Tales of Mystery and Imagination

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Dino Buzzati: Ombra del Sud

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Tra le case pencolanti, le balconate a traforo marce di polvere, gli anditi fetidi, le pareti calcinate, gli aliti della sozzura annidata in ogni interstizio, sola in mezzo a una via io vidi a Porto Said una figura strana. Ai lati, lungo i piedi delle case, si muoveva la gente miserabile del quartiere; e benché a pensarci bene non fosse molta, pareva che la strada ne formicolasse, tanto il brulichìo era uniforme e continuo. Attraverso i veli della polvere e i riverberi abbacinanti del sole, non riuscivo a fermare l'attenzione su alcuna cosa, come succede nei sogni. Ma poi, proprio nel mezzo della via (una strada qualsiasi identica alle mille altre, che si perdeva a vista d'occhio in una prospettiva di baracche fastose e crollanti) proprio nel mezzo, immerso completamente nel sole, scorsi un uomo, un arabo forse, vestito di una larga palandrana bianca, in testa una specie di cappuccio - o così mi parve - ugualmente bianco. Camminava lentamente in mezzo alla strada, come dondolando, quasi stesse cercando qualcosa, o titubasse, o fosse anche un poco storno. Si andava allontanando tra le buche polverose sempre con quel suo passo d'orso, senza che nessuno gli badasse e l'insieme suo, in quella strada e in quell'ora, pareva concentrare in sé con straordinaria intensità tutto il mondo che lo contornava.
Furono pochi istanti. Solo dopo che ne ebbi tratto via gli sguardi mi accorsi che l'uomo, e specialmente il suo passo inconsueto mi erano di colpo entrati nell'animo senza che sapessi spiegarmene la ragione. "Guarda che buffo quello là in fondo!" dissi al compagno, e speravo da lui una parola banale che riportasse tutto alla normalità (perché sentivo essere nata in me certa inquietudine). Ciò dicendo diressi ancora gli sguardi in fondo alla strada per osservarlo.
"Chi buffo?" fece il mio compagno. Io risposi: "Ma sì, quell'uomo che traballa in mezzo alla strada".
Mentre dicevo così l'uomo disparve. Non so se fosse entrato in una casa, o in un vicolo, o inghiottito dal brulichìo che strisciava lungo le case, o addirittura fosse svanito nel nulla, bruciato dai riverberi meridiani. "Dove? dove?" disse il mio compagno e io risposi: "Era là, ma adesso è scomparso".
Poi risalimmo in macchina e si andò in giro benché fossero appena le due e facesse caldo. L'inquietudine non c'era più e si rideva facilmente per stupidaggini qualsiasi, fino a che si giunse ai confini del borgo indigeno dove i falansteri polverosi cessavano, cominciava la sabbia e al sole resistevano alcune baracche luride, che per pietà speravo fossero disabitate. Invece, guardando meglio, mi accorsi che un filo di fumo, quasi invisibile tra le vampate del sole, saliva su da uno di quei tuguri, alzandosi con fatica al cielo. Uomini dunque vivevano là dentro, pensai con rimorso, mentre rimuovevo un pezzetto di paglia da una manica del mio vestito bianco.
Stavo così gingillandomi con queste filantropie da turista quando mi mancò il respiro. "Che gente!" stavo dicendo al compagno. "Guarda quel ragazzetto con una terrina in mano, per esempio, che cosa spera di..." Non terminai perché gli sguardi, non potendo sostare per la luce su alcuna cosa e vagando irrequieti, si posarono su di un uomo vestito di una palanàrana bianca, che se n'andava dondolando al di là dei tuguri, in mezzo alla sabbia, verso la sponda di una laguna.

