Come l'uomo che cammina per una strada solitaria, avvolto nel terrore e nella paura, e dopo essersi guardato alle spalle, continua a camminare, senza voltarsi più, perché sa che un demonio spaventoso lo segue da vicino.
Samuel Taylor Coleridge, La ballata del vecchio marinaio.
"Ma che ore saranno?! E che fresco che fa."
Marcello Beretta se ne stava buttato, mezzo assiderato dal freddo, su una panchina di Villa Borghese. Continuava a guardarsi il polso sperando che per magia si materializzasse un orologio.
Era ubriaco.
Parlava da solo.
Erano le tre meno venti di notte. E la temperatura era di qualche grado appena sopra lo zero.
Marcello non era più un giovanotto e tutto quel gelo che gli si infiltrava nelle ossa non gli faceva bene.
Era grasso (il diabete mellito). Con una pancia tonda e gonfia che sembrava che si fosse ingoiato un pallone da basket. In testa gli cresceva un cespo intricato di capelli bianchi e stopposi. Macchie di barba nascondevano i danni dell'acne giovanile. Sotto la narice destra gli cresceva un neo nero, bitorzoluto e peloso che se. lo avesse visto un oncologo si sarebbe messo a urlare. Il nasone, storto per una pallonata presa in faccia da ragazzino, sembrava una patata lessa. E aveva due occhi piccoli, gialli e macchiati di sangue.
Quella sera poi sfoggiava un loden lercio e con la fodera scucita, un golf a collo alto arancione, i pantaloni di una tuta da ginnastica e un paio di mocassini sformati. Ah, per finire, annodata intorno al collo, una sciarpa della Sampdoria.
Marcello si finì con un sorso la bottiglia di Stock 84, ruttò, tirò fuori dalla tasca una copia stropicciata de "L'Espresso" e cominciò a sfogliarla.
"Ma guarda te che sfiga!"
Gli giravano le palle.
Era arrivato fin giù al Pincio, poi si era fatto tutto il Muro Torto in salita e non aveva trovato neanche una macchina parcheggiata tra le fratte.
"Bastardi. Che fate, non scopate quando fa freddo, eh?"
Marcello era un guardone.
Un guardone professionista. Come un ninja, si nascondeva dietro i muretti, si mimetizzava tra gli alberi e spiava le coppiette nelle macchine.
E si masturbava.
Erano le seghe più belle, altro che quelle che si faceva, raramente (quando aveva qualche lira), ai cinema a luci rosse vicino alla stazione Termini.
Lì, nelle macchine, a Villa Borghese, era tutto vero, non come nei film.
Al cento per cento.
"Dovete venire al parco anche voi. Ci vengono delle porche ma delle porche che valgono mille pornostar" ripeteva sempre Marcello agli altri barboni quando andava a dormire alla stazione "delle ragazzine che sono delle vere cagne in calore, delle assatanate.... Altro che Gessica Moscio o Bamby!
"Ficarotta. Se avessi una cinepresa diventerei milionario, vaffanculo, un cazzo di milionario".
Ma invece questa notte gli aveva detto male. Niente coppiette. Quasi che si fossero messi tutti d'accordo.
Alla fine, Marcello disperato, aveva frugato nei cestini e nei cassonetti del parco alla ricerca di riviste por nografiche. Tutto questo perché due mesi prima tra cartacce, preservativi usati e resti di picnic marci aveva trovato un vero gioiellino.
Si era quasi sentito male dall'emozione quando aveva tirato fuori dal cestino la rivista.
S'intitolava "Voglie proibite di minorenni svedesi".
Delle bambine dodicenni bionde e acerbe ma capaci di fare i numeri a colori. Il massimo, dopo le coppiette nelle macchine.
Aveva infilato la rivista, come uno scoiattolo preoccupato dall'inverno, dentro un tronco cavo. Proprio in previsione di serate come questa. Solo che quando l'aveva nascosta era completamente sbronzo. E quindi non aveva la più pallida idea di quale albero fosse.
