Tales of Mystery and Imagination

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Italo Calvino: La gallina di reparto

Italo Calvino


Il guardiano Adalberto aveva una gallina. Egli faceva parte del corpo di guardia interno d'un grande stabilimento; e questa gallina la teneva in un cortiletto della fabbrica; il capo dei guardiani gli aveva dato il permes­so. Gli sarebbe piaciuto di arrivare a farsi, col tempo, tutto un pollaio; e aveva cominciato comprando quella gallina, che gli era stata garantita come buona ovarola e come bestia silenziosa, che non avrebbe mai osato turba­re con un suo coccodè la severa atmosfera industriale. Difatti, non poteva dirsene scontento: gli faceva almeno un uovo al giorno, e si sarebbe detta, non fosse stato per qualche sommesso ciangottio, del tutto muta. Il permes­so che Adalberto aveva avuto riguardava, a dire il vero, l'allevamento in gabbia, ma essendo il terreno del cortile - da non molti anni conquistato alla civiltà meccanica - ricco non solo di viti arrugginite ma pure ancora di lom­brichi, alla gallina s'era tacitamente concesso d'andare becchettando intorno. Così essa andava e veniva pei re­parti, riservata e discreta, ben nota agli operai, e, per la sua libertà e irresponsabilità, invidiata.
Un giorno il vecchio tornitore Pietro aveva scoperto che il suo coetaneo Tommaso, collaudatore, veniva in fabbrica con le tasche piene di granone. Non immemore delle sue origini contadine, il collaudatore aveva subito valutato le doti produttive del volatile e collegando que­st'apprezzamento a un desiderio di rivalsa dalle anghe­rie subite, aveva intrapreso una cauta manovra per ami­carsi la gallina del guardiano e indurla a deporre le sue uova in una scatola di rottami che giaceva accanto al suo banco di lavoro.
Ogni qualvolta scopriva nell'amico un'astuzia segreta, Pietro restava male, perché era sempre lontano dall'a-spettarsela, e subito cercava di non essere da meno. Da quando stavano per diventare parenti, poi (suo figlio s'era messo in testa di sposare la figlia di Tommaso), liti­gavano sempre. Si munì lui pure di granone, preparò una cassetta di tornitura di ferro e, per quel tanto che glie lo permettevano le macchine cui aveva da badare, cercava di attirare la gallina. Così questa partita, che aveva per posta non tanto un uovo quanto una rivincita morale, si giocava più tra Pietro e Tommaso che tra i due ed Adalberto, il quale, poveretto, faceva le perquisi­zioni degli operai all'entrata e all'uscita, frugava borse e flanelle e non ne sapeva niente.
Pietro stava da solo in un angolo di reparto delimitato da un pezzo di parete," e che faceva come un locale a sé o «saletta», con una porta vetrata che dava su un cortile. Fino a qualche anno prima in questa saletta ci stavano due macchine e due operai: lui e un altro. A un certo punto quest'altro s'era messo in mutua per un'ernia, e Pietro provvisoriamente ebbe da badare a tutt'e due le macchine. Imparò a regolare i suoi movimenti com'era necessario: abbassava una leva in una macchina e anda­va a togliere il pezzo finito da quell'altra. L'ernioso fu operato, tornò, ma fu assegnato a un'altra squadra. Pie­tro restò definitivo alle due macchine; anzi, per fargli ca­pir bene che non era una casuale dimenticanza, venne un cronometrista a misurare i tempi e gliene fece ag­giungere una terza: aveva calcolato che tra le operazioni dell'una e dell'altra gli restava ancora qualche secondo libero. Poi, in una revisione generale dei cottimi, gli toc­cò, per far tornare non si sa bene quale somma, di pi­gliarsene una quarta. A sessant'anni suonati aveva do­vuto imparare a fare il quadruplo del lavoro nello stesso margine di tempo, ma poiché il salario restava immuta­to, la sua vita non ne ricevette grandi contraccolpi, tran­ne lo stabilizzarsi d'un'asma bronchiale e il vizio di ca­dere addormentato appena si sedeva, in qualsiasi com­pagnia o ambiente si trovasse. Ma era un vecchio robu­sto e soprattutto pieno di vitalità nel morale, e sempre sperava d'essere alla vigilia di grandi cambiamenti.