Dino Buzzati: La sosia

Dino Buzzati


Mi ricordo, raccontava di un certo Luigi Bertàn, un bravo giovanotto, di buona famiglia, unico figlio, orfano, fidanzato di una certa Màrion, una delle più belle ragazze di Treviso. Ma questa stupenda creatura muore, che non ha ancora diciott’anni, peritonite o che so io. Ora nessuno può immaginare la disperazione del Bertàn. Si chiude in casa, non vuol più vedere nessuno.
I vecchi amici battono alla porta: «Gino, fatti almeno vedere, noi tutti si capisce il tuo dolore, ma questa è una esagerazione, tu che eri il più allegro di noi, tu che eri l’anima della compagnia». Ma lui niente, non risponde, non apre, insomma un caso pietoso.
Credere o non credere, per due anni interi così. Finché un giorno due dei vècchi amici riescono, supplicando, a farsi aprire. Lo abbracciano, cercano di consolarlo, era diventato uno scheletro, con una barba lunga così.
«Senti, Gino, hai sofferto abbastanza, non puoi assolutamente continuare, hai il dovere di ritornare alla vita».
Fatto è che, per tirarlo su, gli amici gli combinano una festa in suo onore, invitano un sacco di belle ragazze, champagne, musica, allegria. E bisognava vederlo, quella sera, Gino Bertàn, sbarbato, col vestito delle grandi occasioni, sembrava diventato un altro, brillante e spiritoso come ai bei tempi.
Ma a un certo punto della festa lui si apparta in un angolo con una bionda e parla, parla, parla, come fanno gli innamorati.
«Chi è quella bionda»? uno domanda.
Rispondono: «Non so, deve essere forestiera, da queste parti non si è mai vista».
Rispondono: «Pare che sia una amica della Sandra Bortolin». Dicono: «Comunque, lasciamolo in pace, Dio voglia che questa bionda gli faccia passare le paturnie». Dicono: «Si vede proprio che è il suo tipo. Mica per niente, ve ne siete accorti? ha gli stessi occhi della povera Màrion». «E’ vero, è vero, accidenti come le assomiglia».
Per tutta la sera quei due insieme, fino a che la festa si scioglie, erano già passate le ore tre.
Gino accompagnerà la bella in macchina a casa. Escono, lei ha un brivido, si è messo infatti a soffiare il vento.

Dino Buzzati: Le mure di Anagoor

Dino buzzati-giovane



Nell'interno del Tibesti una guida indigena mi domandò se per caso volevo vedere le mura della città di Anagoor, lui mi avrebbe accompagnato. Guardai la carta ma la città di Anagoor non c'era. Neppure sulle guide turistiche, che sono così ricche di particolari, vi si faceva cenno.
Io dissi: «Che città è questa che sulle carte geografiche non è segnata?».
Egli rispose: «È una città grande, ricchissima e potente ma sulle carte geografiche non è segnata perché il nostro Governo la ignora, o finge di ignorarla. Essa fa da sé e non obbedisce. Essa vive per conto suo e neppure i ministri del re possono entrarvi. Essa non ha commercio alcuno con altri paesi, prossimi o lontani. Essa è chiusa. Essa vive da secoli entro la cerchia delle sue solide mura. E il fatto che nessuno ne sia mai uscito non significa forse che vi si vive felici?».
«Le carte» io insistetti «non registrano nessuna città di nome Anagoor, ciò fa supporre che sia una delle tante leggende di questo paese; tutto dipende probabilmente dai miraggi che il riverbero del deserto crea, nulla di più.»
«Ci conviene partire due ore prima dell'alba» disse la guida indigena che si chiamava Magalon, come se non avesse udito. «Con la tua macchina, signore, arriveremo in vista di Anagoor verso mezzodì. Verrò a prenderti alle tre del mattino, mio signore.»
«Una città come quella che tu dici sarebbe registrata sulle carte con un doppio cerchio e il nome in tutto stampatello. Invece non trovo alcun riferimento a una città di nome Anagoor, la quale evidentemente non esiste. Alle tre sarò pronto, Magalon.»
Coi fari accesi alle tre del mattino si partì in direzione pressappoco sud sulle piste del deserto e mentre fumavo una sigaretta dopo l'altra con la speranza di scaldarmi vidi alla mia sinistra illuminarsi l'orizzonte e subito venne fuori il sole che si mise a battere il deserto finché fu tutto caldo e tremolante, tanto che si vedevano laghi e paludi intorno, in cui si riflettevano le rocce con precisione di contorni, ma di acqua non c'era in verità neanche un secchiello, soltanto sabbia e sassi incandescenti.
Ma la macchina con estrema buona volontà correva e alle 11,37 in punto Magalon che mi sedeva al fianco disse:

