Tales of Mystery and Imagination

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Niccolò Ammaniti: Rispetto



Usciamo all'imbrunire.
Andiamo a divertirci. A fare i coglioni.
Sappiamo divertirci noi. Sappiamo tirare fuori il meglio dal buco.
Saliamo in macchina e decidiamo di smuovere il culo. A morire un po' sulla pista. Ridiamo e ci fermiamo in un bar sulla provinciale a prendere le birre.
Questa sera è diversa e lo avvertiamo tutti. Aspiriamo dai finestrini aperti l'aria che ci rimbalza in faccia a 180. Siamo una fottuta muta di bastardi in movimento. Siamo come bu­fali. Solo più grossi. O come le iene. Solo più famelici. Cazzo se siamo famelici stasera. E quanto siamo affamati. Affamati di fica. Affamati di fica ruvida.
Entriamo nel parcheggio ma non c'è un cazzo di posto. Come è sempre di sabato sera. La lasciamo in terza fila e tut­ti incominciano a suonare come stronzi. Aspettiamo tran­quilli e vediamo che la nostra macchina intralcia. Non lascia passare. Ma questo ci dà in testa. Ci piace. È la nostra sfida. Veniteci a dire qualcosa. Forza. Tirateli fuori questi coglioni.
Noi siamo qua e sono cazzi da cagare.
Appoggiati come stronzi al cofano della macchina.
Avete dei problemi?
Se pensate che siamo degli incivili rottinculo basta che ce lo fate presente.
È il vostro momento. È il momento delle lamentele.
Ma non vi fate avanti. Perché?
Conigli.
Entriamo in discoteca compatti.
Ce una cifra di gente. Una cifra di passera ignorante.

Noi siamo coperti di jeans della Cotton Belt e della Uniform e le scarpe sono anfibi militari o doctor Martens. Le camicie a righe o a disegni. I capelli sono lunghi e buttati indietro. Corti ai lati.
Ci abbiamo gli orecchini. All'orecchio. Al naso. Sul so­pracciglio.
Ci mettiamo a ballare. Ci piace la techno. Ci fa dare di matto.
È una musica che risale su per il culo e che sfonda le bu­della e ci si espande dentro. Per parlare urliamo. Per parlare dobbiamo strillare.
La luce verde ci fa gli occhi gialli e mostra i pezzi di forfo­ra che stanno sulle spalle. Sopra le camicie. Si balla com­pressi e noi allora facciamo cerchio lasciando che in mezzo a noi ci sia spazio vuoto. Spingiamo indietro e non ci inculia­mo chi si incazza.
A terra le mattonelle cambiano i colori.
Rosso e verde e blu.
A un tratto mentre è una cifra di tempo che siamo a fati­care vediamo tre fichette che ci ballano a un lato. Ci sorrido­no. Allora spezziamo il nostro cerchio e le facciamo entrare all'interno. Ora hanno il posto per ballare più rilassate. Noi gli giriamo intorno. Giustamente ci sorridono e sono conten­te. Cazzo come spara questa sera la musica. Sono dei bei pezzi nelle loro minigonne e negli anfibi e nei top aderenti. Poi incominciano le luci stroboscopiche e quelle spariscono e appaiono mille volte al secondo. Sono delle zoccole con grandi tette e a noi comincia a diventare duro. Lo sentiamo risalirci su nelle mutande e riempirsi di sangue e allora il cervello si svuota e i pensieri diventano più confusi. È una droga che ci riempie di blu la testa e di rosso l'uccello.
Una che dice di chiamarsi Amanda ride e fa tutto per atti­rare la nostra attenzione. Non sa che è da una cifra che la nostra attenzione è rivolta solo a loro sgallettate del cazzo che non sono altro. Andiamo a bere e loro ci parlano di un gruppo di musica che non conosciamo ma va bene lo stesso. In questa calca i discorsi non contano. Loro sono galline contente della nostra corte. Si parla. Si torna a ballare.
Riusciamo dalla discoteca quando è mattina. Le galline ci seguono. Sono tre.
Amanda.
Maria.
Paola.
Risalire in macchina ci fa bene. Ci fa bene mettere lo ste­reo a palla. Sentire che la nostra nottata da bestie l'abbiamo fatta. Che non ce ne frega un cazzo. Che va tutto bene. Che abbiamo rotto il culo a un'altra notte. Che va tutto molto be­ne. E siamo contenti perché le tre troie ci stanno seguendo nella loro Uno grigio metallizzato e allora ridiamo e ci dicia­mo che sono proprio delle puttane e che pensano solo a dar­cela. E diciamo che non è possibile che le donne sono sem­pre in calore. E che fanno finta che non gliene importa un cazzo di niente ma in realtà hanno solo quello in testa.
Attraversiamo la campagna. Un paio di paesi.
Arriviamo al mare.
Lasciamo le macchine nel parcheggio deserto e ci incam­miniamo tra le dune della spiaggia dove tira il vento. Il vento pieno di sabbia. Amanda e Paola sono fuori di testa e inco­minciano a correre a caso e a cantare Eros. Maria invece vo­mita vicino a una cabina. È piegata e si appoggia con una mano al legno.