Per otto ore al giorno, Pietro girava tra le quattro mac­chine, a ogni giro con la stessa progressione di gesti, co­sì noti ormai da aver potuto limarli d'ogni sbavatura su­perflua e da essere riuscito a regolare con precisione la cadenza dell'asma al ritmo del lavoro. Anche le sue pu­pille si muovevano secondo un tracciato preciso come quello degli astri, perché ogni macchina reclamava de­terminati colpi d'occhio, in modo da controllare che non s'inceppasse e non gli mandasse a monte il cottimo.
Dopo la prima mezz'ora di lavoro Pietro era già stan­co, e ai suoi timpani i rumori della fabbrica s'impastavano in un unico ronzio di fondo, sul quale risaltava il rit­mo combinato delle sue macchine. Sulla spinta di questo ritmo, andava avanti quasi intontito, finché dolce co­me il profilarsi della costa al naufrago non avvertiva il gemito delle cinghie di trasmissione che rallentavano la corsa e si fermavano, per un guasto o per la fine dell'o­rario.
Ma tale inesauribile cosa è la libertà dell'uomo, che pure in queste condizioni il pensiero di Pietro riusciva a tessere la sua ragnatela da una macchina all'altra, a flui­re continuo come il filo di bocca al ragno, e in mezzo a quella geometria di passi gesti sguardi e riflessi egli a tratti si ritrovava padrone di sé e tranquillo come un nonno campagnolo che esce di mattino tardo sotto la pergola, e mira il sole, e fischia al cane, e sorveglia i nipoti che si dondolano ai rami, e guarda giorno per gior­no maturare i fichi.
Certo, questa libertà di pensieri era raggiungibile solo attraverso una tecnica speciale, lunga da apprendere: bastava per esempio saper interrompere il corso del pensiero nel momento in cui la mano doveva accompagnare il pezzo sotto il tornio, e continuarlo invece quasi appoggiandolo al pezzo che procedeva per la scannella­tura, e approfittare soprattutto del momento in cui c'era da camminare, perché mai si pensa bene come quando si percorre un tratto di strada ben noto, anche se qui si trattava solo di due passi: uno-due, ma quante mai cose si potevano pensare nel tragitto: una vecchiaia felice, tutta di domeniche trascorse sulle piazze a intendere co­mizi, vicino agli altoparlanti a orecchie tese, un impiego per il figlio disoccupato, e poi subito trovarsi con una ni­diata di nipoti pescatori nelle sere d'estate tutti con la lenza sui murazzi del fiume, e una scommessa da pro­porre all'amico Tommaso, sul ciclismo, o sulla crisi del governo ma tanto grossa da togliergli per un po' la vo­glia d'essere così testone - e nello stesso tempo correre con lo sguardo alla cinghia di trasmissione che non sfug­gisse, a quel solito punto, dalla ruota.
«Se a mag... (alza la leva!)... gio mio figlio sposa la fi­glia di quel barbagianni... (ora accompagna il pezzo sot­to il tornio!) sgomberiamo la stanza grande... (e facendo i due passi:)... così gli sposi la domenica mattina restan­do a letto insieme fino a tardi vedranno dalla finestra le montagne... (ed ora abbassa quella leva là!) e io e la mia vecchia ci arrangiamo nella stanza piccola... (metti a po­sto quei pezzi!)... tanto noi anche se dalla finestra vedia­mo il gasometro non fa differenza», e di qui passando a un altr'ordine di ragionamenti, come se l'immagine del gasometro vicino a casa l'avesse richiamato alla realtà quotidiana, o forse perché un intoppo momentaneo del tornio gli aveva ispirato un atteggiamento combattivo: «Seilrepartolaminatoipromuoveunagitazioneperlaque-stionedeicottimi, noi possiamo... (attenzione! s'è messo storto!)... affiancarci... (attenzione!) ... con la rive... con la rivendicazione (è andato, accidenti!) del passaggio di categoria delle nostre spe...cia... lizza...zioni...»

Così il moto delle macchine condizionava e insieme sospingeva il moto dei pensieri. E dentro a quest'armatura meccanica, il pensiero a poco a poco s'adattava agi­le e soffice come il corpo snello e muscoloso di un giova­ne cavaliere rinascimentale s'adatta nella sua armatura, e riesce a tendere e rilassare i bicipiti per sgranchire il braccio addormentato, a stirarsi, a strofinare la scapola che gli prude contro il ferreo schienale, a contrarre le na­tiche, a spostare i testicoli schiacciati contro la sella, e a divaricare l'alluce dal secondo dito: così si dispiegava e snodava il pensiero di Pietro in quella prigione di tensio­ne nervosa, d'automatismo e di stanchezza.
Perché non c'è carcere senza i suoi spiragli. E così an­che nel sistema che pretende d'utilizzare fin le minime frazioni di tempo, si giunge a scoprire che con una certa organizzazione di propri gesti c'è il momento in cui ci s'apre davanti una meravigliosa vacanza di qualche se­condo, tanto da fare tre passi per conto proprio avanti e indietro, o grattarsi la pancia, o cantarellare: «Pò, pò, pò...» e, se il capo-officina non è lì a dar noia, c'è il tem­po, tra un'operazione e l'altra, di dire due parole ad un collega.
Ecco dunque che all'apparire della gallina Pietro pote­va fare «chiò... chiò... chiò...» e mentalmente paragona­re il proprio girare su se stesso tra le quattro macchine, lui così grosso e piedipiatti, ai movimenti della gallina; e cominciava a lasciar cadere quella scia di chicchi di gra­none che doveva, continuando fino alla cassetta dei tru­cioli di ferro, attirare il volatile a fare l'uovo per lui e non per lo sbirro Adalberto né per l'amico-rivale Tom­maso.