Dino Buzzati: Una cosa che comincia per elle

Dino Buzzati



Arrivato al paese di Sisto e sceso alla solita locanda, dove soleva capitare due tre volte all'anno, Cristoforo Schroder, mercante in legnami, andò subito a letto, perché non si sentiva bene. Mandò poi a chiamare il medico dottor Lugosi, ch'egli conosceva da anni. Il medico venne e sembrò rimanere perplesso. Escluse che ci fossero cose gravi, si fece dare una bottiglietta di orina per esaminarla e promise di tornare il giorno stesso.
Il mattino dopo lo Schroder si sentiva molto meglio, tanto che volle alzarsi senza aspettare il dottore. In maniche di camicia stava facendosi la barba quando fu bussato all'uscio. Era il medico. Lo Schroder disse di entrare. " Sto benone stamattina" disse il mercante senza neppure voltarsi, continuando a radersi dinanzi allo specchio. " Grazie di essere venuto, ma adesso potete andare." "Che furia, che furia!" disse il medico, e poi fece un colpettino di tosse a esprimere un certo imbarazzo. " Sono qui con un amico, questa mattina. "
Lo Schroder si voltò e vide sulla soglia, di fianco al dottore, un signore sulla quarantina, solido, rossiccio in volto e piuttosto volgare, che sorrideva insinuante. Il mercante, uomo sempre soddisfatto di sé e solito a far da padrone, guardò seccato il medico con aria interrogativa.
"Un mio amico " ripeté il Lugosi " Don Valerio Melito. Più tardi dobbiamo andare insieme da un malato e così gli ho detto di accompagnarmi. "
" Servitor suo " fece lo Schroder freddamente. " Sedete, sedete."
" Tanto " proseguì il medico per giustificarsi maggiormente " oggi, a quanto pare, non c'è più bisogno di visita. Tutto bene, le orine. Solo vorrei farvi un piccolo salasso. "
" Un salasso? E perché un salasso? "
" Vi farà bene" spiegò il medico. " Vi sentirete un altro, dopo. Fa sempre bene ai temperamenti sanguigni. E poi è questione di due minuti. "
Così disse e trasse fuori dalla mantella un vasetto di vetro contenente tre sanguisughe. L'appoggiò ad un tavolo e aggiunse: " Mettetevene una per polso. Basta tenerle ferme un momento e si attaccano subito. E vi prego, di fare da voi. Cosa volete che vi dica? Da vent'anni che faccio il medico, non sono mai stato capace di prendere in mano una sanguisuga ".
" Date qua " disse lo Schroder con quella sua irritante aria di superiorità. Prese il vasetto, si sedette sul letto e si applicò ai polsi le due sanguisughe come se non avesse fatto altro in vita sua.
Intanto il visitatore estraneo, senza togliersi l'ampio mantello, aveva deposto sul tavolo il cappello e un pacchetto oblungo che mandò un rumore metallico. Lo Schroder notò, con un senso di vago malessere, che l'uomo si era seduto quasi sulla soglia come se gli premesse di stare lontano da lui.
" Don Valerio, voi non lo immaginate, ma vi conosce già " disse allo Schroder il medico, sedendosi pure lui, chissà perché, vicino alla porta.

Dino Buzzati: L'assalto al grande convoglio

Dino Buzzati



Arrestato in una via del paese e condannato soltanto per contrabbando - poiché non lo avevano riconosciuto - Gaspare Planetta, il capo brigante, rimase tre anni in prigione.
Ne venne fuori cambiato. La malattia lo aveva consunto, gli era cresciuta la barba, sembrava piuttosto un vecchietto che non il famoso capo brigante, il miglior schioppo conosciuto, che non sapeva sbagliare un colpo.
Allora, con le sue robe in un sacco, si mise in cammino per Monte Fumo, che era stato il suo regno, dove erano rimasti i compagni. Era una domenica di giugno quando si addentrò per la valle in fondo alla quale c'era la loro casa. I sentieri del bosco non erano mutati: qua una radice affiorante, là un caratteristico sasso ch'egli ricordava bene. Tutto come prima.
Siccome era festa, i briganti si erano riuniti alla casa. Avvicinandosi, Planetta udì voci e risate. Contrariamente all'uso dei suoi tempi, la porta era chiusa.
Batté due tre volte. Dentro si fece silenzio. Poi domandarono: «Chi è?».
«Vengo dalla città» egli rispose «vengo da parte di Planetta.»
Voleva fare una sorpresa, ma invece quando gli aprirono e gli si fecero incontro, Gaspare Planetta si accorse subito che non l'avevano riconosciuto. Solo il vecchio cane della compagnia, lo scheletrico Tromba, gli saltò addosso con guaiti di gioia.
Da principio i suoi vecchi compagni, Cosimo, Marco, Felpa ed anche tre quattro facce nuove gli si strinsero attorno, chiedendo notizie di Planetta. Lui raccontò di avere conosciuto il capo brigante in prigione; disse che Planetta sarebbe stato liberato fra un mese e intanto aveva mandato lui lassù per sapere come andavano le cose. Dopo poco però i briganti si disinteressarono del nuovo venuto e trovarono pretesti per lasciarlo. Solo Cosimo rimase a parlare con lui, pur non riconoscendolo.
«E al suo ritorno cosa intende fare?» chiedeva accennando al vecchio capo, in carcere.
«Cosa intende fare?» fece Planetta «forse che non può tornare qui?»
«Ah, sì, sì, io non dico niente. Pensavo per lui, pensavo. Le cose qui sono cambiate. E lui vorrà comandare ancora si capisce, ma non so...»
«Non sai che cosa?»

