Tales of Mystery and Imagination

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Italo Calvino: Leggenda di Carlomagno

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L'imperatore Carlomagno in tarda età s'innamorò d'una ragazza tedesca. I baroni della corte erano molto preoccupati vedendo che il sovrano, tutto preso dalla sua brama amorosa, e dimentico della dignità regale trascurava gli affari dell'Impero. Quando improvvisamente la ragazza morì, i dignitari trassero un respiro di sollievo, ma per poco: perché l'amore di Carlomagno non morì con lei. L'imperatore, fatto portare il cadavere imbalsamato nella sua stanza, non voleva staccarsene. L'arcivescovo Turpino, spaventato da questa macabra passione, sospettò un incantesimo e volle esaminare il cadavere. Nascosto sotto la lingua morta, egli trovò un anello con una pietra preziosa. Dal momento in cui l'anello fu nelle mani di Turpino, Carlomagno s'affrettò a far seppellire il cadavere, e riversò il suo amore sulla persona dell'arcivescovo. Turpino, per sfuggire a quell'imbarazzante situazione gettò l'anello nel lago di Costanza. Carlomagno s'innamorò del lago e non volle più allontanarsi dalle sue rive.

Italo Calvino: La gallina di reparto

Italo Calvino


Il guardiano Adalberto aveva una gallina. Egli faceva parte del corpo di guardia interno d'un grande stabilimento; e questa gallina la teneva in un cortiletto della fabbrica; il capo dei guardiani gli aveva dato il permes­so. Gli sarebbe piaciuto di arrivare a farsi, col tempo, tutto un pollaio; e aveva cominciato comprando quella gallina, che gli era stata garantita come buona ovarola e come bestia silenziosa, che non avrebbe mai osato turba­re con un suo coccodè la severa atmosfera industriale. Difatti, non poteva dirsene scontento: gli faceva almeno un uovo al giorno, e si sarebbe detta, non fosse stato per qualche sommesso ciangottio, del tutto muta. Il permes­so che Adalberto aveva avuto riguardava, a dire il vero, l'allevamento in gabbia, ma essendo il terreno del cortile - da non molti anni conquistato alla civiltà meccanica - ricco non solo di viti arrugginite ma pure ancora di lom­brichi, alla gallina s'era tacitamente concesso d'andare becchettando intorno. Così essa andava e veniva pei re­parti, riservata e discreta, ben nota agli operai, e, per la sua libertà e irresponsabilità, invidiata.
Un giorno il vecchio tornitore Pietro aveva scoperto che il suo coetaneo Tommaso, collaudatore, veniva in fabbrica con le tasche piene di granone. Non immemore delle sue origini contadine, il collaudatore aveva subito valutato le doti produttive del volatile e collegando que­st'apprezzamento a un desiderio di rivalsa dalle anghe­rie subite, aveva intrapreso una cauta manovra per ami­carsi la gallina del guardiano e indurla a deporre le sue uova in una scatola di rottami che giaceva accanto al suo banco di lavoro.
Ogni qualvolta scopriva nell'amico un'astuzia segreta, Pietro restava male, perché era sempre lontano dall'a-spettarsela, e subito cercava di non essere da meno. Da quando stavano per diventare parenti, poi (suo figlio s'era messo in testa di sposare la figlia di Tommaso), liti­gavano sempre. Si munì lui pure di granone, preparò una cassetta di tornitura di ferro e, per quel tanto che glie lo permettevano le macchine cui aveva da badare, cercava di attirare la gallina. Così questa partita, che aveva per posta non tanto un uovo quanto una rivincita morale, si giocava più tra Pietro e Tommaso che tra i due ed Adalberto, il quale, poveretto, faceva le perquisi­zioni degli operai all'entrata e all'uscita, frugava borse e flanelle e non ne sapeva niente.
Pietro stava da solo in un angolo di reparto delimitato da un pezzo di parete," e che faceva come un locale a sé o «saletta», con una porta vetrata che dava su un cortile. Fino a qualche anno prima in questa saletta ci stavano due macchine e due operai: lui e un altro. A un certo punto quest'altro s'era messo in mutua per un'ernia, e Pietro provvisoriamente ebbe da badare a tutt'e due le macchine. Imparò a regolare i suoi movimenti com'era necessario: abbassava una leva in una macchina e anda­va a togliere il pezzo finito da quell'altra. L'ernioso fu operato, tornò, ma fu assegnato a un'altra squadra. Pie­tro restò definitivo alle due macchine; anzi, per fargli ca­pir bene che non era una casuale dimenticanza, venne un cronometrista a misurare i tempi e gliene fece ag­giungere una terza: aveva calcolato che tra le operazioni dell'una e dell'altra gli restava ancora qualche secondo libero. Poi, in una revisione generale dei cottimi, gli toc­cò, per far tornare non si sa bene quale somma, di pi­gliarsene una quarta. A sessant'anni suonati aveva do­vuto imparare a fare il quadruplo del lavoro nello stesso margine di tempo, ma poiché il salario restava immuta­to, la sua vita non ne ricevette grandi contraccolpi, tran­ne lo stabilizzarsi d'un'asma bronchiale e il vizio di ca­dere addormentato appena si sedeva, in qualsiasi com­pagnia o ambiente si trovasse. Ma era un vecchio robu­sto e soprattutto pieno di vitalità nel morale, e sempre sperava d'essere alla vigilia di grandi cambiamenti.