Pappa acida e gin tonic.
Noi prendiamo ad annusare l'aria e si sente l'odore del mare e delle alghe e del vento e del vomito e del forte delle loro fiche.
Non abbiamo più tanta voglia di aspettare. E ora è diven­tato tutto troppo esplicito. Noi vogliamo loro e loro vogliono noi. Devono solo superare tutte le stronzate che gli hanno messo in testa i genitori e la scuola e il paese. Loro ne hanno voglia più di noi ma devono superare l'ostacolo.
Amanda corre oltre una duna e uno di noi la insegue. Noi andiamo da Paola e le diciamo che la sua amica Amanda è scomparsa oltre la duna con uno dei nostri. Lei ride. Dice che secondo lei Amanda è pazza. Ci dice che è tutta la sera che fa la cretina con Enrico. Noi siamo d'accordo. Si cazzeg-gia un po'. Ridiamo. Le chiediamo secondo lei che cosa sono andati a fare quei due oltre le dune. Lei sorride e dice che noi sappiamo solo pensare male. Che pensiamo sempre a quello. Che quei due sono andati a cogliere fiori oltre le dune e che da lì sopra si vede l'alba sorgere.
Maria si è ripresa e viene avanti barcollando come uno zombi. Maria è lessa. Non devi bere se non lo reggi l'alcol, le dice Paola.
Le giriamo intorno e poi ci sediamo a terra.
Maria vuole fare il bagno. Non puoi nelle tue condizioni. Ti sentiresti male, le dice Paola. Ma sì che lo può fare, le di­ciamo noi. Tu che cazzo ne sai se lei può o non può fare il ba­gno? Eh!? Che cazzo ne puoi sapere?
Maria si leva la giacca e il golf.
La situazione si fa interessante. Vediamo dove vuole arri­vare. Si leva gli anfibi.
Sta veramente lessa. E la troia ci stupisce. Si leva la minigonna.
Cazzo si è levata la minigonna. È rimasta in reggipetto e mutande di pizzo nere e autoreggenti. Ha un corpo da pau­ra. Non sembrava. Levati pure il reggipetto, le diciamo noi. Facci vedere i lettoni. Facceli vedere. Paola continua a ripe­tere che non può fare il bagno, che l'acqua è gelata e che le prenderà un colpo. Maria sbarella fino a riva ed entra in ac­qua. Tranquilla. Incominciamo a fremere a vederla lì semi­nuda che sguazza. Nuota. Si è messa a nuotare. Nuota. Poi esce e incomincia a tremare. Allora qualcuno le dà la giacca. Lei ci si stringe dentro. Ha le labbra blu. Si fa stringere e ri­scaldare da quello che le ha dato la giacca e poi si fa baciare. Finalmente.
Doveva fare il bagno pei- cedere. Paola rimane a guardare allucinata la sua amica che si rotola e si fa mettere le mani al culo. Siete delle stronze, dice alle sue amiche. Fa così perché è la più cozza. E le cozze pensano di essere speciali. Pensano nel loro cervello che queste cose non sono importanti e che non valgono nulla. Rosicano. Si avvia verso la macchina.
Se ne va perché nessuno se la incula.
Vattene.
Vattene che è meglio. Maria è stesa e si fa baciare. A occhi chiusi. Si fa levare il reggipetto. Uno di noi comincia a strin­gerle le tette. I capezzoli sono scuri e eretti. Maria ha buttato la testa indietro e fa fare. Ride. Si fa mordere i capezzoli. Ri­de. Tutti le siamo sopra e ci piace vederla lì. Nuda sulla sab­bia. Si ride anche noi. E una strana eccitazione quella che ci prende. Forza. Forza. Non vuole altro.
Ha bisogno di cazzo la ragazza.
Ha bisogno di essere punita. Quello che le sta sopra le sfila le mutande. La troia pare neanche accorgersene. Forza. Forza. È il momento dell'amore.
Le allarghiamo le gambe. Ha una bella fichetta. Ben cura­ta. Non ha i peli che le strasbordano sulle cosce. Odiamo quelle a cui strasbordano. I particolari contano. Se la rasa.
A chi la deve far vedere?
Mugugna qualcosa. Roba tipo no. Non voglio. Smettila.
Si gira per vedere dove siamo e noi le siamo dietro e non si accorge di un grosso ramo che la fa inciampare. Crolla a terra.
