Mi ricordo bene.
La birreria si chiamava "Il becco giallo".
Era piccola, affollata e cercava di assomigliare a un pub inglese con quei muri rivestiti di legno e i boccali appesi sopra il bancone.
Sedevo a un tavolo con professori, assistenti e ricercatori dell'università di Bologna. Non li conoscevo bene.
Avevo tenuto, quella mattina, alla facoltà di scienze biologiche di Bologna un convegno sulle dinamiche onnonali durante la metamorfosi degli anfibi urodeli.
Un successo.
Dopo il congresso essendo solo e con l'unica possibilità di ritornarmene in albergo, nella mia squallida cameretta, i colleghi mi avevano invitato ad andare con loro, a bere.
Accettai.
Bevemmo molta birra e finimmo a parlare di università, di concorsi per ricercatori e di dottorati. L'atmosfera calda e fumosa di quel posto induceva alle chiacchiere, ai pettegolezzi accademici.
La solita zuppa.
Metti insieme più di due colleghi, non importa quali, geometri, bancari o calciatori, finiranno sempre a parlare di lavoro.
Sedeva accanto a me il vecchio e stimato professor Tauri, ordinario della cattedra di biochimica. Un omino grasso e con un nasone a patata e due belle guance rosse rosse che veniva voglia di pizzicargliele.
Era insoddisfatto. Sbuffava. A un tratto, afferrò il boccale di birra e lo sbatté sul tavolo più volte come fosse un giudice che picchia il martello per chiedere il silenzio.
«Per favore! Non possiamo parlare tutti insieme. Voglio parlare io! Se no me ne vado» ci intimò con la sua aria da tricheco prepotente.
«Parli, parli pure, professore» dissi io.
Lui si guardò in giro, a controllare che la sua platea fosse attenta, poi allungò il collo da tapiro e disse soddisfatto:
«Pane al pane. Vino al vino. Diciamoci le cose come stanno. Gli studenti, i giovani, non lo vogliono capire. Da qui non si cava un ragno dal buco. Se ne devono andare. Via. A studiare da qualche altra parte. La vera ricerca in Italia non si fa. È inutile. Arriviamo sempre due anni dopo. È terribilmente frustrante. Io potevo andare a Berkeley ma mia moglie non ha voluto muoversi. Dice che le si strapperebbero le radici ad andare. Quindi me ne rimango qua, buono buono, ma se fossi un po' più giovane...»
A quel punto, dopo quel "la" dato dal barone, tutti presero a dolersi.
Incipit lamentatio.
E tutto uno schifo. I concorsi sono pilotati, dirottati, drogati, alterati. È la solila merda italiana. Già molto prima del bando ci si accorda per i vincitori. Si rubano soldi per la ricerca. I privati non investono. Non ce professionalità. Non c'è niente. E un baraccone allo sbaraglio.
Il professor Tauri chiese la mia opinione.
«Sono d'accordo con lei, credo che oramai c'è poco da fare...» dissi e poi, cercando di dare un tono rilassato e oggettivo alle mie parole, continuai: «Anche chi è dotato di una volontà di ferro deve, in ogni caso, fare i conti con una struttura marcia e lottizzata e adeguarsi. Bisogna pur sopravvivere. Chiunque voglia arrivare a insegnare in un'università italiana ha la necessità di legarsi a un professore che detiene un qualche potere politico o accademico, che lo spinga in avanti, che gli faccia da rompighiaccio e lo salvi dagli squali. Anche gli studenti più brillanti e determinati non possono affidarsi esclusivamente alle proprie capacità.» Tutti d'accordo. Annuivano.
Ma a un tratto uno strano personaggio, che fino a quel momento era stato in silenzio, in disparte, ad ascoltare, mi interruppe.
«Mi scusi, potrei dire una cosa...» disse timidamente. «Prego...» feci io e lo osservai.
Aveva gli occhi piccoli e scuri e un naso lungo e appuntilo. In definitiva un aspetto assai tenebroso, forse dovuto anche ai lunghi capelli che cadevano giù corvini coprendogli il viso smilzo.
Sapevo bene chi era ma non lo conoscevo di persona. Non ci avevo mai nemmeno parlato. Cornelio Balsamo.
