Tales of Mystery and Imagination

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Niccolò Ammaniti: La figlia di Siva



Una grassa signora americana con una Nikon a tracolla camminava per i luridi vicoli di una cittadina indiana.
I capelli biondi raccolti in un’unica treccia, la pelle bianca arrossata da quel sole forestiero.
Grossi occhiali con una montatura massiccia di tartaruga e legno di sandalo coprivano gli occhi miopi.
Era vestita con semplicità. Una maglietta azzurra e pantaloncini coloniali color panna. Ai piedi, sandali con la suola di sughero.
Aveva abbandonato il gruppo con cui era partita da Seattle per continuare a curiosare indisturbata nei vicoli di quella cittadina indiana.
Gli altri, stanchi del caldo e della bolgia, se n’erano tornati in albergo, a fare il bagno in piscina, a immergere i piedi gonfi nell’acqua tiepida.
Lei non capiva il loro atteggiamento di superiorità nei confronti degli indiani e il loro continuo fastidio per la povertà e la mancanza di igiene di quel Paese. Non riuscivano a vedere oltre la punta del loro naso. Quello, almeno secondo lei e altri luminari che si erano occupati del problema, era un sistema regolato perfettamente da secoli e aveva prodotto una tra le più complesse e affascinanti culture di tutto il pianeta.
Era stato terribilmente imbarazzante passare quei giorni con le sue amiche che non si erano avvicinate a un piatto locale, che non toccavano con le mani nemmeno i bambini per paura di chissà quali malattie mortali. Avevano finalmente mostrato il loro vero volto e questo l’aveva ferita. Razziste, questa era la parola. Era terribile vedere queste persone storcere il naso: tutto faceva loro schifo. O Dio che orrore! O Dio che impressione!


Lei però era diversa, era partita con un altro spirito. Era venuta per provare a immergersi in qualcosa di nuovo, qualcosa che le avrebbe aperto gli occhi su un’altra possibilità, su un mondo lontano e affascinante. Questo viaggio le faceva bene, una dose massiccia di autocoscienza, uno sviluppo, una maturazione. L’unico modo per capire era provare tutto, non aver paura, perdere le inibizioni. Al massimo cosa sarebbe potuto capitarle? Un corri-corri al gabinetto. Anzi, nell’ultimo periodo, nonostante i cibi indiani, si era sentita quasi occlusa. Continuò a camminare lungo il vicolo e andò a curiosare in una serie di negozietti. Dei bellissimi orecchini d’argento e corallo la catturarono, e dopo aver contrattato un prezzo adeguato li comprò.
Faceva un caldo d’inferno e il sole alto nel cielo sparava le sue lame di calore infuocando l’abitato.
Superò altre baracche e si inoltrò nella viuzza, distratta dal suo nuovo acquisto. Case sgangherate si affastellavano una sull’altra chiudendole la visuale. Delle donne dormivano su letti ai lati della strada polverosa, provate dall’afa del pomeriggio.
Entrò in un vicolo laterale. Era buio e poco invitante, ma in fondo si intravedevano molti indiani seduti attorno ai tavolini di un bar in un’angusta piazza. Mangiavano e bevevano.
Si avvicinò. Quello doveva essere un posto al di fuori dei percorsi turistici. Andando avanti ebbe come l’impressione che fosse un posto non accessibile a tutti. Scavalcò agilmente due grosse pozzanghere e finalmente arrivò nella piazza. Si sedette a un tavolo libero. La gente si voltò a guardarla, smettendo di bere e di mangiare. Le sembrò che tutti improvvisamente tacessero.
La situazione era un po’ imbarazzante, ma forse per la prima volta da quando era arrivata in India percepì di essersi calata in un mondo nuovo, lontano mille miglia dai posti turistici, finti, di plastica, dove l’avevano scarrozzata fino ad allora.
Forse, pensò sorridendo, era la prima occidentale a finire in quel posto.
Ordinò qualcosa da bere. Era assetata. L’uomo che la venne a servire era piccolo e magro. Aveva grandi baffi e occhi accesi, spiritati.
In un inglese stentato le spiegò che quello non era un locale come gli altri. Lì si andava a bere un liquore molto speciale: “le lacrime di Siva”.
Non avevano altro da offrirle, era terribilmente dispiaciuto.
Spiegò che i pellegrini arrivavano a piedi e in torpedone da tutta l’India per provarlo almeno una volta. Era un momento importante nella vita di ogni credente. Quando l’americana, incuriosita, chiese di cosa era fatto il liquore, l’indiano spiegò che la ricetta era un segreto custodito da secoli. Insistette per farglielo assaggiare. Di fronte a tanta gentilezza, l’americana, titubante ed eccitata, non seppe dire di no.