"Quanti tronchi cavi ci saranno a Villa Borghese?" si domandò e poi si rispose: "Che ne so, tantissimi, sicuramente più di duecentocinquanta".
Non poteva mettersi a perlustrarli tutti.
— Guardate... guardate come sono ridotto... Guardate. Brutti stronzi, vi odio. Vi odio a tutti. — Marcello prese a rivolgersi al mondo intero. A quel mondo cattivo che lo aveva esiliato a Villa Borghese.
Ora che era ubriaco, dentro non sentiva dolore ma solo tanto rancore e odio verso tutto e tutti. Quelle poche volte che era lucido invece provava disgusto per se stesso, per il degrado in cui viveva e quindi evitava di esserlo. In quei terribili momenti si rendeva conto di essere un alcolizzato all'ultimo stadio, un barbone che dorme nei giardinetti e uno psicopatico con gravi disturbi della sfera sessuale (glielo aveva detto un dottor sottuttoio al centro di igiene mentale).
Frignava perché gli mancava casa, un letto caldo, un pasto decente e sua figlia Annarita. A volte, nella disperazione, prendeva la metro fino a Cinecittà e arrivava sotto al palazzo dove abitavano sua moglie e sua figlia e ci ronzava intorno come un moscone intorno alla lampadina.
Ma non saliva mai.
"Quelle due troie mi odiano. Mi vogliono vedere morto. Io che mi sono fatto un culo tutta la vita per loro... Vaffanculo. Solo perché qualche volta sono andato a trovare Annarita in camera sua. Non è colpa mia. Era lei che mi rompeva, che non mi lasciava in pace, che se la cercava, che usciva dal bagno mezza nuda.
che si vestiva come una zoccola. Era lei... Le andava tutto bene e poi, figliadiputtana, lo è andato a dire alla vecchia".
La moglie aveva preso a urlare, aveva detto che chiamava la polizia e lui aveva cercato di farla ragionare. Ma niente.
Alla fine gliel'aveva fatta mettere giù la dannata cornetta a forza di cinghiate. L'aveva lasciata, a terra, mezza morta e se n'era andato via.
Ma quella notte non era in vena di nostalgie e si sentiva molto pragmatico nonostante tutto lo Stock 84 che aveva in corpo.
Questo passa il convento. Ti fai una pippa rapida e ti levi 'sta smania che prima o poi ti distruggerà. E poi ti sbatti a dormire sotto al tempietto, rifletté sfogliando velocemente la rivista. Poi infilò una mano dentro al cappotto e prese a tirarsi il coso con forza.
Volò sull'economia, planò sulla politica estera ma a un tratto decelerò, inchiodandosi su costume e spettacoli.
Tombola! Bingo! Alba!
Alba Panetti!
Un servizio fotografico di sei pagine sulla famosa show-girl. Marcello era pazzo di Alba. Il suo fan numero uno. Tutto di quella donna gli piaceva. Non c'era una parte del corpo che non lo facesse arrapare. E in quelle foto in bianco e nero, opera, certamente, di un grande maestro, la vide più in forma che mai. Scosciatissima, con addosso una roba che chiamarla camicia da notte era un oltraggio al pudore.
E che gambe!
Pensa quando ti si avvinghia addosso! E che bocca!
Pensa che ti può fare con quelle labbra gonfie come ciambelle!
E che provole che tiene davanti! Più dure del marmo di Carrara.
Pensa strizzargli i capezzoli tra le dita! Prenderli a
morsi. Farla urlare di dolore. E quegli occhi scuri che ti dicono: "Sono una grandissima porca, fammi tutto quello che vuoi". Da stare male.