Dino Buzzati: Lo scarafaggio




Rincasato tardi, schiacciai uno scarafaggio che in corridoio mi fuggiva tra i piedi (restò là nero sulla piastrella) poi entrai nella camera. Lei dormiva. Accanto, mi coricai, spensi la luce, dalla finestra aperta vedevo un pezzo di muro e di cielo. Era caldo, non riuscivo a dormire, vecchie storie rinascevano dentro di me, dubbi anche, generica sfiducia nel domani. Lei diede un piccolo lamento. "Che cos'hai?" chiesi. Lei aprì un occhio grande che non mi vedeva, mormorò: "Ho paura". "Paura di che cosa?" chiesi. "Ho paura di morire". "Paura di morire? E perchè?"
Disse: "Ho sognato..." Si strinse un poco vicino. "Ma che cosa hai sognato?" "Ho sognato ch'ero in campagna , ero seduta sul bordo di un fiume e ho sentito delle grida lontane...e io dovevo morire."
"Sulla riva di un fiume?" "Sì" disse "sentivo le rane... cra cra facevano". "E che ora era?" "Era sera, e ho sentito gridare". "Bè, dormi, adesso sono quasi le due." "Le due?" ma non riusciva a capire, il sonno l'aveva già ripresa.
Spensi la luce e udii che qualcuno rimestava giù in cortile. Poi salì la voce di un cane, acuta e lunga; sembrava che si lamentasse. Salì in alto, passando dinnanzi alla finestra, si perse nella notte calda. Poi si aprì una persiana (o si chiuse?). Lontano, lontanissimo, ma forse mi sbagliavo, un bambino si mise a piangere. Poi ancora l'ululato del cane, lungo più di prima. Io non riuscivo a dormire.
Delle voci d'uomo vennero da qualche altra finestra. Erano sommesse, come borbottate in dormiveglia. Cip, Cip, zitevitt, udii da un balcone sotto, e qualche sbattimento d'ali.
"Florio!" si udì chiamare all'improvviso, doveva essere due o tre case più in là. "Florio!" pareva una donna, donna angosciata, che avesse smarrito il figlio.
Ma perchè il canarino di sotto si era svegliato? Che cosa c'era? Con un cigolio lamentoso, quasi la spingesse adagio adagio uno che non voleva farsi sentire, una porta si aprì in qualche parte della casa. Quanta gente sveglia a quest'ora, pensai. Strano, a quest'ora.

Dino Buzzati: Il disco si posò




Era sera e la campagna già mezza addormentata, dalle vallette levandosi lanugini di nebbia e il richiamo della rana solitaria che però subito taceva (l’ora che sconfigge anche i cuori di ghiaccio, col cielo limpido, l’inspiegabile serenità del mondo, l’odor di fumo, i pipistrelli e nelle antiche case i passi felpati degli spiriti), quand’ecco il disco volante si posò sul tetto della chiesa parrocchiale, la quale sorge al sommo del paese.
All’insaputa degli uomini che erano già rientrati nelle case, l’ordigno si calò verticalmente giù dagli spazi, esitò qualche istante, mandando una specie di ronzio, poi toccò il tetto senza strepito, come colomba. Era grande, lucido, compatto, simile a una lenticchia mastodontica; e da certi sfiatatoi continuò a uscire zufolando un soffio. Poi tacque e restò fermo, come morto.
Lassù nella sua camera che dà sul tetto della chiesa, il parroco, don Pietro, stava leggendo, col suo toscano in bocca. All’udire l’insolito ronzio, si alzò dalla poltrona e andò ad affacciarsi al davanzale. Vide allora quel coso straordinario, colore azzurro chiaro, diametro circa dieci metri.
Non gli venne paura, né gridò, neppure rimase sbalordito. Si è mai meravigliato di qualcosa il fragoroso e imperterrito don Pietro? Rimase là, col toscano, ad osservare. E quando vide aprirsi uno sportello, gli bastò allungare un braccio: là al muro c’era appesa la doppietta.
Ora sui connotati dei due strani esseri che uscirono dal disco non si ha nessun affidamento. È un tale confusionario, don Pietro. Nei successivi suoi racconti ha continuato a contraddirsi. Di sicuro si sa solo questo: ch’erano smilzi e di statura piccola, un metro un metro e dieci. Però lui dice anche che si allungavano e si accorciavano come fossero di elastico. Circa la forma, non si è capito molto: «Sembravano due zampilli di fontana, più grossi in cima e stretti in basso» così don Pietro «sembravano due spiritelli, sembravano due insetti, sembravano scopette, sembravano due grandi fiammiferi.» «E avevano due occhi come noi?» «Certo, uno per parte, però piccoli.» E la bocca? e le braccia? e le gambe? Don Pietro non sapeva decidersi: «In certi momenti vedevo due gambette e un secondo dopo non le vedevo più... Insomma, che ne so io? Lasciatemi una buona volta in pace!».