Un embriologo sperimentale abbastanza famoso. Studiava la rigenerazione degli arti nei varani di Komodo. Sapevo che aveva amputato zampe a più di mille lucertoloni per vedere i fenomeni di cicatrizzazione. Era venuto alla ribalta proprio per quegli esperimenti truculenti. Il w.w.F. e altre associazioni contro la vivisezione gli si erano scagliate contro ed erano riuscite, in qualche modo, a fermare quella carneficina.
«Non sono d'accordo. Non è sempre così» disse Balsamo con parole lapidarie.
Aveva una voce bassa e armonica.
«Perché? Com'è invece?» insistei io.
Doveva essere un evento assai raro sentirlo parlare, poiché anche gli altri che fino ad allora avevano cicalato interrompendosi, sovrapponendosi, si azzittirono e prestarono orecchie a quello che diceva il misterioso personaggio.
«Io credo che se si è spinti da un desiderio caparbio, da un amore fortissimo per quello che si studia, si può arrivare, molto, molto in alto nelle gerarchie accademiche e le barriere che si troveranno sulla nostra strada cadranno come per un incanto...»
Qui abbiamo un vero ottimista, pensai.
L'embriologo sembrava intimorito da tutto quel pubblico. Aveva parlato tenendo sempre lo sguardo in basso, puntato verso il suo boccale di birra.
Quel tipo mi incuriosiva. Gli domandai se avesse conosciuto qualcuno che era stato in grado di farlo.
Bevve un altro bicchiere mentre tutti noi stavamo intorno silenziosi ad aspettare una risposta.
Disse di conoscere una storia che avrebbe cambiato le nostre opinioni.
La storia è questa e cercherò di narrarcela nello stesso modo in cui il professor Cornelio Balsamo l'ha raccontata a me quella sera di febbraio a Bologna. È una storia vera e cambierò intenzionalmente i nomi dei protagonisti per proteggere il loro anonimato.
Andrea Milozzi studiava scienze biologiche all'Università di Roma. Era iscritto al terzo anno fuori corso e la sua non era stata una carriera accademica brillante.
Aveva trovato difficoltà con tutti gli esami più impegnativi. Matematica, fisica, chimica, chimica organica erano stati scogli che avevano piegato la sua determinazione a diventare biologo.
Aveva preso ripetizioni, seguito corsi parauniversitari a caro prezzo e dopo diversi tentativi era riuscito a superarli.
Non è che non amasse quello che studiava ma l'idea di doversi chiudere in casa, per ore, su quegli aridi testi non lo esaltava per niente.
Non era uno sciocco, era semplicemente un giovane che preferiva uscire, divertirsi con gli amici, leggere fumetti e romanzi d'avventura.
Ora, finalmente, era giunto all'ultimo e più difficile esame della sua lunga carriera universitaria.
Lo scoglio finale. Quello più duro. Dopo, solo la tesi e la sospirata laurea.
L'esame di zoologia.
Una terribile barriera che si frapponeva fra lui e la fine. Un ostacolo insormontabile, gigantesco.
Andrea per tre volte lo aveva tentato ma ogni volta era stato respinto, bocciato, rimandato a casa.
Perché non riusciva a superarlo?
Perché imparare il nome di tutti quegli animaletti insignificanti gli costava più fatica che scaricare cassette ai mercati generali. Lo stomaco gli si rivoltava quando si trovava ad affrontare la tassonomia dei crostacei, la pelle gli si accapponava quando doveva imparare l'anatomia dei cirripedi. La ragione per cui detestava di più quella materia arida come un deserto di pietre era che richiedeva solo uno sforzo mnemonico e null'altro.
Diecimila nomi latini, duemila organi con le stesse funzioni ma chiamati in maniera diversa per ogni organismo apposta per scoraggiare i poveri studenti.
Insomma un esame più per un computer che per un essere umano.
Nonostante tutto questo, aveva studiato tanto, tantissimo e si era imposto di farcela. Nell'ultimo mese aveva smesso di uscire, di vedere Paola, la sua ragazza, di fare tutto il resto.
Voleva assolutamente superarlo.
Andrea Milozzi studiava scienze biologiche all'Università di Roma. Era iscritto al terzo anno fuori corso e la sua non era stata una carriera accademica brillante.
Aveva trovato difficoltà con tutti gli esami più impegnativi. Matematica, fisica, chimica, chimica organica erano stati scogli che avevano piegato la sua determinazione a diventare biologo.
