“Scusi, lei è uno scrittore cannibale?”
Chi mi stava facendo questa domanda non era il solito giornalista, critico, lettore, ma una vecchietta piccolina e gobba, chiusa in una lunga vestaglia di flanella a fiori.
“Non ho capito... Che ha detto?”
“Ho detto: lei è uno scrittore cannibale?”
Se ne stava lì, come una testuggine, in piedi davanti alla porta di casa mia, appoggiata a un bastone nero e mi guardava dal basso del suo metro e mezzo, attraverso due fondi di bottiglia.
La vedova Menichelli.
Abitava nel mio palazzo. Al secondo o al terzo piano. E si vedeva raramente in giro. Usciva solo per andare a fare la spesa al supermarket SMEC di viale Regina, trascinandosi dietro un enorme carrello mezzo sfondato.
Non guardava in faccia nessuno. Non salutava nessuno. Quella era la prima volta che ci parlavo in vita mia.
“Allora, giovanotto, è o non è uno scrittore cannibale?” insistette spostandosi in bocca la dentiera.
Che le potevo rispondere?
Che non mi piacciono le etichette, che me l’hanno appiccicato addosso, che io sono uno scrittore e basta, insomma le solite cazzate che dico ogni volta a tutti?”
No.
Troppo complicato.
“Sissignora. Ha davanti uno Scrittore Cannibale. Che cosa posso fare per lei?”
“Bene, mi deve aiutare. Mio nipote Gianfranco è impazzito. Lei mi deve aiutare.”
“Come, è impazzito? Che è successo?”
“Sì, si è chiuso nel...” per un attimo sembrò imbarazzata, ma poi: “... gabinetto. E non ne vuole più uscire. Sta lì, mangia gelato Hägen-Datz e legge dei libri terribili, che vanno tanto di moda ora. E pensare che è iscritto a Economia e Commercio alla Luiss e ha la media del ventotto...”
“Ah, bene, e io che posso fare?”
La vecchia non si prese neanche la briga di rispondermi, mi afferrò una mano e mi trascinò in ascensore.
Perché proprio io? Perché dovevo parlarci io con Gianfranco?
Mentre scendevamo continuavo a tormentarmi senza trovare una risposta.
Ma una volta arrivati al secondo piano, davanti alla porta del suo appartamento, fu proprio lei a spiegarmelo: “L’ho vista, sa. L’ho vista alla televisione. Parlava del male, della violenza. Quindi lei conosce la cattiveria umana. E mio nipote è cattivo. Molto cattivo. Mi odia. Odia tutti, il mondo intero. Venga, lei sa che fare...” “No, aspetti, aspetti. Io non...”
La porta si aprì cigolando sui cardini e la vecchia mi fece entrare in casa. E mi fu subito chiaro, lampante come un’insegna al neon, che in quell’appartamento c’era qualcosa che non andava proprio.
Qualche spirito malvagio si era impossessato di quell’appartamento di 90 metri quadri, due servizi e cucina.
Tutte le lampadine crepitavano, si spegnevano e si riaccendevano, faceva un freddo glaciale e c’era una tormenta nonostante le finestre fossero chiuse. I lampadari di Murano tintinnavano e dondolavano agitati dal vento. Le porte delle stanze si aprivano e si chiudevano sbattendo. La carta da parati del corridoio era strappata, graffiata, stracciata come se una bestia selvaggia e idrofobica vi si fosse accanita sopra con violenza. Le mattonelle di graniglia ballavano sotto i piedi come se qualcuno le avesse staccate e rimesse a posto senza il cemento.
“Non faccia caso al disordine. Venga avanti. Si accomodi. C’è un po’ di confusione, lo so, colpa di mio nipote. Si gela, vero? Odio l’IMPDAI, questi taccagni non accendono mai il riscaldamento...”
Poggiai una mano sul termosifone. Bollente.