La sua mente non potè fare a meno di associare quelle foto con quelle di "Voglie proibite di minorenni svedesi". Il connubio fu semplicemente delizioso. La fantasia di Marcello galoppava scatenata facendosi il suo film a luci rosse. Prese a strapazzarsi l'uccello con rinnovato vigore. Una foto in particolare gli piaceva. Alba se ne stava a terra, carponi, mostrando impunita quel sedere tondo e perfetto.
Marcello respirava come un bue con l'enfisema e sbatteva i piedi a terra e stava là là per venire quando un rumore lo disturbò sul più bello.
Si bloccò.
Che è?
Passi. Passi sulle foglie. Alle sue spalle.
Chi è?
Scassacazzi!
C'era un sacco di gentaglia la notte nel parco. Teppisti, barboni, tossici e froci e ronde della polizia.
Marcello non aveva paura di nessuno, lo avevano sempre lasciato in pace ma porcalatroiaccia arrivavano proprio sul più bello.
Si rinfilò l'uccello nei pantaloni e bestemmiando si guardò intorno.
La vide solo un attimo.
Una figura scura. Avanzava correndo nel prato.
Marcello si mise il giornale in tasca.
Non riusciva a vederla bene. Appena la figura si illuminava della luce smorta dei lampioni riscompariva tra le querce.
Strizzò gli occhi e quando la sagoma uscì fuori dagli alberi ebbe una sorpresa. Una bellissima sorpresa. Una donna! Sola!? Naaa!!
Non poteva essere. Sarà una barbona.
Strano però, non aveva mai visto una barbona correre in quel modo, così atleticamente e fare sport alle tre di notte. La donna si avvicinava. I raggi della luna la tinsero di giallo.
La possibilità che fosse una barbona fu scartata im-mediatamente.
Era troppo giovane. Un fisico mozzafiato. I capelli biondi, legati in una lunga coda, le arrivavano fino al sedere. E aveva due gambe lunghe e snelle, che non finivano mai.
Il cuore prese a sbattergli in petto. Il respiro gli si strozzò in gola per la gioia. L'istinto del predatore, assopito dal freddo, si stava risvegliando rapidamente.
Si immobilizzò sulla panchina, come un felino pronto all'attacco.
La ragazza era coperta di poco e niente. Un panta-loncino che la fasciava come una seconda pelle. La canottiera, larga e bagnata di sudore, lasciava vedere ogni bendidio. Le tette salivano e scendevano in una danza soda e perfetta.
E la troia puntava decisamente verso di lui.
Una domanda che esigeva una risposta al più presto gli disturbava quella visione paradisiaca.
"Che cazzo ci fa un pezzo di fica così, mezza nuda, di notte a Villa Borghese?"
Era la classica domanda fastidiosa che implicava una riflessione, a cui Marcello non voleva rispondere, troppo preso dall'apparizione.
"Che ne so... Lavorerà tutto il giorno e solo a quest'ora troverà il tempo per fare attività fisica." E poi sghignazzò: "E ora gliela do io una mano".
La ragazza era a poche decine di metri.
La vide finalmente in volto.
E fu terribile, devastante, come ricevere un cazzottane in piena faccia.
"Alba! Alb... Pa... Pa... Panetti!? Nohhh... Quella è Alba Panetti..."
Doveva essere un'allucin azione.
Quella che stava avanzando verso di lui era uguale spiccicata identica ad Alba Panetti. Stessa bocca. Stessi occhi da cerbiatta in calore. Stesso tutto. Una sosia? No. Impossibile.
Troppo uguale.
"Ho esagerato con lo Stock 84, cazzo. Lo sapevo. Il delirium tremens!"
Beppe Sticchia, un alcolista amico suo, gli raccontava che quando arrivava la crisi etilica aveva le allucinazioni. Solo che quello vedeva ragni e scarafaggi e non soubrette televisive.
Chiuse gli occhi, sperando che l'allucinazione passasse e invece no, Alba era ancora là. La presentatrice gli passò accanto sculettando, sorrise, gli fece ciao con la mano e correndo si avviò per il viale alberato.