Aveva preso ripetizioni, seguito corsi parauni-versitari a caro prezzo e dopo diversi tentativi era riuscito a superarli.
Non è che non amasse quello che studiava ma l'idea di doversi chiudere in casa, per ore e ore, su quegli aridi testi non lo esaltava per niente.
Non era uno sciocco, era semplicemente un giovane che preferiva uscire, divertirsi con gli amici, leggere fumetti e romanzi d'avventura.
Ora, finalmente, era giunto all'ultimo e più difficile esame della sua lunga carriera universitaria. Lo scoglio finale. Quello più duro. Dopo, solo la tesi e la sospirata laurea.
L'esame di zoologia. Una terribile barriera che si frapponeva fra lui e la fine. Un ostacolo insormontabile, gigantesco.
Andrea per tre volte lo aveva tentato ma ogni volta era stato respinto, bocciato, rimandato a casa.
Perché non riusciva a superarlo? Perché imparare il nome di tutti quegli animaletti insignificanti gli costava più fatica che scaricare cassette ai mercati generali.
Lo stomaco gli si rivoltava quando si trovava ad affrontare la tassonomia dei crostacei, la pelle gli si accapponava quando doveva imparare l'anatomia dei cirripedi.
La ragione per cui detestava di più quella materia arida come un deserto di pietre era che richiedeva uno sforzo mnemonico e null'altro.
Dodicimila nomi latini, duemila organi con le stesse funzioni ma chiamati in maniera diversa per ogni organismo apposta per scoraggiare i poveri studenti.
Insomma, un esame più per un computer che per un essere umano.
Nonostante tutto questo, aveva studiato tanto, tantissimo e si era imposto di farcela. Nell'ultimo mese aveva smesso di uscire, di vedere Paola, la sua ragazza, di fare tutto il resto.
Voleva assolutamente superarlo.
Andrea correva sul suo Ciao nella notte gelata. Mancavano meno di dodici ore all'esame e sentiva la strizza salirgli su lenta e inesorabile come una marea dei paesi del Nord.
Tornava dalla casa di un compagno di università che abitava a Monteverde. Esattamente dall'altra parte della città rispetto alla sua.
Era rimasto lì tutto il giorno e alla fine il ripasso si era trasformato in una specie di quiz spaccabudella che non aveva niente da invidiare a «Lascia o raddoppia».
Guardò l'orologio.
Mezzanotte e venti.
Tardi!
La città dormiva silenziosa e solo poche macchine sfrecciavano nel freddo della notte.
Si fermò a un semaforo rosso. Ripassò mentalmente le prove che aveva portato Darwin per dimostrare l'evoluzione della specie. Poi passò a esporsi la teoria della deriva genetica.
Verde.
Stava ripartendo quando a un tratto sentì dei lamenti, delle invocazioni di aiuto rompere il silenzio.
Sul principio non se ne era accorto, tutto assorto a ricordarsi l'anno della pubblicazione dell'Origine della specie. Era il 1859 o il 1863?
Si fece più attento.
I lamenti venivano da un vicolo laterale chiuso in un buio impenetrabile. Voci.
"Credo che adesso la smetterai di venire a dormire qui, straccione di merda, negro del cazzo. Beccati questa... e questa..."
"Per favore... Che cosa vi ho fatto? Ahhhh ahhhh, vi prego, lasciatemi andare, non tornerò più a dormire... lo giuro. Ahhhhhaahhhh" una voce con accento straniero.
Stavano picchiando qualcuno.
Andrea lo capì subito.
Che cosa doveva fare? Continuare dritto? Oppure andare a vedere che cosa succedeva?
Muoviti! Non sono affari tuoi!
È questo che in situazioni del genere viene più facile da pensare.
Domani c'ho l'esame. Il più importante della mia vita.
Avvertì la paura invadergli le trame dei tessuti e arrotolargli lo stomaco.
Sì, meglio andarsene.
"Aiuto! Aiuto! Vi prego..." sentì mugugnare ancora.
Fece qualche metro ma poi si fermò.
Non fare il vigliacco. Vai a vedere che succede.
Tornò indietro, spense il motorino e lo mise sul cavalletto.
Sebbene Andrea non fosse uno studente eccezionale era una brava persona. Non sopportava la violenza e per natura si schierava dalla parte dei più deboli.
Le urla continuavano e le voci anche. Erano più d'una, probabilmente un gruppo.