Dino Buzzati: La Giacca Stregata



Benché io apprezzi l’eleganza nel vestire, non bado, di solito, alla perfezione o meno con cui sono tagliati gli abiti dei miei simili. Una sera tuttavia, durante un ricevimento in una casa di Milano conobbi un uomo, dall’apparente età di quarant’anni, il quale letteralmente risplendeva per la bellezza, definitiva e pura, del vestito. Non so chi fosse, lo incontravo per la prima volta, e alla presentazione, come succede sempre, capire il suo nome fu impossibile. Ma a un certo punto della sera mi trovai vicino a lui, e si cominciò a discorrere. Sembrava un uomo garbato e civile, tuttavia con un alone di tristezza. Forse con esagerata confidenza – Dio me ne avesse distolto – gli feci i complimenti per la sua eleganza; e osai perfino chiedergli chi fosse il suo sarto. L’uomo ebbe un sorrisetto curioso, quasi che si fosse aspettato la domanda.
«Quasi nessuno lo conosce» disse «però è un gran maestro. E lavora solo quando gli gira. Per pochi iniziati.»
«Dimodoché io… ?»
«Oh, provi, provi. Si chiama Corticella, Alfonso Corticella, via Ferrara 17.»
«Sarà caro, immagino.»
«Lo presumo, ma giuro che non lo so. Quest’abito me l’ha fatto da tre anni e il conto non me l’ha ancora mandato.»
«Corticella? Via Ferrara 17, ha detto?»
«Esattamente» rispose lo sconosciuto. E mi lasciò per unirsi ad un altro gruppo.In via Ferrara 17 trovai una casa come tante altre e come quella di tanti altri sarti era l’abitazione di Alfonso Corticella. Fu lui che venne ad aprirmi. Era un vecchietto, coi capelli neri, però sicuramente tinti.

Dino Buzzati: Le gobbe nel giardino



Quando è scesa la notte a me piace fare una passeggiata nel giardino. Non crediate io sia ricco. Un giardino come il mio lo avete tutti. E più tardi capirete il perché. Nel. buio, ma non è proprio completamente buio perché dalle finestre accese della casa un vago riverbero viene, nel buio io cammino sul prato, le scarpe un poco affondando nell'erba, e intanto penso, e pensando alzo gli occhi a guardare il cielo se è sereno e, se ci sono le stelle, le osservo domandandomi tante cose. Però certe notti non mi faccio domande, le stelle se ne stanno lassù sopra di me stupidissime e non mi dicono niente. Ero un ragazzo quando facendo la mia passeggiata notturna inciampai in un ostacolo. Non vedendo, accesi un fiammifero. Sulla liscia superficie del prato c'era una protuberanza e la cosa era strana. Forse il giardiniere avrà fatto un lavoro, pensai, gliene chiederò ragione domani mattina.
All'indomani chiamai il giardiniere, il suo nome era Giacomo. Gli dissi: «Che cosa hai fatto in giardino, nel prato c'è come una gobba, ieri sera ci sono incespicato e questa mattina appena si è fatta luce l'ho vista. È una gobba stretta e oblunga, assomiglia a un tumulo mortuario. Mi vuoi dire che cosa succede? ». « Non è che assomiglia, signore» disse il giardiniere Giacomo « è proprio un tumulo mortuario. Perché ieri, signore, è morto un suo amico. »
Era vero. Il mio carissimo amico Sandro Bartoli di ventun anni era morto in montagna col cranio sfracellato.
« E tu vuoi dire » dissi a Giacomo « che il mio amico è stato sepolto qui? »
« No » lui rispose « il suo amico signor Bartoli » egli disse cosi perché era delle vecchie generazioni e perciò ancor rispettoso « è stato sepolto ai piedi delle montagne che lei sa. Ma qui nel giardino il prato si è sollevato da solo, perché questo è il suo giardino, signore, e tutto ciò che succede nella sua vita, signore, avrà un seguito precisamente qui. »

