Tales of Mystery and Imagination

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Italo Calvino: Campo di mine



-Minato, - così il vecchio aveva detto, facendo girare una mano aperta davanti agli occhi, come schiarisse un vetro appannato. - Tutto per lì, non si sa bene dove. So­no venuti e hanno minato. Noi stavamo nascosti.
L'uomo coi calzoni zuavi aveva guardato un po' il versante della montagna, un po' il vecchio ritto sulla porta.
- Ma dalla fine della guerra ad ora, - aveva detto, -c'era tempo di provvedere. Pure il passaggio ci deve es­sere. Qualcuno lo saprà bene.
«Tu, vecchio, lo sai bene», aveva anche pensato, per­ché di certo il vecchio era un contrabbandiere e conosce­va la frontiera come il fornello della sua pipa.
H vecchio aveva guardato i calzoni zuavi rattoppati, il tascapane sdrucito e floscio dell'uomo e quella crosta di polvere, dai capelli alle scarpe, che testimoniava quanti chilometri a piedi doveva aver fatto. - Non si sa bene dove, - aveva ripetuto. - Per il passo. Un campo di mi­ne -. E aveva fatto ancora quel gesto, come se ci fosse stato un vetro appannato tra lui e tutto il resto.
-    Dico, non sarò ancora tanto sfortunato di andare a battere proprio su una mina? - aveva chiesto l'uomo, con un sorriso che gli aveva legato i denti come un cachi acerbo.

-    Eh, - il vecchio aveva detto. Così soltanto: - Eh -. Ora l'uomo cercava di ricordarsi l'intonazione di quel­l'ai. Perché avrebbe potuto essere un eh, ci mancherebbe,
0 un eh, non si sa mai, o un eh, niente di più facile. Ma il vecchio aveva detto solo un eh senza nessuna intonazio­ne, brullo come il suo sguardo, come il terreno di quelle montagne su cui anche l'erba era corta e dura come una barba umana mal rasa.
Le piante delle rive non arrivavano ad alzarsi più su del cespuglio, con di tanto in tanto un albero di pino storto e gommoso, messo in modo da fare meno ombra che poteva. L'uomo camminava adesso per i rimasugli dei sentieri che salivano il versante, mangiati di anno in anno dai cespugli e battuti solo dal passo dei contrab­bandieri, passo da selvatico che lascia poca traccia.
- Terra maledetta, - diceva l'uomo coi calzoni zuavi. -Non vedo l'ora di essere sull'altro versante -. Per fortu­na aveva già compiuto il tragitto altra volta prima della guerra, e poteva fare a meno di guida. Sapeva anche che il passo era .un grande vallone in salita, che non si poteva minarlo tutto.
Poi sarebbe bastato stare attento a dove metteva i pie­di: un posto con sotto una mina doveva ben avere qual­cosa di diverso da tutti gli altri posti. Qualcosa: terra smossa, pietre posate ad arte, erba più giovane. Lì, per esempio, si vedeva subito che non potevano esserci mi­ne. Non potevano? E quella lastra di ardesia sollevata? E quella striscia nuda in mezzo al prato? E quel tronco ab­battuto sul passaggio? S'era fermato. Ma il passo era an­cora distante, non ci potevano essere mine, ancora: pro­seguì.
Forse avrebbe preferito traversare i terreni minati di notte strisciando nel buio, non per sfuggire le pattuglie confinarie, che quelli erano posti sicuri, ma per sfuggire alla paura delle mine, come se le mine fossero state delle grandi bestie sonnacchiose, che potessero svegliarsi al suo passaggio. Marmotte: delle enormi marmotte accoc­colate in tane sotterranee, con una che faceva la guardia dall'alto di un sasso, come usano le marmotte, e dava l'allarme al vederlo, con un sibilo.