"Forza, dagliene ancora".
"Guarda come striscia... Alzati. Sii uomo".
Andrea si avvicinò lentamente. Guardò all'interno del vicolo. Non si vedeva niente. Avanzò a passi incerti.
Poi attraverso le tenebre intravide tre figure, scure, in cerchio, intorno a un corpo steso a terra.
Si avvicinò ancora.
Solo il bagliore della città riflesso dalle nuvole rischiarava un po' la scena. Camminò lentamente, insicuro di voler proseguire. L'adrenalina gli eccitava il cuore.
La vietta era stretta e piena di scatoloni di cartone e rifiuti che ostruivano il passaggio. L'unica funzione di quella strada era dividere due palazzoni che ne formavano i lati.
I tre continuavano a prendere a calci quello a terra. Oramai sembrava più un fagotto senza vita che un essere umano.
"Allora?! Che state facendo? Lo volete lasciare andare..." disse Andrea con voce indecisa e tremolante.
Si stupì di avere parlato. Quelle parole gli erano uscite senza essersene neanche accorto.
I tre si fermarono, si girarono stupiti e lo videro.
Silenzio.
Sembravano increduli.
Come cazzo era possibile che qualcuno potesse infastidirli mentre loro ripulivano le strade dai rifiuti umani?
"Forza, dài, lasciatelo andare. Non vedete che è solo un barbone?" ripeté Andrea, facendosi coraggio e sentendo la sua voce vibrare come una corda di violino.
"Che vuoi? Questi non sono affari che ti riguardano, vedi d'andartene che è meglio" disse uno alto, con i capelli rasati, jeans e un giubbotto gonfio e nero.
Andrea non riusciva a vederlo in faccia.
"Che cosa vi hai fatto?"
"Forse non ci senti bene. Te ne devi andare" disse un altro, vestito nella stessa maniera, solo più basso e più scuro.
"Siete in tre e ve la prendete con uno più debole, siete dei veri leoni..."
Erano solo fascistelli da strada.
"A stronzo! Vie' qua! Fatti vedere!" disse quello alto e poi rivolgendosi a quello a terra:
"Hai visto, negraccio di merda? Sei contento? È arrivato il tuo salvatore. Hai fatto bene a chiedere aiuto. Adesso te lo aggiustiamo noi a Charles Bronson..."
I tre si lanciarono uno sguardo d'intesa e poi urlarono tutti insieme:
"Pigliamolo!"
E si lanciarono all'inseguimento.
Andrea si girò su se stesso e partì sparato verso la via più grande. Sentiva il rumore degli anfibi dietro di lui che sbattevano pesanti sul selciato.
tum tum tum tum.
Arrivato su viale Regina Elena, Andrea cercò con gli occhi qualcuno che potesse aiutarlo.
La notte a Roma le strade sono deserte e certo bisogna essere ingenui o terrorizzati com'era Andrea in quel momento per credere di trovare qualcuno che potesse dargli una mano.
Nessuno ti aiuta!
Infatti sfrecciarono due o tre macchine e videro sicuramente Andrea inseguito dai naziskin, ma non si fermarono.
Normale! Prima regola di sopravvivenza: fatti i cazzi tuoi!
Andrea se li sentiva alle costole. Questi fasci correvano come dannati.
Su quella strada era da giorni che gli operai tentavano di riparare una perdita alle tubature dell'acqua e avevano scavato una lunga e profonda buca dimenticandosi di illuminarla.
Fu in quella che Andrea cadde storcendosi una caviglia.
Tentò di rialzarsi, di riprendere a correre, fottendosene del dolore lancinante ma la gamba non rispondeva più. Un'inutile appendice di pongo.
I tre si fermarono accanto a lui, piegati dalla corsa, a riprendere fiato.
"Che fai, ti fermi? Non ce la fai più? Anche tu come il culo nero hai incominciato a strisciare?" disse boccheggiando quello alto.
Doveva essere il capo.
"Che volete farmi" fece Andrea con la voce rotta dalla paura.
"Massacratte!" rispose quello più basso, con un sorriso da bambino buono.
Lo tirarono su afferrandolo per i capelli e lo trascinarono come un sacco fino al vicolo.
Non volevano farsi vedere.
Lo portarono vicino al nero che stava ancora a terra e cercava di rialzarsi.