Dino Buzzati: La fine del mondo



Un mattino verso le dieci un pugno immenso comparve nel cielo sopra la città; si aprì poi lentamente ad artiglio e così rimase immobile come un immenso baldacchino della malora. Sembrava di pietra e non era pietra, sembrava di carne e non era, pareva anche fatto di nuvola, ma nuvola non era. Era Dio; e la fine del mondo. Un mormorio che poi si fece mugolio e poi urlo, si propagò per i quartieri, finché divenne una voce sola, compatta e terribile, che saliva a picco come una tromba.
Luisa e Pietro si trovavano in una piazzetta, tepida a quell'ora di sole, recinta da fantasiosi palazzi e parzialmente da giardini. Ma in cielo, a un'altezza smisurata era sospesa la mano. Finestre si spalancavano tra grida di richiamo e spavento, mentre l'urlo iniziale della città si placava a poco a poco; giovani signore discinte si affaccia vano a guardare l'apocalisse. Gente usciva dalle case, per lo più correndo, sentivano il bisogno di muoversi, di fare qualcosa purchessia, non sapevano però dove sbattere il capo. La Luisa scoppiò in un pianto dirotto: " Lo sapevo " balbettava tra i singhiozzi " che doveva finire così... mai in chiesa, mai dire le preghiere... me ne fregavo io, me ne fregavo, e adesso... me la sentivo che doveva andare a finire così!... ". Che cosa poteva mai dirle Pietro per consolarla?
Si era messo a piangere pure lui come un bambino. Anche la maggior parte della gente era in lacrime, specialmente le donne. Soltanto due frati, vispi vecchietti, se n'andavano lieti come pasque: " La è finita, per i furbi, adesso! " esclamavano gioiosamente, procedendo di buon passo, rivolti ai passanti più ragguardevoli. " L'avete smessa di fare i furbi, eh? Siamo noi i furbi adesso! " (e ridacchiavano). " Noi sempre minchionati, noi creduti cretini, lo vediamo adesso chi erano i furbi! " Allegri come scolaretti trascorrevano in mezzo alla crescente turba che li guardava malamente senza osare reagire. Erano già scomparsi da un paio di minuti per un vicolo, quando un signore fece come l'atto istintivo di gettarsi all'inseguimento, quasi si fosse lasciata sfuggire un'occasione preziosa: " Per Dio! " gridava battendosi la fronte " e pensare che ci potevano confessare. " " Accidenti! " rincalzava un altro " che bei cretini siamo stati! Capitarci così sotto il naso e noi lasciarli andare! " Ma chi poteva più raggiungere i vispi fraticelli?
Donne e anche omaccioni già tracotanti, tornavano intanto dalle chiese, imprecando, delusi e scoraggiati. I confessori più in gamba erano spariti - si riferiva - probabilmente accaparrati dalle maggiori autorità e dagli industriali potenti. Stranissimo, ma i quattrini conservavano meravigliosamente un certo loro prestigio benché si fosse alla fine del mondo; chissà, forse, si considerava che mancassero ancora dei minuti, delle ore; qualche giornata magari. In quanto ai confessori rimasti disponibili, si era formata nelle chiese una tale spaventosa calca, che non c'era neppure da pensarci. Si parlava di gravi incidenti accaduti appunto per l'eccessivo affollamento; o di lestofanti travestiti da sacerdoti che si offrivano di raccogliere confessioni anche a domicilio, chiedendo prezzi favolosi. Per contro giovani coppie si appartavano precipitosamente senza più ombra di ritegno, distendendosi sui prati dei giardini, per fare ancora una volta l'amore. La mano intanto si era fatta di colore terreo, benché il sole splendesse, e faceva quindi più paura. Cominciò a circolare la voce che la catastrofe fosse imminente; alcuni garantivano che non si sarebbe giunti a mezzogiorno.

Dino Buzzati: Il corridoio del grande albergo



Rientrato nella mia camera d’albergo a tarda ora, mi ero già mezzo spogliato quando ebbi bisogno di andare alla toilette.

La mia camera era quasi in fondo a un corridoio interminabile e poco illuminato; circa ogni venti metri tenui lampade violacee proiettavano fasci di luce sul tappeto rosso. Giusto a metà, in corrispondenza di una di queste lampadine, c’erano da una parte la scala, dall’altra la doppia porta a vetri del locale.

Indossata una vestaglia, uscii nel corridoio ch’era deserto. Ed ero quasi giunto alla toilette quando mi trovai di fronte a un uomo pure in vestaglia che, sbucato dall’ombra, veniva dalla parte opposta. Era un signore alto e grosso con una tonda barba alla Edoardo VII. Aveva la mia stessa meta? Come succede, entrambi si ebbe un istante di imbarazzo, per poco non ci urtammo. Fatto è che io, chissà come, mi vergognai di entrare al gabinetto sotto i suoi sguardi e proseguii, come se mi dirigessi altrove. E lui fece lo stesso.

Ma, dopo pochi passi, mi resi conto della stupidaggine commessa. Infatti, che potevo fare? Le eventualità erano due: o proseguire fino in fondo al corridoio e poi tornare indietro, sperando che il signore con la barba nel frattempo se ne fosse andato. Ma non era detto che costui dovesse entrare in una stanza e lasciare così libero il campo; forse anch’egli voleva andare alla toilette e, incontrandomi, si era vergognato, esattamente come avevo fatto io; e ora si trovava nella stessa mia imbarazzante situazione. Perciò, tornando sui miei passi, rischiavo d’incontrarlo un’altra volta e di fare ancora di più la figura del cretino.

Dino Buzzati: Sette piani



Dopo un giorno di viaggio in treno, Giuseppe Corte arrivò, una mattina di marzo, alla città dove c'era la famosa casa di cura. Aveva un po' di febbre, ma volle fare ugualmente a piedi strada fra la stazione e l'ospedale, portandosi la sua valigetta. Benché avesse soltanto una leggerissima forma incipiente, Giuseppe Corte era stato consigliato di rivolgersi al celebre sanatorio, dove non si curava che quell'unica malattia. Ciò garantiva un'eccezionale competenza nei medici e la più razionale ed efficace sistemazione d'impianti.