«A quel sibilo, - pensava l'uomo, - il campo minato salta in aria: le marmotte enormi si precipitano contro di me e mi sbranano a morsi».
Ma mai uomo era stato morsicato dalle marmotte, mai lui sarebbe saltato in aria sulle mine. Era la fame, a sug­gerirgli quei pensieri; l'uomo lo sapeva, conosceva la fa­me, gli scherzi della fantasia dei giorni di fame, quando ogni cosa vista o sentita prende un significato di cibo o di morsi.
Le marmotte c'erano, però. Se ne sentiva il sibilo: ghiii... ghiii... dall'alto delle pietraie. «Riuscissi ad am­mazzare una marmotta con un sasso, - pensò l'uomo, -ad arrostirla infilata a uno stecco».
Pensò all'odore di grasso di marmotta, ma senza nau­sea; la fame gli metteva voglia anche di grasso di mar­motta, di qualsiasi cosa si potesse masticare. Da una set­timana girava per i casolari, faceva visita ai pastori per elemosinare un pane di segale, una tazza di latte ca­gliato.
- Ne avessimo per noi. Non si ha niente, - dicevano e gli indicavano le pareti nude e fumose, guarnite solo di qualche treccia d'aglio.
Arrivò in vista del passo prima che se l'aspettasse. Eb­be un moto di stupore, quasi di spavento, subito: non si aspettava fossero fioriti i rododendri. Credeva di trovare davanti a sé il vallone nudo, di poter studiare ogni pie­tra, ogni cespuglio prima di mettere avanti un passo, in­vece si trovò affondato fino al ginocchio in un mare di rododendri, un mare uniforme, impenetrabile da cui sporgeva solo il dorso delle pietre grige.
E sotto, le mine. - Non si sa bene dove, - aveva detto il vecchio. - Tutto per lì -. E aveva girato per l'aria quel­le mani aperte. All'uomo dai calzoni zuavi sembrava di vedere l'ombra di quelle mani posarsi sulla distesa di ro­dodendri, espandersi fino a coprirla.
S'era scelto una direzione di marcia, lungo un'anfrat­tuosita parallela al vallone, scomoda a camminarci, ma scomoda anche per chi volesse minarla. Più in su i rodo­dendri diradavano e tra le pietre si sentiva il ghiii... ghiii... delle marmotte, senza tregua come il sole sulla nuca.
«Dove ci sono marmotte, - pensò, piegando in quella direzione, - è segno che non c'è minato».
Ma era un ragionamento sbagliato: le mine erano anti­uomo, il peso di una marmotta non bastava a farle bril­lare. Solo allora si ricordò che le mine si chiamavano an­ti-uomo, e questo lo spaventò.
«Anti-uomo, - si ripeteva, - anti-uomo».
Quel nome era bastato a mettergli paura, tutt'a un tratto. Certo, se minavano un passo, era per renderlo del tutto impraticabile: gli conveniva tornare indietro, interrogare meglio gli uomini dei dintorni, tentare un'al­tra via.
Si girò per tornare indietro. Ma dove aveva posato il piede, prima? I rododendri si stendevano alle sue spalle come un mare vegetale, impenetrabile, senza tracce del suo passaggio. Forse egli era già in mezzo al campo mi­nato, un passo falso avrebbe potuto perderlo: tanto va­leva proseguire.
«Terra maledetta, - pensò. - Terra maledetta fino al­l'ultimo».
Avesse avuto un cane, un grosso cane pesante come un uomo, da mandare avanti. Gli venne fatto di schioc­care la lingua come se incitasse un cane a correre. «Devo fare da cane a me stesso», pensò.
Forse bastava una pietra. Ce n'era una accanto a lui, grossa ma sollevabile, che faceva al caso. L'afferrò con due mani e la gettò davanti a sé il più lontano possibile, in salita. La pietra non cadde lontano e rotolò indietro verso di lui. Non c'era che tentare la sorte, così.
Era già nella parte alta del vallone, tra le pietraie infi­de. Le colonie di marmotte avevano sentito l'uomo ed erano in allarme. L'aria era punta dal loro stridere come da spine di cactus.
Ma l'uomo non pensava più a dar loro la caccia. Si era accorto che il vallone, assai spazioso all'imbocco, s'era andato man mano restringendo, e ormai non era che un canalone di rocce e di arbusti. Allora l'uomo comprese: il campo minato non poteva essere che lì. Solo in quel punto un certo numero di mine, poste alla distanza do­vuta, potevano sbarrare tutti i passaggi obbligati. Que­sta scoperta anziché terrorizzarlo, gli diede una strana tranquillità. Bene: ormai egli si trovava in mezzo al cam­po minato, era certo. Ormai non c'era che continuare a salire a caso, andasse come voleva. Se era destino che lui morisse quel giorno, sarebbe morto; se no, sarebbe passato tra una mina e l'altra e si sarebbe salvato.
Formulò questo pensiero sul destino senza convinzio­ne: non credeva al destino. Certo, se egli faceva un pas­so era perché non poteva fare diversamente, era perché il movimento dei suoi muscoli, il corso dei suoi pensieri lo portavano a fare quel passo. Ma c'era un momento in cui poteva fare tanto un passo quanto l'altro, in cui i pensieri erano in dubbio, i muscoli tesi senza direzione. Decise di non pensare, di lasciar muovere le gambe co­me un automa, di mettere i passi a caso sulle pietre; ma sempre aveva il dubbio che fosse la sua volontà a sce­gliere se voltarsi a destra o a sinistra, se posare un piede su una pietra o sull'altra.
Si fermò. Aveva una strana smania addosso, fatta di fame e di paura, che non sapeva soddisfare. Cercò nelle tasche: aveva con sé uno specchietto, ricordo di una donna. Forse era questo che voleva: guardarsi in uno specchio. Nel pezzetto di vetro appannato apparve un occhio, gonfio e arrossato; poi una guancia incrostata di polvere e di pelo; poi le labbra aride screpolate, le gengi­ve più rosse delle labbra, i denti... Pure l'uomo avrebbe voluto vedersi in un grande specchio, vedersi tutto. Far girare quel pezzetto di specchio intorno al viso per ve­dersi un occhio, un orecchio, non lo soddisfaceva.
Proseguì. «Non ho incontrato il campo di mine fino ad ora, - pensò. - Ormai ci saranno cinquanta, quaranta passi... »
Ogni volta che posava il piede, al sentire sotto di sé la terra dura e ferma, tirava il respiro. Un passo è fatto, un altro, un altro ancora. Questa lastra di galestro sembra­va un trabocchetto, invece è solida; questo cespo di erica non nasconde niente: questa pietra... la pietra sotto il suo peso affondò di due dita. - Ghiii... ghiii... - faceva­no le marmotte. Avanti, l'altro piede.
La terra che divenne sole, l'aria che divenne terra, il ghiii delle marmotte che divenne tuono. L'uomo sentì una mano di ferro che lo afferrava per i capelli, alla nu­ca. Non una mano, ma cento mani che lo afferravano ognuna per un capello e lo strappavano fino ai piedi, co­me si strappa un foglio di carta, in centinaia di piccoli pezzi.

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