Ora, bisogna sapere che gli ingredienti di questo cocktail esotico sono molti e vengono tramandati oralmente di generazione in generazione. Solo i monaci tibetani possiedono una versione della ricetta, scritta in sanscrito molto tempo fa. Tra gli elementi essenziali si contano: escrementi di vacca sacra, urina di Sadu (santone indiano) lasciata stagionare, acqua del Gange, alcol etilico, zucchero, lampone, latte fermentato, larve di zanzara macinate, bava di lebbroso, carne di montone frollata al sole e materiale organico.
La signora aspettò a lungo. Lo avrebbe raccontato alle sue figlie, a suo marito al ritorno a casa. Avrebbe voluto scattare delle fotografie, ma immaginò che gli altri avventori del bar non sarebbero stati molto contenti.
Timidamente prese in mano la macchina e chiese a un attempato vecchietto pelle e ossa seduto accanto a lei se poteva farle il piacere di immortalarla. L’anziano nonostante l’età era sveglio, e dopo poche spiegazioni sul funzionamento dell’apparecchio le disse di mettersi in posa.
Tutti gli indiani si mossero e si posizionarono accanto a lei, un po’ come nelle foto delle squadre di calcio.
Fantastico, pensò, quale gentilezza, era la prima volta che vedeva gli indigeni così disponibili e carini.
Il vecchio pelle e ossa disse di sorridere. La macchina scattò mentre lei stava mostrando uno dei più bei sorrisi da quando era arrivata in India.
Dopo la fotografia la situazione pareva essersi fatta più intima: tutti le si avvicinavano chiedendole informazioni sulla sua vita, sull’America e su Clinton. Le domandarono se le piaceva l’India.
Era il posto più bello del mondo, rispose.
Stava particolarmente bene con quella gente semplice e affettuosa. Attese un altro po’, tanto che le venne voglia di urinare. Era da parecchio che la tratteneva. Si alzò scusandosi.
Entrò all’interno della bettola che affacciava sulla piazza.
Dentro era scuro, la luce sembrava morire sull’uscio. Al centro della stanza, seduta a un tavolo, una giovane intrecciava teste d’aglio facendone cordoni. Chiese timidamente dov’era il bagno.
La ragazza senza parlare le indicò una porta nascosta dall’oscurità. Mentre si muoveva nella direzione indicata, la sua attenzione fu richiamata da luci tremule che brillavano fioche ai lati di una fotografia appesa alla parete. Si avvicinò incuriosita.
La foto, chiusa in una cornice d’argento, mostrava una donna bianca – forse tedesca, visto il pallore della carnagione – seduta come lei al centro della piazza, stretta tra gli indiani. Osservando attentamente ne riconobbe qualcuno che si era fatto fotografare anche con lei.
Doveva essere un posto veramente un po’ speciale questo bar, si disse, se quando uno straniero arrivava ne incorniciavano la foto.
Vicino ai candelieri, sotto la foto, erano poggiati petali rossi e ciotole con del riso. C’era anche una mela, aperta in quattro grossi spicchi. Sembrava un altarino devozionale. Non sapeva cosa pensare.
Chiese all’indiana se quella donna ritratta fosse una sua amica.
Questa annuì senza mostrare di aver capito le sue parole, probabilmente non parlava inglese.
Non ci stette a pensare troppo e andò in bagno.
Quando rientrò nella piazza la gente aveva ripreso a parlare come prima, gli avventori le sorrisero mentre lei si rimetteva al suo posto. Ancora non era tornato il cameriere, che sembrava essersi dileguato nel nulla.
Dalla borsa tirò fuori la guida e si mise a leggere.
Dopo un po’ giunse finalmente il cameriere, portando su un vassoio un bicchiere alto e lavorato contenente la misteriosa pozione. Aveva un aspetto molto sacrale con quel vassoio d’argento tra le mani. La gente fece spazio per farlo passare. Il chiacchierio generale si attenuò rapidamente fino ad arrivare al silenzio. Delle nuvole scure e cariche d’acqua nascosero il sole dietro le loro sagome frastagliate. Sembrava che anche i corvi, appollaiati sui tetti, non gracchiassero più. Il rumore dei clacson lontani era sparito.
Tutti si girarono verso di lei, come quando il gringo pistolero entra nel saloon.