Italo Calvino: La signora Paulatim



Per sessanta secondi ferme e tese le nere lancette degli orologi elettrici della città con un salto da insetto tutte insieme si scagliano sul minuto successivo. Hop! I qua­drati occhi degli orologi a cifre scorrevoli abbassano di scatto una palpebra con su scritto un altro numero. Hop! Puntuale e improvviso come un colpo di singhioz­zo s'accende il verde del semaforo e dozzine di suole schiacciano gli acceleratori. Hop! Approdano alla riva dei salvagenti le frenate dei tram e il gradino della por­tiera batte tante metalliche nasate quanti piedi di pas­seggeri gli piovono addosso. Hop! Hop! Hop!
Roteano le porte girevoli delle banche e nell'acquario dei vetri naviga via un'infinita giostra di pesci col cap­pello e il cappotto; passa un esercito di tazzine sotto i becchi fumanti delle macchine espresso, sfila sugli spalti lucidi del banco, annega ancora intriso di oscuri resti di zucchero nell'acquaio; e le auto adesso puntano i musi verso il prossimo semaforo e quello dopo e quello dopo ancora permutanti l'uno dopo l'altro il loro rosso in ver­de fino all'ultimo là in fondo che mai nessuno potrà rag­giungere prima che il rosso riaccendendosi non abbia propagato un premere di freni lungo tutta la colonna. Il sole taglia a fette le vie, giostra il pulviscolo nell'aria. Scende dall'auto la signora Paulatim, davanti alla Far­maceutica Paulatim S. A.

Italo Calvino: Funghi in città


Il vento, venendo in città da lontano, le porta doni in­consueti, di cui s'accorgono solo poche anime sensibili, come i raffreddati del fieno, che starnutano per pollini di fiori d'altre terre.
Un giorno, sulla striscia d'aiolà d'un corso cittadino, capitò chissà donde una ventata di spore, e ci germinarono dei funghi. Nessuno se ne accorse tranne il mano­vale Marcovaldo che proprio lì prendeva ogni mattina il tram.
Aveva questo Marcovaldo un occhio poco adatto alla vita di città: cartelli, semafori, vetrine, insegne lumino­se, manifesti, per studiati che fossero a colpire l'atteri zione, mai fermavano il suo sguardo che pareva scorrere sulle sabbie del deserto. Invece, una foglia che ingiallis se su un ramo, una piuma che si impigliasse ad una te gola, non gli sfuggivano mai: non c'era tafano sul dorso d'un cavallo, pertugio di tarlo in una tavola, buccia di fi co spiaccicata sul marciapiede che Marcovaldo non no tasse, e non facesse oggetto di ragionamento, scoprendo i mutamenti della stagione, i desideri del suo animo, e In miseria della sua esistenza.
Così un mattino, aspettando il tram che lo portava aliti ditta dov'era uomo di fatica, notò qualcosa d'insolilu presso la fermata, nella striscia di terra sterile e incrosl.i ta che segue l'alberatura del viale: in certi punti, al cep po degli alberi, sembrava si gonfiassero bernoccoli dir qua e là s'aprivano e lasciavano affiorare tondeggianti corpi sotterranei.
Si chinò a legarsi le scarpe e guardò meglio: erano funghi, veri funghi, che stavano spuntando proprio nel cuore della città! A Marcovaldo parve che il mondo gri­gio e misero che lo circondava diventasse tutt'a un tratto generoso di ricchezze nascoste, e che dalla vita ci si po­tesse ancora aspettare qualcosa, oltre la paga oraria del salario contrattuale, la contingenza, gli assegni familiari e il caropane.