Tutti i dubbi furono fugati.
"E Alba. Non ci sono cazzi!"
Era lei. E basta. Se la ricordava bene. Quando viveva ancora a casa la vedeva sempre il giovedì sera su TMC.
Tanto per essere più sicuro cercò disperatamente il servizio sull'"Espresso" e la confrontò.
Elei.
La domanda di prima gli si riaffacciò più prepotente che mai nel cervello.
"Che cosa ci fa Alba Panetti, mezza nuda, di notte a Villa Borghese? Con questo freddo polare?"
"Forse", buttò là Marcello che non aveva molta dimestichezza con i vip, "fa bene! Forse il freddo le fa bene al fisico. Si sa, il gelo rassoda le carni. Sul "Radiocorrie-re" ho letto che Alba fa una cifra di sport per mantenersi così".
Certo, non ci doveva stare tanto con la testa per girarsene così, da sola, senza guardie del corpo, nel parco.
"Sei un'irresponsabile Alba cara". Non aveva paura?
"Tra poco ne avrà tanta" sorrise Marcello e si alzò dalla panchina.
Quella sciagurata aveva avuto la grandissima sfiga di imbattersi nel più fottuto sadopornoarrapato e stupratore di Villa Borghese.
"Io a questa me la mangio. Me la ciuccio come un cremino al cioccolato". Marcello si abbottonò i pantaloni, si chiuse meglio nel cappottone e partì all'inseguimento.
Era davanti a lui, sul viale alberato, a un centinaio di metri. Marcello correva come poteva. L'artrite, i pacchetti di Nazionali senza filtro, l'alcol e i piedi congelati complottavano contro di lui. Quella poi filava come una maratoneta. Marcello strinse i denti, il cuore gli rombava nei timpani e accelerò non riuscendo però a guadagnare terreno.
"Ora ti frego io..."
Scorciatoia!
Marcello sterzò improvvisamente e scavalcò la siepe che cingeva il viale con un salto azzardato. Inciampò e rotolò giù, come una valanga, per il costone erboso. Si schiantò contro un albero.
"Diomio che male. Mi sono fatto malissimo."
Si rialzò faticosamente smadonnando e a quattro zampe si arrampicò sull'altro versante. La milza urlava dicendogli di piantarla e il cuore gli era andato fuori giri e l'aria gelata gli turbinava nel palato facendolo grugnire come un porco.
Finalmente arrivò sulla strada. Si nascose tra le siepi.
Si aspettava di averla preceduta e invece Alba era là. Davanti a lui. In mezzo al viale.
Stava facendo ginnastica sotto un lampione.
Perfetto! Benissimo! Ora riprendo fiato e poi le salto addosso.
Si arrotolò la sciarpa della Samp intorno alla testa (così non mi beccheranno mai!).
Alba, intanto, si era stesa a terra e faceva addominali tirando su le gambe e ripeteva: — E uno e due. E uno e due e tre...
Marcello, invisibile come un sioux, si chiese per l'ennesima volta come facesse Alba a non sentire freddo.
La vamp si rialzò, si avvicinò a una fontanella e come fosse stato un mezzogiorno d'agosto prese a gettarsi quell'acqua ghiacciata addosso.
Marcello aveva l'impressione che quello show lo facesse apposta per lui. Che sapesse che lui era là, nascosto tra le fratte.
Rideva, si lisciava i capelli, al rallentatore, come in una pubblicità del bagnoschiuma. La maglietta bagnandosi le si era appiccicata addosso mostrando di più.
"Tu non lo sai, tu non ti rendi conto di che ti faccio ora..."
"Non sai dove te lo sgnaccherò...". Alba, come se avesse letto nei suoi pensieri, si tolse la canottiera e prese a strizzarla tra le mani. Marcello non capì più niente. Era troppo. Troppo.