Spiai nella stanza da letto della vecchia. Una collezione di bambole antiche, con la testa di porcellana, fluttuava sospesa in aria sopra il letto su cui c’erano un mucchio di scatole di Baci Perugina scadute e scarafaggi.
Era tempo di smammare.
“Signora Menichelli, senta... mi sono ricordato che ho un appuntamento con il mio pranoterapeuta... Devo andare. Non posso, veramente...”
Ero avvinghiato a un termosifone per non farmi trascinare via dal vento. La vecchia Menichelli se ne stava invece tranquilla, come se ci fosse stata solo una gentile brezza di ventilatore.
“Allora lei è un poveretto? Avevo ragione io. Lei è buono solo a scrivere quelle quattro cretinate che solo gli editori italiani sono così imbecilli da pubblicare, ma poi di fronte a un piccolo evento soprannaturale se la fa sotto, eh? Venga avanti. Forza. Venga, venga a vedere come è ridotto mio nipote, venga. Non abbia paura. Guardi, guardi un po’ come sta.”
Non potei fare a meno di seguirla. Avanzammo ancora.
E Gianfranco era là.
Nel cesso.
O meglio, in quello che rimaneva del cesso.
Tutti i sanitari erano spaccati, presi a martellate, ridotti in cocci. A terra c’era un lago di liquido verde, una pappa semigelata che capii dovevano essere chili e chili di gelato al pistacchio sciolto.
Il nipotino era là.
Accovacciato sulla tazza. Enorme. Un pachiderma. Una palla di lardo nuda, varicosa e glabra. Calvo. Triplo mento. Smagliature.
A terra un radioregistratore sparava un disco dei Sepultura.
Gli occhi...
(Dio che occhi!)
... erano completamente opachi, bianchi come due uova sode. E aveva appiccicato sulle labbra un sorriso idiota e infantile, da psicopatico all’ultimo stadio. Gli cadeva la testa sul petto e lui la tirava su stancamente. Era tutto imbrattato di gelato, che gli colava dagli angoli della bocca. Tra le mani stringeva un libretto, piccolo, arancione fosforescente.
“Noo!!!” urlai nel panico. “Sta leggendo ‘Woobinda’!!! Il testo di Aldo Nove!!! Chi gliel’ha dato? È uscito fuori stampa.”
“Non lo so. Non lo so. Forse lo hanno ristampato. È quel libro che lo ha reso così” disse la vecchia Menichelli. “Glielo strappi. Glielo porti via e lo bruci... È il diavolo. Me lo faccia tornare il Gianfranco di prima, lo studente della Luiss, il giovane amante di Tabucchi e Lodoli. Io così non lo voglio... Gli prenda quel libro.”
“Lo prenda lei, scusi, io che c’entro? Io a quel coso là non mi avvicino. Quello è capace di massacrarmi.”
Gianfranco era catatonico. Quegli occhi che sembravano due marron glacé erano puntati sul libro, ma non leggeva. Per un istante pensai che era entrato in coma ma finalmente parlò, no, non parlò, emise un verso alieno, da iena ferita a morte: “Ciao. Mi chiamo Andrea Garano. Ho ventitré anni e possiedo uno stereo e sono completamente pazzo. E tu? Tu chi sei?”
«Io... io... mi chiamo Ammaniti Niccolò... ho trent’anni... e sono uno scrittore splatter e pulp e cannibale... Comunque tu non ti chiami Andrea Garano... Tu... tu ti chiami Gianfranco Menichelli. E studi Economia alla Luiss e ti piacciono Tabucchi e Lodoli. Ritorna in te, ti prego.”
“Fai silenzio e non mi contraddire mai. Non avresti neanche il tempo di pentirtene, piccola e inutile pulce. Inginocchiati davanti al tuo unico signore.”
Dal terrore le gambe mi si piegarono e mi ritrovai per terra, immerso nel gelato, prostrato di fronte a quel Budda potente e cellulitico.
“Strappati le vesti di dosso.”
