteva che nonostante fosse da molti considerato l'unica vera alternativa alla tradizione musicale italiana e racchiudesse in sé tutte le caratteristiche più personali di un grande compositore e di un grande interprete, di tutto ciò, detto a chiare parole, non gliene poteva fregare di meno.
Mancavano ormai poche ore all'inizio del festival più importante del mondo e si sentiva depresso come poche volte gli era capitato di essere nella vita. L'esistenza della popstar lo aveva stancato. E odiava Sanremo con tutto il cuore. Un laido baraccone dove da più di dieci anni inscenava la farsa del compositore latino che riesce a raggiungere un respiro internazionale rimanendo imbevuto dello spirito della sua cultura. Ma quale cultura e cultura. Non sopportava più quella settimana di apnea che si doveva sciroppare ogni anno. Una tassa necessaria per poter sopravvivere. I giornalisti sempre a criticarti, il pubblico che si comporta come una banderuola. Pronti a esaltarti, a dirti che sei il più grande di tutti e poi appena molli un attimo, appena hai una normale crisi creativa ti buttano via come uno straccio. E poi c'era sua madre. Mariapia Mango aveva settantaquattro anni e viveva a Lagonegro, in Basilicata. Che errore terribile aveva fatto a montarle in casa il Salvavita Beghelli. Ma lui che ne poteva sapere, che quello era un oggetto infernale, fatto apposta per farti saltare i nervi. Gli era arrivato a casa un pacco dono dalla Beghelli, lo sponsor del festival, e dentro c'era un Salvalavista TV, un Salvalavista Computer 626 e il dannatissimo Salvavita. Lo aveva dato a sua madre, che diceva di soffrire di coronarie e quella ci si era attaccata come fosse un telecomando della TV. Per tre volte Mango si era precipitato a Lagonegro per scoprire che sua madre stava benissimo, era solo in pena per quel figlio che conduceva quella vita zingara. L'ultima volta, in preda a una crisi isterica, lo aveva strappato dal telefono e lo aveva gettato dalla finestra. Ma la madre aveva spedito la garanzia e con una astuzia malvagia era riuscita a farsene rimandare uno nuovo.
Mango si attaccò alla bottiglia di Uliveto e poi si studiò allo specchio. Aveva le occhiaie. Aprì la bocca e tirò fuori una lingua che sembrava un calzino da tennis. Il nuovo look, capello corto, basetta alta e barba sfatta non lo convinceva. Oramai aveva una certa età, non poteva continuare a fare l'adolescente. Tutta colpa di quella cretina della sua parrucchiera.
In questo oceano di dolore aveva almeno una consolazione. Quest'anno cantava “Luce”, un pezzo d'ispirazione new-age, in duo con Zenima, giovane scoperta della canzone italiana di origine mediorientale, le cui doti vocali fuori dal comune ben si sposavano con la raffinata ricerca vocale da sempre al centro della sua esperienza artistica. Oltre che essere una grande interprete era anche una ragazza sensibile, non una delle migliaia di buzzicone che affollavano il palco dell'Ariston. Praticava lo yoga ed era una buona conoscitrice della cultura orientale. Amava l'architettura e il teatro giapponese, le poesie di Emily Dickinson e la musica romantica mitteleuropea. La loro fusione avrebbe potuto far emergere una nuova linea melodica, intimista e meditata, che non aveva niente a che spartire con la merda dei Jalisse.

Niccolò Ammaniti: Alba tragica



Come l'uomo che cammina per una strada solitaria, avvolto nel terrore e nella paura, e dopo essersi guardato alle spalle, continua a camminare, senza voltarsi più, perché sa che un demonio spaventoso lo segue da vicino.

Samuel Taylor Coleridge, La ballata del vecchio marinaio.

"Ma che ore saranno?! E che fresco che fa."

Marcello Beretta se ne stava buttato, mezzo assiderato dal freddo, su una panchina di Villa Borghese. Continuava a guardarsi il polso sperando che per magia si materializzasse un orologio.

Era ubriaco.

Parlava da solo.

Erano le tre meno venti di notte. E la temperatura era di qualche grado appena sopra lo zero.

Marcello non era più un giovanotto e tutto quel gelo che gli si infiltrava nelle ossa non gli faceva bene.

Era grasso (il diabete mellito). Con una pancia tonda e gonfia che sembrava che si fosse ingoiato un pallone da basket. In testa gli cresceva un cespo intricato di capelli bianchi e stopposi. Macchie di barba nascondevano i danni dell'acne giovanile. Sotto la narice destra gli cresceva un neo nero, bitorzoluto e peloso che se. lo avesse visto un oncologo si sarebbe messo a urlare. Il nasone, storto per una pallonata presa in faccia da ragazzino, sembrava una patata lessa. E aveva due occhi piccoli, gialli e macchiati di sangue.

Tales of Mystery and Imagination