Ma né il nido di Pietro né quello di Tommaso ispirava­no la gallina. Pareva che lei il suo uovo lo scodellasse al­l'alba, nella gabbia d'Adalberto, prima di cominciare i! suo giro nei reparti. E sia il tornitore che il collaudatore presero l'abitudine di acchiapparla e di tastarle l'addo­me appena la vedevano. La gallina, domestica d'indole come un gatto, lasciava fare, ma era sempre vuota.
Va detto che da qualche giorno Pietro non era più so­lo, a quelle quattro macchine. Cioè, il controllo delle macchine restava tutto a lui ma s'era stabilito che un certo numero di pezzi avevano bisogno d'una rifinitura, e un operaio armato di raspa ne prendeva ogni tanto una manciata e li portava a un suo deschetto installato lì vicino, e frin-frin, fron-fron, tranquillo tranquillo se li grattava per dieci minuti. A Pietro aiuto non ne dava, anzi lo imbrogliava capitandogli sempre tra i piedi, ed era chiaro che le sue vere mansioni erano altre. Era, co­stui, un tipo già ben noto agli operai, e aveva pure un soprannome: Giovannino della Puzza.
Era un mingherlino, nero nero, capelluto, ricciuto, col naso in su che tirava dietro anche il labbro. Dove fosse stato pescato non si sa; si sa che il primo posto che gli toccò in fabbrica, appena assunto, fu quello di addetto alla manutenzione dei gabinetti; ma in realtà doveva sta­re lì tutto il giorno in ascolto e riferire. Cosa ci fosse di così importante da sentire nei gabinetti non si seppe mai bene; pare che due della Commissione Interna, o di chissaqualaltra diavoleria dei sindacati, visto che non c'era modo di barattare parola in altro posto senz'essere licenziati su due piedi, scambiassero le idee da un gabi­netto all'altro, fingendosi lì per i bisogni loro. Non che i cessi degli operai d'una fabbrica siano posti tranquilli, senza porte come sono o con solo un basso sportello che lascia scoperti testa e busto perché nessuno possa fer­marsi lì a fumare, e coi guardiani che vengono a vedere ogni tanto che non ci si resti troppo e se stai lì a defecare o a riposarti, ma comunque, in confronto al resto dello stabilimento, sono luoghi sereni ed accoglienti. Fatto sta che quei due furono accusati di far della politica nell'o­rario di lavoro e licenziati: qualcuno che li aveva denun­ciati ci doveva essere e non si tardò a identificare Gio­vannino della Puzza, come d'allora in poi venne chiamato. Se ne stava là chiuso, era primavera, e lui sentiva tutto il giorno rumori d'acqua, crosci, tonfi, rogli; e so­gnava liberi torrenti ed aria pura. Nessuno parlava più nei cessi. E lo tolsero. Uomo senz'arte, fu assegnato ora a una squadra ora all'altra, con mansioni sommarie e d'evidente inutilità, e con segreti incarichi di sorveglian­za, manovrato da disordinate paure di dirigenti sempre in allarme; e dovunque i compagni di lavoro gli voltava­no muti le schiene, e non degnavano d'uno sguardo quelle superflue operazioni che s'ingegnava di compiere alla meglio.
Adesso era finito alle calcagna d'un operaio vecchio, sordo e solo. Cosa poteva scoprire? Era giunto anche lui all'ultimo gradino, prima d'esser messo sulla strada, co­me le vittime delle sue denunce? E Giovannino della Puzza si scervellava per cogliere una pista, un sospetto, un indizio. Era il momento buono; tutta la fabbrica in al­larme, gli operai che bollivano, la direzione a pelo ritto. E Giovannino era da un po' che macinava una sua idea. Tutti i giorni, verso una cert'ora, entrava nel reparto una gallina. E il tornitore Pietro la toccava. L'attirava a sé con due chicchi di granturco, le s'avvicinava, e le metteva una mano proprio sotto. Cosa mai poteva voler dire? Era un sistema per passarsi dei messaggi segreti da un reparto all'altro? Giovannino ne era ormai convinto. Il gesto di Pietro con la gallina era proprio come chi cer­chi o ficchi qualcosa tra le piume del volatile. E un gior­no, Giovannino della Puzza, quando Pietro lasciò la gal­lina, la seguì. La gallina attraversò il cortile, salì su una catasta di putrelle di ferro - e Giovannino la seguì in equilibrio -, si cacciò in un segmento di conduttura - e Giovannino la seguì carponi -, percorse un altro pezzo di cortile ed entrò nel reparto dei collaudi. Là c'era un altro vecchio che pareva l'aspettasse: stava spiando al­l'entrata il suo apparire, e appena la vide lasciò martello e cacciavite e le andò incontro. La gallina era in confi­denza anche con lui, tanto che si lasciò sollevare per le zampe, e, anche qui!, toccare sotto la coda. Giovannino era sicuro ormai d'avere fatto un grosso colpo. «Il mes­saggio - pensò - viene trasmesso tutti i giorni da Pietro a questo qui. Domani, appena la gallina parte da Pietro io la faccio arrestare e perquisire».
L'indomani Pietro, dopo avere senza convinzione ta­stato ancora una volta la gallina e averla melanconicamente rideposta al suolo, vide Giovannino della Puzza piantar lì la sua raspa e andar via quasi di corsa.
Al suo annuncio d'allarme, il servizio di guardia si di­spose alla cattura. Sorpresa nel cortile mentre becchetta­va larve di insetto di tra i bulloni seminati nella polvere, la gallina fu tradotta nell'ufficio del capo della sorve­glianza.
Adalberto non ne sapeva ancora niente. Poiché non era esclusa una sua connivenza nell'affare, l'operazione fu svolta a sua insaputa. Convocato al comando, appena vide sulla scrivania del capo la gallina immobilizzata tra le mani di due suoi colleghi, per poco gli occhi non gli si empirono di lacrime. - Cos'ha fatto? Come mai? Io la te­nevo sempre chiusa in gabbia! - cominciò a dire, pen­sando che gli fosse fatta colpa d'averla lasciata girare per la fabbrica.
Ma le accuse erano ben più gravi, non tardò ad accor­gersene. Il capo del servizio lo tempestò di domande. Era un ex maresciallo dei carabinieri a riposo, e sugli ex carabinieri della guardia continuava a esercitare l'autori­tà del rapporto gerarchico dell'arma. Nell'interrogatorio, più che l'amore per la gallina, più che le speranze del futuro pollicoltore, potè su Adalberto la paura di com­promettersi. Mise le mani avanti, cercò di giustificarsi per aver lasciato libero il volatile, ma alle domande sui rapporti tra la gallina e i sindacati non osò compromet­tersi a scagionarla né a scusarla. Si trincerò dietro una serie di «io non so, io non c'entro», preoccupato solo che risultasse esclusa ogni sua responsabilità nella fac­cenda.