— Veni qua zoccola! Che ti faccio divertire io — latrò non riuscendo più a trattenersi e uscì allo scoperto.
Alba si girò e per niente spaventata cinguettò felice come un passerotto:
— Eccoti! Finalmente! Ti stavo aspettando.
Marcello rimase attonito. "Cosa? Come?"
Fermo. A bocca aperta. Come un imbecille. Sembrava la statua di cera di un lobotomizzato.
— Sì, sì divertiamoci. È vero. Sono una zoccola — continuò lei avvicinandosi al nostro eroe.
"Ma che cazzo dice?"
— Ti piacciono le show-girl in calore, vero? Ci ho la passerina calda calda.
— Scusi, come ha detto? — riuscì a balbettare Marcello.
Non riusciva a pensare, a capire. Nel cervello aveva una vocina fastidiosa che gli ripeteva: "Aspetta un attimo Marcello! Non è così che dovrebbero andare le cose. Da quando mondo è mondo alla vista di uno stupratore che ti viene addosso chiunque, pure la racchia più cozza del mondo, scapperebbe o al massimo urlerebbe: 'Ti prego! Ti prego. No. Non mi far male! Ti do tutto quello che ho...'"
— Come ha detto? Che mi stava aspettando?
— Che fai? Mi dai del lei? Lo sai che sei proprio antipatico? — fece Alba tirando su un broncio da bambina.
Dove si erano conosciuti?
Va be' che la memoria cominciava a perdere colpi ma, cazzo, se lo sarebbe ricordato se avesse conosciuto Alba Panetti.
Forse alla stazione Termini? Alla mensa della Cari-tas? No. Non frequentavano lo stesso giro.
— È proprio sicura che noi due ci conosciamo?
— Ma dai Marcello. Smettila. E levati quella sciarpa dalla testa. Non hai voglia di scoparmi? — disse la soubrette, si sfilò i calzoncini rimanendo nuda e prese a massaggiarsi le tette sorridendo.
Marcello finalmente capì.
Capì che c'era qualcosa che non quadrava proprio in tutta la faccenda. E non era che Alba Parietti gli dava del tu e che sapeva il suo nome. No. Non era quello.
Marcello sapeva, come sapeva di essere vivo e reietto, che nessuno al mondo (neanche sua moglie la notte di nozze) avrebbe mai voluto essere scopata da lui. Questa era una delle poche certezze su cui aveva fondato la sua triste esistenza.
Alba intanto gli si era avvicinata e se lo guardava come se fosse stato un gigantesco babà. — Amore!? Che hai? Non ti piaccio? Non mi vuoi?
Marcello decise che era giunto il momento di smammare, di darsela a gambe, di volare via, di sparire alla velocità della luce.
* Sì, lei mi piace tantissimo, giuro, solo che... ecco, io dovrei andare... ho un appuntamento... Mi scusi tanto. Scusi, eh?
* L'ho capito sai? Non ti piaccio. Va bene. Vattene. Però prima, almeno, dammi il bacino di addio — rise Alba mostrando una marea di denti storti, neri e cariati.
"Che denti orrendi! E che alito micidiale!"
Quella poveretta doveva soffrire di una gravissima ft" ma di alitosi cronica. Dalla bocca le usciva un tanfo di fogna, carogna e peste.
"E che ci ha in faccia?"
La pelle del volto sembrava animata.
Le belle labbra incominciarono a gonfiarsi e a scoppiettare in piccole vesciche purulente che spruzzavano silicone. Bubboni e brufoli le si sollevavano sulla fronte, diventavano gialli e poi esplodevano come vulcani magmatici facendo colare rivoli di pus che scorrevano come fiumi di lava tra piaghe sanguinolente, croste e pustole.
"Allora è vero! La tele fa sembrare anche un cesso una gran fica..." rifletté amareggiato il nostro eroe e poi rilassò la vescica e si pisciò sotto.