Quando il poveretto li rivide avanzare nel buio, marziali, cattivi, credette che erano tornati per lui, per finire il lavoro che avevano interrotto.
Implorò di non ucciderlo.
"Ho capito. Ho capito. Lo giuro!" ripeteva frignando.
Ma non erano tornati per lui.
Erano tornati per Andrea, volevano insegnargli la prima regola, farsi gli affari suoi.
Andrea provò a liberarsi, senza riuscirci. Lo spilungone lo teneva stretto per i capelli.
Le fitte di dolore gli percorrevano la gamba come treni impazziti. Lo lasciavano senza respiro. Se la doveva essere rotta quella fottuta caviglia.
E la paura lo stava immobilizzando come un coniglio di fronte ai fari della macchina.
Lo presero a calci, rompendogli un paio di costole e poi con una catena lo percossero sulla schiena.
Nessuna pietà.
Andrea, caparbiamente, mentre loro lo colpivano, tentava di strisciare verso la strada principale come una testuggine verso il mare.
Lo tirarono su, quasi che, a un tratto, si fossero pentiti e volessero aiutarlo.
Invece il più alto tirò fuori un lungo coltello appuntito ridendo a bocca aperta e mostrando i suoi denti storti.
Quando Andrea vide quello che aveva in mano gli si annebbiò la vista e il cervello pure.
Chiuse gli occhi.
"Adesso muori, bello mio" disse lo smilzo ghignando e gli infilò fino al manico lo spiedo appuntito nello stomaco.
Liquido viscido e denso colò sulla camicia e sul ventre di Andrea. Più del dolore avvertì il calore appiccicoso del suo sangue riscaldargli la pancia.
Andrea si sciolse a terra senza più forza.
Stanchi e contenti di aver finito il lavoro i tre nazi lo salutarono e se ne andarono lasciandolo morire.
Lo smilzo doveva aver tranciato un'arteria principale poiché Andrea sentiva il sangue invadere distretti che non gli appartenevano, riempire le cavità del suo apparato digerente, riempirgli l'esofago, la gola, fino al palato, con il suo sapore salato e amaro insieme.
Mentre i primi spasmi cardiaci scuotevano il corpo esangue, Andrea ripensò a zoologia, al fatto che anche questa volta non era riuscito a superare quel maledetto esame, e si ricordò che ai vermi piatti manca l'apparato circolatorio e il sangue.
Magari fossi un verme piatto... Non mi avrebbero fatto niente.
La morte lo invase a terra, piano, come un gas impalpabile, mentre lui continuava a ripetere tra sé e sé:
"Brachiopodi, ostracodi, copepodi, cirripedi".
Il corpo senza vita di Andrea era spalmato sull'asfalto nero. L'uomo di colore, steso a terra, poco distante, cercò di tamponarsi il sangue che gli usciva dal naso con un pezzo di giornale.
Glielo avevano rotto. Si era lussato anche la spalla, ma per il resto stava bene.
Si avvicinò a quel corpo accucciato vicino a lui, piano, facendo attenzione a non fare movimenti bruschi.
Provò a tirargli su un braccio ma ricadde a terra come quello di una marionetta a cui hanno tagliato i fili. Anche il cuore taceva e nessun alito usciva dalla bocca.
Era morto.
L'espressione del volto di quel giovane era strana. Accigliata. Come se la morte lo avesse colto concentrato a ricordarsi qualche cosa. Le sopracciglia aggrottate in uno sforzo impossibile.
L'uomo poggiò la testa sul torace del cadavere e pianse. Pianse di paura e di tristezza. Quel ragazzo era morto per salvarlo e questo lo confondeva.
Era un mondo strano quello in cui era finito. Alcuni tentavano d'ammazzarlo solo perché dormiva sotto i cartoni e altri senza nemmeno conoscerlo perdevano la vita per aiutarlo.
Karim, quello era il suo nome, veniva da un paese lontano. Un piccolo paese dell'Africa occidentale.
Appena arrivato aveva cercato un lavoro inutilmente. Non c'era. Hai voglia a cercare lavoro quando non c'è.
Solo durante l'estate era riuscito a trovare qualcosa, a Villa Literno. Raccoglieva pomodori. Lo pagavano a cassetta.
In autunno, con il freddo, il lavoro era finito. Era tornato a Roma e aveva incominciato la vita del nullatenente, la sera cenava alla mensa della Caritas e di notte quando faceva freddo dormiva alla stazione, sopra le grate da cui esce l'aria calda.