La buona fede del guardiano fu riconosciuta; ma lui col pianto in gola e una stretta di rimorso guardava la gallina abbandonata al suo destino.
Il maresciallo ordinò che fosse perquisita. Degli agenti uno si schermì dicendo che gli dava il voltastomaco, e un altro dopo un assalto di beccate s'allontanò succhian­dosi un dito sanguinante. Alla fine vennero fuori gli im­mancabili esperti, ben lieti di dar prova di zelo. L'ovi­dotto risultò mondo da missive contrarie agli interessi dell'azienda o d'altro genere. Esperto delle varie tecni­che di guerra, il maresciallo ordinò che si frugasse sotto le ali, dove il Genio Colombofili usa celare i suoi mes­saggi in speciali bossoletti sigillati. Si frugò, si seminò di penne e piume e zacchere la scrivania, ma nulla fu tro­vato.
Ciononostante, considerata troppo sospetta e infida per essere innocente, la gallina fu condannata. Nello squallido cortile due uomini in divisa nera la trattennero per le zampe mentre un terzo le tirava il collo. Lanciò un lungo straziante ultimo grido, un lugubre coccodè, lei così discreta da non aver mai osato lanciarne di festosi. Adalberto si coprì il viso con mano. Il suo mite sogno d'un pollaio pigolante era spezzato sul nascere. Così la macchina dell'oppressione sempre si volta contro chi la serve. Il titolare dell'azienda, preoccupato perché dove­va ricevere la commissione degli operai che protestava­no per i licenziamenti, sentì dal suo studio il grido di morte della gallina e n'ebbe un triste presentimento.

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