Italo Calvino: Campo di mine



-Minato, - così il vecchio aveva detto, facendo girare una mano aperta davanti agli occhi, come schiarisse un vetro appannato. - Tutto per lì, non si sa bene dove. So­no venuti e hanno minato. Noi stavamo nascosti.
L'uomo coi calzoni zuavi aveva guardato un po' il versante della montagna, un po' il vecchio ritto sulla porta.
- Ma dalla fine della guerra ad ora, - aveva detto, -c'era tempo di provvedere. Pure il passaggio ci deve es­sere. Qualcuno lo saprà bene.
«Tu, vecchio, lo sai bene», aveva anche pensato, per­ché di certo il vecchio era un contrabbandiere e conosce­va la frontiera come il fornello della sua pipa.
H vecchio aveva guardato i calzoni zuavi rattoppati, il tascapane sdrucito e floscio dell'uomo e quella crosta di polvere, dai capelli alle scarpe, che testimoniava quanti chilometri a piedi doveva aver fatto. - Non si sa bene dove, - aveva ripetuto. - Per il passo. Un campo di mi­ne -. E aveva fatto ancora quel gesto, come se ci fosse stato un vetro appannato tra lui e tutto il resto.
-    Dico, non sarò ancora tanto sfortunato di andare a battere proprio su una mina? - aveva chiesto l'uomo, con un sorriso che gli aveva legato i denti come un cachi acerbo.

Italo Calvino: Ultimo viene il corvo



La corrente era una rete di increspature leggere e traspa­renti, con in mezzo l'acqua che andava. Ogni tanto c'era come un battere d'ali d'argento a fior d'acqua: il lam­peggiare del dorso di una trota che riaffondava subito a zig-zag.
-  C'è pieno di trote, - disse uno degli uomini.
-  Se buttiamo dentro una bomba vengono tutte a gal­la a pancia all'aria, - disse l'altro; si levò una bomba dal­la cintura e cominciò a svitare il fondello.
Allora s'avanzò il ragazzo che li stava a guardare, un ragazzetto montanaro, con la faccia a mela. - Mi dai, -disse e prese il fucile a uno di quegli uomini. - Cosa vuole questo? - disse l'uomo e voleva togliergli il fucile. Ma il ragazzo puntava l'arma sull'acqua come cercando un bersaglio. «Se spari in acqua spaventi i pesci e nien-t'altro», voleva dire l'uomo ma non finì neanche. Era af­fiorata una trota, con un guizzo, e il ragazzo le aveva sparato una botta addosso, come l'aspettasse proprio lì. Ora la trota galleggiava con la pancia bianca. - Cribbio, - dissero gli uomini.
Il ragazzo ricaricò l'arma e la girò intorno. L'aria era tersa e tesa: si distinguevano gli aghi sui pini dell'altra riva e la rete d'acqua della corrente. Una increspatura saettò alla superficie: un'altra trota. Sparò: ora galleg­giava morta. Gli uomini guardavano un po' la trota un po' lui. - Questo spara bene, - dissero.
      Il ragazzo muoveva ancora la bocca del fucile in aria.

Italo Calvino: Il Giardino Incantato



Giovannino e Serenella camminavano per la strada ferrata. Giù c'era un mare tutto squame azzurro cupo azzurro chiaro; su, un cielo appena venato di nuvole bianche. I binari erano lucenti e caldi che scottavano. Sulla strada ferrata si camminava bene e si potevano fare tanti giochi: stare in equilibrio lui su un binario e lei sull'altro e andare avanti tenendosi per mano, oppure saltare da una traversina all'altra senza posare mai il piede sulle pietre. Giovannino e Serenella erano stati a caccia di granchi e adesso avevano deciso di esplorare la strada ferrata fin dentro la galleria. Giocare con Serenella era bello perché non faceva come tutte le altre bambine che hanno sempre paura e si mettono a piangere a ogni dispetto: quando Giovannino diceva: - Andiamo là, - Serenella lo seguiva sempre senza discutere.
Deng! Sussultarono e guardarono in alto. Era il disco di uno scambio ch'era scattato in cima a un palo. Sembrava una cicogna di ferro che avesse chiuso tutt'a un tratto il becco. Rimasero un po' a naso in su a guardare - che peccato non aver visto! Ormai non lo faceva più.
- Sta per venire un treno, - disse Giovannino.
Serenella non si mosse dal binario. - Da dove? chiese.
Giovannino si guardò intorno, con aria d'intendersene. Indicò il buco nero della galleria che appariva ora limpido ora sfocato, attraverso il tremito del vapore invisibile che si levava dalle pietre della strada.
- Di lì, - disse. Sembrava già di sentirne lo sbuffo incupito dalla galleria e vederselo tutt'a un tratto addosso, scalpitante fumo e fuoco, con le ruote che mangiavano i binari senza pietà.

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