Mi strappai, a fatica, la camicia di flanella della Diesel, la maglietta Adidas e i jeans neri Carrera.
“Guarda cos’hai sul petto.”
In mezzo al torace mi cresceva una lunga cresta che come una catena montuosa mi tagliava in due i pettorali, da un capezzolo all’altro. Al centro era rosso fuoco e a tratti gialla di pus, allontanandosi il rosso sfocava in un viola livido e necrotico. Pulsava, e se la toccavo mi prudeva da morire. E puzzava come un ascesso infetto.
Il ciccione alzò lo sguardo vuoto al cielo e disse: “Il lebbroso colpito dalla lebbra porterà vesti strappate e il capo scoperto, si coprirà la barba e andrà gridando...?” “IMMONDO! IMMONDO!” cominciai a gridare e a piangere.
“Se ora ti vuoi salvare recita, grandissimo figlio di puttana.”
E le parole mi uscirono fuori così, richiamate da quell’ordine potente, perché dovevano uscire e basta e non c’era niente da fare. Come una macabra preghiera inscritta nei miei cromosomi, come il primo vagito di un neonato deforme e decerebrato.
“Adesso urliamo. E partiamo addosso alla sciagurata. Tutti insieme. Mucchio selvaggio all’attacco. Licaoni dietro alla gazzella. Con gli uccelli dritti e la pompa a palla...”
Una microscopica parte del mio cervello riusciva, nonostante tutto l’orrore che provavo, a essere ancora razionale e lucida, a capire che cosa mi stava succedendo; stavo recitando a memoria la pagina 130 di “Fango” (Mondadori, £.26.000), io che non ho mai imparato nulla a memoria, nemmeno le poesie alle elementari.
Continuai così, per un pezzo. Non so nemmeno io quanto. A ogni sillaba che pronunciavo perdevo forza, a ogni frase che recitavo una stilla di vitalità se ne andava e la voglia di vivere e di credere in un futuro positivo pure. Stavo lentamente spegnendomi.
E a un tratto non ero più nel gabinetto della vedova Menichelli, ma in una valle tenebrosa, cinta da rocce nere e aguzze, rischiarata da bagliori di fuochi lontani, nella volta lampi accecanti e una puzza di zolfo e ozono. Ero nudo e coperto di serpi, vespe, scarafaggi e scorpioni schifosi.
Quando ritornai in me, vidi che Gianfranco si era trasformato in un essere demoniaco, in un essere troppo orrendo per essere descritto.
Vabbè, ci provo.
Era alto almeno due metri e quaranta. Con tre lunghe code squamose che spazzavano nervose il pavimento. In testa aveva due paia di corna vellutate che si contorcevano, come bisce, una sull’altra, i capelli – pochi, grigi e unti – erano raccolti in una treccia. Dal cranio gli si staccavano enormi scaglie di forfora intrise di sangue e gli cadevano sulle spalle, gobbe e pelose. Aveva tre bocche, piene di denti neri e storti con tre aliti diversi: aglio, cipolla e Cloralit. Il naso non c’era, o meglio, c’era un buco nero e sfilacciato da cui usciva un muco purulento e infetto. “Benvenuto tra noi. Tu sei l’ultimo. Questa è casa tua. Ti stavamo aspettando.” Ruggì, poi mi afferrò per i capelli con i suoi artigli affilati e mi trascinò in salotto. “Fonditi! Fonditi con gli altri!”
A terra, in mezzo al salotto fine ’900 e alla libreria con il “Lessico Universale Treccani”, c’era una cosa enorme, un essere stranissimo e molto primitivo. Una gigantesca medusa o qualcosa di simile. Un celenterato che assomigliava tale e quale a una pizza napoletana.
Una pizza napoletana viva.
Misurava almeno cinque metri e mezzo di diametro. E vibrava. Proprio al centro della pizza c’era un grosso sfintere umido e caldo che pulsava, aprendosi e chiudendosi ed emettendo aspri gorgoglii.