Non se ne diede pena. Si girò su se stesso e cominciò a galoppare come non aveva mai fatto in vita sua. Colise, lungo il viale, cercando di raggiungere l'uscita del parco. Via Aldovrandi.
- Marcello! Dove vai? Scappi? AASPETTAMI!
oentiva, alle sue spalle, Alba chiamarlo.
— ASPERRRRRRRAAUUUUUUUHHH!!!
Girò un istante la testa.
E la vide. Lo stava inseguendo.
Non era possibile.
Alba coneva a quattro zampe. Al centro della strada. Si era trasformata in una f' 'tuta tigre o qualcosa del genere.
Falcava l'asfalto come una bestia feroce in un documentario sulla savana africana.
Marcello Beretta accelerò, pistava come un disperato e per lo sforzo cominciò a scoreggiare, ma sapeva che Alba, o quello che era, guadagnava terreno e l'uscita del parco era troppo distante. Non ce la poteva fare. Alla sua destra, al lato del viale, si alzava una lunga cancellata, alta un paio di metri.
Divideva il parco da via Aldovrandi. Forse...
Marcello si allungò bene e come un saltatore in lungo balzò in avanti afferrando le sbarre con entrambe le mani.
Provò a tirarsi su. A scavalcare il cancello.
"Non ce la faccio. Non ce la faccio, cazzo. Scivolo."
Le braccia non ce la facevano proprio a tirare su tutta quella trippa. E i mocassini non facevano presa sul ferro. Scivolava giù lentamente ma inesorabilmente.
— OUAAAAAAAAARRRRRHHHHHH!!!!
Alba ruggiva alle sue spalle.
Marcello, impotente come un primate spastico, continuava a rimanere ostinatamente avvinghiato alle sbarre della sua gabbia e a maledire Dio, quella notte e le presentatrici della televisione.
—- UUAAAAAAAAARRRRRHHHHHH!!!!
Marcello si girò. Spalle al cancello.
E la ex-Alba Panetti era là.
Accucciata sulle zampe di dietro, di fronte a lui, come un alano malato di gigantismo. Doveva essere alto almeno un paio di metri. La pelle, liscia come quella di una serpe e ricoperta di scaglie lucide e nere, brillava alla luce smunta dei lampioni. Proprio al centro della fronte gli cresceva un lungo corno ritorto e i padiglioni delle orecchie erano tondi e larghi come quelli di un pi-pistrello del Siam. Gli occhi erano due grosse biglie di lava rossa senza espressione. Le fauci spalancate mettevano in bella mostra una doppia fila di zanne lunghe come matite e taglienti come rasoi. A un lato della bocca gli pendeva una lunga lingua viola da formichiere.
Il mostro sembrava stranamente contento. Scodinzolava la lunga coda da alligatore. E teneva la zampa destra sollevata, come un barbone! no che chiede il biscotto.
Marcello, spalmato contro il cancello, mugugnava con una vocina stridula da castrato: — Buono... Stai... buono. Sciò! Sciò! Vattene... Vai! Vai via!
Ma la bestia continuava a rimanere seduta e a sco dinzolare.
— Vattene. Sciò! Vai al museo d'arte moderna. È pieno di froci. Sono buoni i froci. Vai lì. Forza! — Marcello provava a convincerlo dandosi un tono da ammaestratore.
"Forse" si disse, "questo bestione è come un cane. Se gli tiro un sasso quello lo insegue".
Si inginocchiò piano piano continuando a tenere gli occhi puntati sulla creatura. Rovistò con una mano a terra fino a quando non sentì una grossa pietra, l'afferrò e poi la lanciò dicendo: — Vai Bobbi, vai a prendere il...
La frase rimase mozzata.
Come la sua gamba.
La bestia con uno scatto improvviso e istantaneo del collo gli era calata su una coscia e con un morso gliela aveva staccata dal tronco.
