La prima volta che portai una ragazza del Nord nel mio paese mi facevano male le mani. Andai a prenderla alla stazione. Mentre aspettavo, avevo come un formicolio, uno di quelli che possono esser placati solo con uno schiaffo. Continuavo a grattarmi i palmi, alternando le mani. Sarà stato il nervosismo. Forse solo quello. Quando scese dal treno la caricai sulla Vespa e cercai di portarla via velocemente, senza lasciarle il tempo di accorgersi dov'era scesa. Non credo di essermi mai vergognato del posto dove sono cresciuto, ma a volte l'adolescenza pretende di poter prescegliere persino i luoghi, e poi dei particolari spazi di questi luoghi, e in quegli spazi particolari persino i momenti da assaporare e quelli da non provare mai.
Avrei voluto raggiungere subito i posti che consideravo degni di esser visti, ammirati, vissuti. Il lungomare dando le spalle al cemento e lo sguardo al largo, senza girarsi. I vitelli di bufala che nascono prima dell'estate facendo muggire le madri di un muggito che assomiglia a una bestemmia per il dolore. E il vitello che quando ha la pelle bagnata di placenta sembra portare sulla carne un mantello, uno di quelli che nelle fiabe coprono i maghi e sotto cui ti immagini di sparire in una notte di altri mondi. Tutto quello che poteva sembrare bello erano angoli, momenti, cose che potevi cogliere solo se ti concentravi e riuscivi a ignorare tutto il resto.