Il demone mi sollevò come fossi un bambino e mi fece girare come una bambola e io urlai, urlai, urlai, invocai perdono e lui mi lanciò al centro della pizza, che aprì quell’enorme bocca inghiottendomi.
Venni avviluppato da una specie di grande sacca epiteliale spugnosa ripiena di muco e bava, in uno stomaco primordiale che cominciò a digerirmi, a sciogliermi, a corrodermi la pelle e i muscoli grazie ai suoi potenti acidi.
Eppure la cosa strana era che non provavo dolore, quella bestia doveva produrre qualche liquido anestetizzante, qualche droga potente perché sentivo semplicemente e senza angoscia che quel grande organismo mi stava disgregando e nello stesso tempo fondendo con esso.
Non mi mangiava, mi assimilava.
Perdevo la mia individualità biologica e non me ne poteva importare di meno. Poi, man mano che il processo d’integrazione tra i miei tessuti e quelli dell’essere-pizza continuava, che le reti neurali si sinaptavano con il mio midollo e il cervello, ho cominciato a percepire voci, pensieri, immagini, sogni che non erano miei, che dovevano essere dell’organismo stesso, e degli altri.
Sì, c’erano pensieri comuni, ma nello stesso tempo percepivo delle individualità. C’era gente che conoscevo, che avevo incontrato mille volte nella mia vita passata. E ci potevo parlare, o meglio comunicare, così elettricamente, grazie alla rete di assoni che ci univa.
Tiziano Scarpa fu il primo che riuscii a contattare, poi Aldo Nove, Picci, Isabella Santacroce, Luisa Brancaccio, Galiazzo, Caliceti, Brizzi, Fausto Papetti, Balestrini e Romano Battaglia.
“Ah, sei arrivato anche tu, come va?” mi chiese Brizzi.
“Insomma...”
Stavano tutti lì. Tutti noi. Non c’era un organismo superiore, in effetti. Eravamo noi che formavamo il celenterato. Eravamo noi, noi gli scrittori cannibali e Fausto Papetti, quell’enorme medusa invertebrata spiattellata nel salotto della vedova Menichelli. E i miei pensieri erano i pensieri degli altri e il mio carattere era il carattere degli altri e viceversa.
Chi ero io? Chi erano gli altri?
E l’anima? Era singola o ce n’erano tante?
Esistono in acqua dei protozoi coloniali, i Volvox, che vivono in colonie e condividono cibo, luce e protoplasma. Anche noi.
E c’era un umore, un umore che circolava come una linfa nella pizza, come plasma. Quest’umore bagnava tutti, ed era terribilmente triste e rassegnato. Mi sentivo a pezzi, depresso.
Caliceti mi disse che il demone che abitava nel corpo di Gianfranco Menichelli ci obbligava ad andare a “Domenica In” da Mara Venier, a cantare. E nessuno faceva i salti di gioia, tranne quel bastardo di Scarpa.
“A noi scrittori cannibali ci trattano tutti di merda” disse Fausto Papetti. “Abbiamo uno spazio tutto per noi. Facciamo la pubblicità. Dobbiamo fare i testimonial per Pizzottella. Pizzottella canta Napoli. La conosci Pizzottella?” fece Isabella Santacroce.
“Certamente, ‘il buon formaggio da fondere’. Pizzottella e pomodori! Pizzottella, pane e... asparagi!! Pizzottella, fichi, olive e finocchi!!! Pizzottella, pane e rucola!!!! Pizzottella, sangue e fragole...” cominciai a declamare.
“Occhei, occhei. Abbiamo capito” disse Balestrini, esasperato, “la conosci.” Che strano! Avevo l’impressione di aver mangiato nella mia vita solo Pizzottella.