Prova a rialzarsi ma non ci riesce. Si deve essere storta una caviglia. Arranca sulla sabbia. Arranca. Vi prego. Lasciatemi, dice. Vi prego. Vi prego. Vi prego. Siamo noi che ti preghiamo. Uno l'afferra per i capelli. Ha paura. Criceto.
Le strappa la maglietta e la sbatte a terra. Lei allora afferra una bottiglia di acqua minerale e gliela spacca in testa. Gli apre un bello squarcio sulla fronte. Una seconda bocca. Il rosso co­mincia a colargli sul naso e sugli Occhi. Il rosso del sangue.
Non ci hai fatto male.
Non ci hai fatto male puttana.
Non ci hai fatto un cazzo puttana.
Scusatemi. Scusatemi ci dice.
No.
Non ti scusiamo proprio per niente. Ci incazziamo.
Uno afferra un ombrellone arrugginito e mezzo sfondato e glielo ficca in un occhio. Si infila perfettamente nell'orbita anche se ai lati spruzza pappa e sangue come in un dentifri­cio strizzato. È incredibile questa ragazza. Sebbene tremi scossa da spasmi mortali e coruun ombrellone infilato nel cranio prova ancora a fuggire/. Si tira su.
È veramente incredibile.
Noi a braccia incrociate aspettiamo che schiodi ma la tira alle lunghe. Allora esasperati le estirpiamo dalla testa l'om­brellone e glielo piantiamo nello stomaco. Molto sangue. Mol­to. L'asta trapassa il corpo e si infila nella sabbia tingendola di rosso. Poi apriamo l'ombrellone. È a fiori con le frange mezze bianche e mezze rosse di ruggine. La lasciamo così.
All'ombra.
Torniamo indietro da Maria. È ancora stesa a terra. Ci guarda e poi prende a piangere. Noi le balliamo intorno co­me in discoteca. Vai con la techno. Perché non balli con noi? Su. Forza bella. Tirati su. Ma non ci pare che Maria ne abbia tanta voglia. La rimettiamo in piedi. Cammina a gambe lar­ghe. Proviamo ad abbracciarla ma lei non vuole.
Dove sono le mie amiche? domanda.
Guarda, una sta là sotto l'ombrellone. Lei si incammina verso l'amica. Si ferma. Cade in ginocchio. Ci avviciniamo. Vi prego non mi ammazzate, ci dice. Noi non vorremmo am­mazzarti ma poi tu diresti tutto alla polizia e noi non possia­mo finire in galera. La galera ci deprime. Vi giuro su Dio che non lo dico a nessuno, continua. Capiamo la tua buona fede ma i poliziotti sono bastardi, ti obbligheranno a dire la verità. Gli dirai tutto. Cazzo se gli dirai tutto. Dobbiamo finirti. Lo capisci anche tu. Allora scaviamo nella sabbia una piccola bu­ca profonda una trentina di centimetri. Prendiamo Maria. E brava. Alla fine si è convinta a farsi ammazzare. Piagnucola come una bambina. La prendiamo per il collo. Le diamo un paio di baci e le infiliamo la testa nella buca. Poi copriamo. La teniamo un po' così. Un paio di minuti. Le braccia e le gambe e le mani e le tette si agitano e fremono scosse dalla morte.
Tutto finisce.
La tiriamo fuori. Ha una strana espressione. È tutta blu. Gli occhi sono blu. La lingua è blu. Il naso è blu. Saltiamo un po'. Ci spogliamo tutti nudi. Siamo pazzeschi tutti nudi. Siamo pazzeschi e basta.
Torniamo alla macchina di corsa urlando. Cazzo. Cazzo. Cazzo. Urliamo alla notte che se ne va. Gara. Gara. A chi cor­re di più. A chi strippa.
Lo scorfano sta tranquillo seduto sul cofano della macchi­na. Aspetta le sue amiche.
Aspetta. Aspetta.
È un attimo. Un attimo ed è morta. Un attimo e la sua te­sta è fracassata. Fracassata sulla sabbia. La sua testa è aper­ta come un uovo di pasqua fatto di carne e di ossa e di capel­li. La sorpresa cola giù sulla sabbia. Cervello. Molle molle.
E ora basta. Basta.
Siamo stanchi.
Vogliamo tornare a casa.
Il sole sta salendo. Si sta staccando dalla superficie del mare. Solo un piccolo puntino lo tiene ancora attaccato all'o­rizzonte.
Rimontiamo in macchina. Dei pescatori stanno andando a pescare. Hanno le canne.
La macchina è sulla provinciale. Lo stereo a palla. Zitti. Non parliamo. Stiamo tornando a casa. La caccia è finita. In un modo o nell'altro è finita.

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