Si sentì sola come mai prima nella vita, un senso di angoscia la strinse in una morsa oscura. Nel cervello o forse più nel profondo sentì una voce lontana che le diceva di non bere. Di lasciar perdere.
L’uomo prese il bicchiere e glielo porse.
Lei lo accettò.
Rimase un attimo affascinata dal colore rosso della bevanda. Era densa e consistente. Voleva rinunciare ma non poteva. Sarebbe stata una grave offesa, forse addirittura un atto blasfemo.
Tutti gli sguardi erano su di lei. Attendevano.
Aveva osato troppo, era giunta dove nessun bianco si era mai spinto.
Questo era un rito iniziatico, si disse, probabilmente una cerimonia su cui era stata costruita tutta la religione induista. Immaginò di essere una giovane e avvenente sacerdotessa che compiva il sacrificio finale a Siva. Quelli intorno non erano semplici avventori, ma adoratori di divinità occulte. Alzò il bicchiere esponendolo ai raggi del sole. Il liquido denso pareva brillare sotto la luce.
Di colpo portò il bicchiere alla bocca e in un solo grosso sorso ne buttò giù il contenuto.
Ebbe la sensazione che fosse buono ma molto dolce, così zuccheroso da impastarle la bocca. Le salì al palato un retrogusto amaro, forte, così forte da riscaldarle l’esofago, lo stomaco. Sentì un fuoco nascerle nelle viscere, un calore invadere gli epiteli.
Avvertì il passaggio della micidiale bevanda all’interno del suo apparato digerente, mille aghi arroventati penetrarle la mucosa dello stomaco. Il fuoco tornò su di nuovo, come nelle ciminiere delle raffinerie, fino alla gola. Il gusto amaro e salato di un liquido che le riempiva la bocca.
Sangue.
Sputò, e con sua grande sorpresa vide che oltre al sangue aveva sputato materiale organico: mucosa gastrica. Urlò, urlò a lungo, un suono sordo e inumano che riempì l’aria di un odore di morte, dell’odore delle macellerie dopo la mattanza. Strabuzzò gli occhi e incominciò a irrigidirsi sotto la spinta di scosse tetaniche. Cadde prima in ginocchio e guardò, solo per un attimo, chi l’aveva avvelenata, poi le palle degli occhi le si rivoltarono lasciando solo il bianco. Si piegò inesorabilmente e in un ultimo disperato tentativo provò a rialzarsi, ma fu tutto inutile.
Sballottata dagli spasmi, si gonfiò come un cadavere lasciato a decomporre in un lago. I pantaloni troppo tesi non la contenevano più. La pressione che si era accumulata sul bottone della patta lo spedì assai lontano. Il rumore che emetteva era quello di una pentola a pressione scassata. Viola, verde, gialla e finalmente rossa come l’acciaio arroventato, esplose in un boato assordante. Pezzi di materia organica vennero lanciati con forza tutt’intorno. La testa, l’unica parte ancora integra, vibrò a lungo come una meteora impazzita e poi decollò perdendosi lontano, più lontano di quanto potreste mai immaginare. Tutti gli avventori intorno, sebbene sporchi di sangue e di pezzettini di carne, ebbero la presenza di spirito di applaudire.
Bene, brava, bene, dicevano.
Poi, di fronte a tanto, si genuflessero e iniziarono a pregare. Si rialzarono in silenzio. Scrostarono dai muri il sangue coagulato, raccolsero i pezzi di carne che si erano spalmati su tutta la piazza. Una gamba si era conficcata in un pertugio tra i mattoni del muro. Una mano fu ritrovata sotto un tavolo. Fecero un lavoro fatto bene. In poco tempo raccolsero tutto quello che rimaneva del corpo della grassa americana e lo misero in un’enorme zuppiera intarsiata.
Poi, salmodiando, la processione con a capo il cameriere e la zuppiera entrò dentro al bar. Cantando, mentre le donne si piegavano recitando antiche preghiere di morte, entrarono nella grossa cucina annerita dal fumo. Al centro un pentolone bolliva producendo un fumo scuro e tossico come quello di Seveso. Tre donne insieme giravano la broda con un grosso bastone. Tutti si inginocchiarono e il cameriere, il grande sacerdote, versò i resti dell’americana nel liquido.
Finalmente tutti gli ingredienti erano stati aggiunti.
Continuarono a pregare tutta la notte di fronte allo zuppone.
Poi portarono a sviluppare il rullino con la foto della cicciona e sostituirono la fotografia nella cornice.
Il sorriso dell’americana troneggiò, da quel momento immortale nel cesso.

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