“Pizzottella è un formaggio prodotto all’Inferno. Satana ha messo su un caseificio e un allevamento di mucche pazze. Dei furgoni del latte fanno la spola tra l’Ade e i centri commerciali tutti i giorni per far avere, sulle tavole degli italiani, Pizzottella sempre fresca. Chi mangia Pizzottella vuole solo Pizzottella!” spiegò Balestrini. “Cosa state facendo? Bastardi! Come vi permettete, eh? Ora vi dimostro che Dio non esiste.” Il demone cominciò a buttarci addosso un mucchio di funghi, di carciofini sott’olio, di mozzarella di bufala, di pomodorini freschi, prosciutto, würstel e melanzane. Quell’infame voleva fare di noi una pizza quattro stagioni con lo special (i würstel, appunto). “Ora vi getterò nelle fiamme dell’Inferno a cuocere e poi vi farò congelare dentro un iceberg al Polo Nord. E così oltre a Pizzottella venderò anche pizze quattro stagioni congelate...”
“Non ascoltatelo! Pregate! Pregate! Non abbiate paura. La fede ci salverà” dicevo io.
“Dies irae, dies illa Solvet saeculum in favilla Teste David cum Sibilla.”
E mentre oramai eravamo sommersi dalla rucola e la fine era imminente, l’angelo salvatore arrivò.
Imprevisto. Come devono essere gli angeli.
L’angelo era la vedova Menichelli e io, come al solito, non avevo capito niente. Ma non importava. Cominciò a trasformarsi, a perdere la gobba, a modificarsi, a crescere. In realtà era Alberto Bevilacqua e Susanna Tamaro insieme. Un po’ l’uno un po’ l’altro. A seconda di come li guardavi, tipo quelle cartoline degli anni Settanta.
Dalle dita divine delle mani gli partirono dei raggi anionici verdi, che colpirono il demone e lo coprirono di una rete elettrica. Ma il demone se la strappò di dosso e volò in aria facendo capriole e urla, e colpì con un calcio in faccia il nostro salvatore.
Noi, intanto, dentro la pizza ci agitavamo come pazzi. Avevo un ginocchio di Scarpa che mi spingeva nel costato, un gomito di Picci in un occhio, stringevo una mano a Luisa, un piede di Nove in bocca, il sassofono di Fausto Papetti in un orecchio.
Sembrava proprio finita per noi, ma l’angelo non si diede per vinto, strappò le corna al demone facendo zampillare fiotti di pappa rosa. Poi gli strappò le braccia e infine lo squarciò in due facendolo spirare. Il corpo prese a tremare. I moncherini a rotolare. E infine il corpo si trasformò in uno stormo di corvacci neri che volarono via, fuori dalla finestra.
E ci fu il buio. E il silenzio.
Eravamo liberi.
Ci sollevammo dalla pizza. Eravamo tutti nudi e coperti di funghetti, pezzi di mozzarella e carciofini, ma eravamo vivi.
La vedova Menichelli era ritornata la vecchietta simpatica di prima. Aveva preparato il caffè, con i Gran Cereali. Gianfranco Menichelli era tornato a essere il vecchio Gianfranco di sempre. Indossava un paio di pantaloni di flanella, un golf a rombi e i mocassini. Sotto il braccio aveva il portatile con la tesi sullo sviluppo della piccola impresa in Ciociaria. Si avvicinò felice e ci diede a tutti delle gran pacche sulla schiena.
“Grazie! Grazie a tutti. Mi avete salvato. Grazie! Giusto in tempo per portare l’ultimo capitolo al professore. Però ho avuto un’idea: mentre io vado alla Luiss, voi potreste farvi una doccia e vestirvi e dopo ci vediamo tutti dal Buiaccaro, eh? Andiamo a festeggiare.”
“Chi è il Buiaccaro?” chiese Caliceti che non è esperto di Roma.
Gianfranco rimase un attimo sorpreso. “Come, non lo conosci? Il Buiaccaro!? La migliore pizzeria di Roma! Fanno la pizza alta, come a Napoli. Tak.”
Abbiamo cominciato a urlare.
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