Quando lo scorse da lontano - e lo riconobbe per averne già visto la fotografia in una circolare pubblicitaria - , Giuseppe Corte ebbe un'ottima impressione. Il bianco edificio a sette piani era solcato da regolari rientranze che gli davano una fisionomia vaga d'albergo. Tutt'attorno era una cinta di alti alberi. Dopo una sommaria visita medica, in attesa di un esame più accurato Giuseppe Corte fu messo in una gaia camera del settimo ed ultimo piano. I mobili erano chiari e lindi come la tappezzeria, le poltrone erano di legno, i cuscini rivestiti di policrome stoffe. La vista spaziava su uno dei più bei quartieri della città. Tutto era tranquillo, ospitale e rassicurante.

Dino Buzzati: Ragazza che precipita



A diciannove anni, Marta si affacciò dalla sommità del grattacielo e, vedendo di sotto la città risplenderenella sera, fu presa dalle vertigini. Il grattacielo era d’argento, supremo e felice in quella sera bellissima e pura, mentre il vento stirava sottilifilamenti di nubi, qua e là, sullo sfondo di un azzurro assolutamente incredibile. Era infatti l’ ora che le città vengono prese dall’ispirazione e chi non è cieco ne resta travolto.
Dall’ aereo culmine la ragazza vedeva le strade e le masse dei palazzi contorcersi nel lungo spasimo del tramonto e là dove il bianco delle case finiva,cominciava il blu del mare che visto dall’ alto sembrava in salita. E siccome dall’ oriente avanzavano i velari della notte, la città divenne un dolce abisso brulicante di luci; che palpitava. C’erano dentro gli uominipotenti e le donne ancora di più, le pellicce e i violini, le macchine smaltate d’onice, le insegne fosforescentidei tabarins, gli androni delle spente regge, le fontane, i diamanti, gli antichi giardini taciturni, le feste, idesideri, gli amori e, sopra tutto, quello struggente incantesimo della sera per cui si fantastica di grandezza edi gloria.Queste cose vedendo, Marta si sporse perdutamente oltre la balaustra e si lasciò andare. Le parve di librarsi nell’aria, ma precipitava. Data la straordinaria altezza del grattacielo, le strade e le piazze laggiù in fondoerano estremamente lontane, chissà quanto tempo per arrivarci. Ma la ragazza precipitava.Le terrazze e i balconi degli ultimi piani erano popolati in quell’ora da gente elegante e ricca che prendeva cocktails e faceva sciocche conversazioni. Ne venivano fiotti sparsi e confusi di musiche. Marta vi passò dinanzi e parecchi si affacciarono a guardarla.Voli di quel genere - nella maggioranza appunto ragazze - non erano rari nel grattacielo e costituivano pergli inquilini un diversivo interessante; anche perciò il prezzo di quegli appartamenti era altissimo.Il sole, non ancora del tutto disceso, fece del suo meglio per illuminare il vestitino di Marta. Era un modestoabito primaverile comprato-fatto per pochi soldi. Ma la luce lirica del tramonto lo esaltava alquanto,rendendolo chic.Dai balconi dei miliardari, mani galanti si tendevano verso di lei, offrendo fiori e bicchieri. « Signorina, unpiccolo drink?... Gentile farfalla, perché non si ferma un minuto tra noi? »Lei rideva, svolazzando, felice (ma intanto precipitava): « No, grazie, amici. Non posso. Ho fretta d’arrivare.»« Di arrivare dove? » le chiedevano.« Ah, non fatemi parlare » rispondeva Marta e agitava le mani in atto di confidenziale saluto.