Era stata talmente veloce l'amputazione che per i primi istanti Marcello non sentì nemmeno dolore. Solo stupore e meraviglia. La
bocca di Marcello si spalancò ma non ne uscì fuori niente di udibile. Solo un gorgoglìo strozzato. Si guardò l'inguine, dove pochi secondi prima, c'era stata la sua gamba. Ora c'era solo un fiotto potente di sangue arterioso che già aveva fatto una bella pozza rossa a terra.
Tirò su lo sguardo.
La bestia infernale si era accucciata a terra e stringeva tra le zampe la sua gamba con tanto di mocassino, calzino corto e resti di tuta da ginnastica e se la mordicchiava soddisfatta come un cane con un osso nuovo.
Marcello non poteva morire così, dissanguato, mentre quel mostro del cazzo gli spolpava davanti la sua coscia.
— VAFFANCULO! VAFFANCULO! TI ODIO! — urlò piangendo e cercò un'altra pietra e voleva tirargliela contro, ma la bestia gli balzò sul petto e con una zampata gli portò via, in un colpo solo, la trachea, l'esofago, le vertebre cervicali e la giugulare.
Crollò giù, a terra, sotto quell'essere senza pietà. La testa decapitata gli pendeva, scomposta, accanto al busto, attaccata al resto del corpo solo per qualche filamento di cartilagine.
E mentre spirava rifletté che in fondo la sua morte sarebbe stata una liberazione per tutti: per Annarita, quella gran troia di sua figlia, per Assunta, quella strac-ciacazzi di sua moglie, per i preti bastardi della Caritas, per quei quattro pezzenti della stazione e per se stesso.
E quando oramai era tutto nero fu accecato da un flash.
Sì ricordò dove aveva nascosto "Voglie proibite di minorenni svedesi".
In un posto del cazzo. Nell'albero accanto all'ingresso del parco.
Poi il nero coprì definitivamente Marcello Beretta.
L'essere alieno finì di mangiare i resti del barbone, fece qualche metro svogliatamente e si accucciò sotto un eucalipto.
Si acciambellò su se stesso come un cane che dorme. E iniziò la metamorfosi.
L'enorme testa nera cominciò a fondersi con le zampe anteriori e quelle posteriori con il ventre. La coda si torse e si fuse con la schiena.
I tessuti si muovevano veloci, si riorganizzavano, le cellule dell'essere si differenziavano e si rifondevano insieme, ritornando in uno stato embrionale e totipotente e riaggregandosi si trasformarono in un grossa palla di carne, una specie di polpetta rossa ricoperta di muco alta un metro e venti. Poi la polpetta cominciò a diventare ovale, ad allungarsi, ad assomigliare a un polpettone. Al centro cominciò a formarsi una specie di strozzatura che si strinse progressivamente facendolo assomigliare prima a un
fagiolo e poi a un otto che si ruppe lasciando due palle di carne identiche, alte una ottantina di centimetri.
Tutto ciò avvenne nell'arco di cinque minuti e la metamorfosi fu rapida, silenziosa e indolore.
— Quindi secondo te è meglio Cocciante di Bruce Springsteen?
* Certamente.
* Tu stai male. Come fai a dire una cosa del genere?
* Stai male tu. Guarda che Cocciante ha scritto delle canzoni bellissime...
* Sì. Perché Margherita è bella, perché Margherita è buona ma vattene affa'nculo. Vuoi mettere? Il Boss! Ma tu non lo hai mai sentito il Boss? Non lo conosci? È un mito. È l'immagine dell'America...
* Certo che lo conosco. Ho pure un paio di dischi. Mi fa schifo. È un bifolco, un contadino tappezzato di jeans che sa solo urlare borri in de iuessei...
* Ti prego. A te piace Riccardo Cocciante, ti rendi conto? Un rospo. Con quei capelli... Lasciamo perdere che è meglio.
Francesco D'Onofrio e Mauro Riccardi stavano liti-ando già da un buon quarto d'ora su questioni musi-ali.
D'Onofrio, nella sua uniforme da carabiniere, guida-a la Uno blu attraverso Villa Borghese. Era stanco, uardò l'orologio sul cruscotto. Le quattro e Venti. Fortunatamente il turno era finito. Non sopportava più quel coglione di Riccardi e la sua fissazione per Cocciante. Bisogna essere dei poveracci come Riccardi per preferire Cocciante al Boss. Lo guardò. Il suo collega se ne stava spaparanzato sulla poltrona, la divisa sbottonata e fumava. Che se li beccava un superiore ci andava anche lui nei guai. Insopportabile.
— Senti, taglia attraverso il Pincio. — fece Riccardi gettando la cicca dal finestrino. — Così ci fermiamo al bar sulla Flaminia. Devo comprare le sigarette.
— Va bene — tagliò corto D'Onofrio.
Sì, aveva voglia anche lui di fermarsi un attimo. Si sarebbe fatto un bel cappuccino, un cornetto con la crema e via in caserma. Per le sei, sei e un quarto, sarebbe stato a casa, da sua moglie.
Cambiò marcia.
La Uno prese velocità lungo il viale alberato. Era tutto deserto. Una notte tranquilla. Senza problemi. Doveva essere il freddo. I platani mossi da una leggera brezza sembravano voler abbracciare la strada. Il cielo, buio, cominciava appena a schiarire a est. Sarebbe stata una giornata nuvolosa e probabilmente piovosa.
— Comunque tu non ci capisci niente di musica... — insistette ancora Riccardi a occhi chiusi.
D'Onofrio lasciò perdere Come si fa a discutere con gli idioti?
Stavano oramai per uscire da parco quando D'Onofrio vide improvvisamene, davanti alla macchina, apparire due figure. In mezzo alla via. A circa duecento metri. E si sbracciavano come se volessero fermare la volante.
— E mo? Che succede? Che palle!? — sbuffò Riccardi e cominciò a chiudersi i bottoni della divisa.
— Che ne so io... Vediamo. — D'Onofrio rallentò. Erano due uomini.
Uno più alto e uno più basso. Non riusciva a vederli bene.
Troppo buio.
I due finalmente furono coperti dagli abbaglianti della macchina.
D'Onofrio strinse forte il volante e inchiodò. Riccardi fu proiettato in avanti e non prese una capocciata contro il vetro solo perché si parò con le mani.
— Che cazzo fai? Figi... — Riccardi non riuscì a finire l'insulto perché rimase a bocca aperta.
— Ma chi...? Chi...? sono quei due?
— Quello è... è Cocciante... Riccardo Cocciante — fé-ce Riccardi.
— E quello è il Boss... È lui — gli fece eco D'Onofrio. Davanti a loro c'erano Bruce Springsteen e Riccardo
Cocciante. Loro.
Non c'erano dubbi.
II Boss aveva un gilet di pelle, la bandana rossa in te- sta, i jeans stinti, gli stivali texani e la chitarra sotto braccio.
Cocciante aveva i capelli immersi nel gel perché brillavano alla luce dei fari, un lungo cappotto nero, un golf girocollo e i pantaloni grigi.
Avanzavano spediti, al centro della strada, uno accanto all'altro, verso la macchina.
* Che cazzo ci fanno qui? A quest'ora? — domandò Riccardi.
* E che ne so... Forse avranno fatto un concerto... le prove, che ne so. Andiamo a sentire. Sembrano preoccupati. Ti rendi conto, incredibile: il Boss, a Villa Borghese, di notte... — D'Onofrio fermò la macchina. Si mise il cappello.
Aprì la portiera e scese.
Riccardi fece lo stesso, si avvicinò al collega e a bassa voce chiese: — Dici che glielo possiamo chiedere l'autografo?
D'Onofrio fece segno di sì con la testa.
— È chiaro. Le rock-star non sono marziani, sono persone anche loro.
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