Dino Buzzati: La Torre Eiffel



Quando lavoravo nella costruzione della Torre Eiffel, quelli si erano tempi. E non sapevo di essere felice. La costruzione della Torre Eiffel fu una cosa bellissima e molto importante. Oggi voi non potete rendervene conto. Ciò che è oggi la Torre Eiffel ha ben poco a che fare con la realtà di allora. Intanto, le dimensioni. Si è come rat­trappita. Io le passo sotto, alzo gli occhi e guardo. Ma stento a riconoscere il mondo dove vissi i più bei giorni della mia vita. I turisti entrano nell'ascensore, salgono alla prima terrazza, salgono alla seconda terrazza, esclamano, ridono, prendono fotografie, girano pellicole a colori. Po­veracci, non sanno, non potranno mai sapere. Si legge nelle guide che la Torre Eiffel è alta trecento metri, più venti metri dell'antenna radio. Anche i giornali dell'epoca, prima ancora che cominciassero i lavori, dicevano cosi. E trecento metri al pubblico sembravano già una pazzia.
Altro che trecento. Io lavoravo alle officine Runtiron, presso Neuilly. Ero un bravo operaio meccanico. Una sera che mi avviavo per rincasare, mi ferma per strada un signore sui quarantanni con cilindro. « Parlo col signor ' André Lejeune? » mi chiede. « Precisamente » rispondo. « E lei chi è? » « Io sono l'ingegnere Gustavo Eiffel e vorrei farle una proposta. Ma prima dovrei farle vedere una cosa. Que­sta è la mia carrozza. »
Salgo sulla carrozza dell'ingegnere, mi porta a un capannone costruito in un prato della periferia. Qui ci saranno una trentina di giovani che lavorano in silenzio a dei grandi tavoli da disegno. Nessuno mi degna di uno sguardo.
L'ingegnere mi conduce in fondo alla sala dove, appog­giato al muro, sta un quadro alto un paio di metri con disegnata una torre. « Io costruirò per Parigi, per la Fran­cia, per il mondo, questa torre che lei vede. Di ferro. Sarà la torre più alta del mondo. » « Alta quanto? » domandai.

Dino Buzzati: Una goccia



Una goccia Una goccia d'acqua sale i gradini della scala. La senti? Disteso in letto nel buio, ascolto il suo arcano cammino. Come fa? Saltella? Tic, tic, si ode a intermittenza. Poi la goccia si ferma e magari per tutta la rimanente notte non si fa più viva. Tuttavia sale. Di gradino in gradino viene su, a differenza delle altre gocce che cascano perpendicolarmente, in ottemperanza alla legge di gravità, e alla fine fanno un piccolo schiocco, ben noto in tutto il mondo. Questa no: piano piano si innalza lungo la tromba delle scale lettera E dello sterminato casamento. 
Non siamo stati noi, adulti, raffinati, sensibilissimi, a segnalarla. Bensì una servetta del primo piano, squallida piccola ignorante creatura. Se ne accorse una sera, a ora tarda, quando tutti erano già andati a dormire. Dopo un po' non seppe frenarsi, scese dal letto e corse a svegliare la padrona. «Signora» sussurrò «signora!» «Cosa c'è?» fece la padrona riscuotendosi. «Cosa succede?» «C'è una goccia, signora, una goccia che vien su per le scale! » «Che cosa?» chiese l'altra sbalordita. « Una goccia che sale i gradini! » ripeté la servetta, e quasi si metteva a piangere. «Va, va» imprecò la padrona « sei matta? Torna in letto, marsch! Hai bevuto, ecco il fatto, vergognosa. E un pezzo che al mattino manca il vino nella bottiglia! Brutta sporca, se credi » Ma la ragazzetta era fuggita, già rincantucciata sotto le coperte. Chissà che cosa le sarà mai saltato in mente, a quella stupida" pensava poi la padrona, in silenzio, avendo ormai perso il sonno. Ed ascoltando involontariamente la notte che dominava sul mondo, anche lei udì il curioso rumore. Una goccia saliva le scale, positivamente.     

Dino Buzzati: Il mantello



Dopo interminabile attesa quando la speranza già cominciava a morire, Giovanni ritornò alla sua casa. Non erano ancora suonate le due, sua mamma stava sparecchiando, era una giornata grigia di marzo e volavano cornacchie.
Egli comparve improvvisamente sulla soglia e la mamma gridò: «Oh benedetto!» correndo ad abbracciarlo. Anche Anna e Pietro, i due fratellini molto più giovani, si misero a gridare di gioia. Ecco il momento aspettato per mesi e mesi, così spesso balenato nei dolci sogni dell'alba, che doveva riportare la felicità.
Egli non disse quasi parola, troppa fatica costandogli trattenere il pianto. Aveva subito deposto la pesante sciabola su una sedia, in testa portava ancora il berretto di pelo. «Lasciati vedere» diceva tra le lacrime la madre, tirandosi un po' indietro «lascia vedere quanto sei bello. Però sei pallido, sei.»
Era alquanto pallido infatti e come sfinito. Si tolse il berretto, avanzò in mezzo alla stanza, si sedette. Che stanco che stanco, perfino a sorridere sembrava facesse fatica. «Ma togliti il mantello, creatura» disse la mamma, e lo guardava come un prodigio, sul punto d'esserne intimidita; com'era diventato alto, bello fiero (anche se un po' troppo pallido). «Togliti il mantello, dammelo qui, non senti che caldo?» Lui ebbe un brusco movimento di difesa, istintivo, serrandosi addosso il mantello, per timore forse che glielo strappassero via.
«No, no lasciami» rispose evasivo «preferisco di no, tanto tra poco devo uscire...»

Tales of Mystery and Imagination