Una notte i carabinieri avevano fatto controlli, e anche lui era finito con tutti gli altri in questura. Era mancato poco che non lo avevano rimandato a casa.
Ora aveva paura. E per dormire aveva trovato quel vicolo nascosto e poco frequentato.
Karim singhiozzò a lungo, silenziosamente, accanto alla salma, scosso da singulti.
Aveva perso tutto, anche la dignità, questa era la cosa che più gli faceva male.
Si sentiva indifeso.
In Africa, nella sua tribù era stato un uomo importante. Rispettato da tutti. Era l'uomo della medicina e della magia.
Aveva appreso le arti magiche da suo padre che le aveva apprese da suo nonno e così fino all'inizio dei tempi.
Aveva imparato i segreti della medicina e quelli delle erbe, come parlare con i morti, richiamandoli dal sonno. Era divenuto il sacerdote dell'oltretomba, aveva visto nelle sue trance le sponde rocciose dell'inferno.
Per tutto questo era stato potente, secondo solo al capo del villaggio. Ma la conoscenza degli incantesimi e dei riti magici non gli era servita a difendersi dalla siccità, dalla fame. Come tutti gli altri era dovuto partire, emigrare, confondere i suoi desideri con quelli di altri mille.
Desideri semplici come il pane.
Le sue arti magiche nel mondo occidentale servivano a poco, un inutile fardello che non aiutava certo a trovare da vivere. Strinse il cadavere macchiandosi di sangue la giacca. Lo pulì come potè. Gli pettinò i capelli.
Doveva aiutare quel poveretto, riportarlo in vita. Voleva sdebitarsi.
Era rischioso, e nella sua vita solo poche altre volte aveva richiamato i morti alla vita. Le anime non amano essere dirottate quando percorrono la strada per l'infinito. Spesso si rifiutano di riprendere i loro corpi mortali. Ma non aveva più nulla da perdere.
Incominciò a ripetere il salmo dei morti, l'invocazione alla madre delle tenebre. Chiese che per una volta lasciasse uno dei suoi figli ritornare da dove era partito. Implorò che l'anima di Andrea invertisse la sua spirale verso l'alto e che riscendesse fra noi, i mortali.
"Radal, radal, scutak troféreion reion mant".
Mentre ripeteva meccanicamente le parole magiche era scosso dai singhiozzi. Quando ebbe terminato baciò il morto sulla bocca e lo coprì coi suoi stracci. Poi si tirò su a fatica e zoppicando, lentamente, si diresse verso le arterie principali.
L'anima di Andrea che saliva leggera nelle strade fatte di inconsistenza venne fermata dalle parole dello stregone.
Gli atomi incorporei che la componevano si mossero disordinatamente mischiandosi tra loro e producendo un caos piccolo e incoerente in quel mondo di perfezione.
Lo spirito si appesantì e affondò portato giù dalle parole magiche, come un sasso in uno stagno. Scese vorticando mentre le altre anime salivano al principio primo.
Rientrò nell'angusto corridoio che divide la morte dalla vita e lì si perse, portata a caso dai flutti di quelle che salivano.
Poi piano piano precipitò più giù e cadde di nuovo nel corpo, scuotendolo e riempiendolo di qualcosa di simile alla vita.
Andrea riaprì gli occhi e ululò. Un grido straziante che non aveva niente di umano. Era uno zombi, o meglio, un morto vivente.
Gli zombi sono esseri semplici. Divisi tra la morte e la vita perdono molte delle caratteristiche che ci fanno umani. Quando si risvegliano dalla morte desiderano. Rimangono incastrati in un monotono desiderare.
L'ultimo anelito che hanno avuto nella vita passata si trasforma in un istinto basso e semplice, primitivo e antico, ed essendo esseri incoscienti non lo comprendono, ma ci si abbandonano passivamente.
Vivono, se la loro si può chiamare vita, irrazionalmente, al di fuori delle norme più semplici di convivenza e moralità. Sono in definitiva rozzi e maleducati.
Andrea si guardò un po' in giro e ululò ancora alla luna.
Doveva fare qualcosa e subito.
Che cosa?
Che cosa doveva fare?
Sì. Certo. Doveva sostenere l'esame di zoologia.
Era quasi un bisogno fisiologico, come per noi può essere fare la pìpì. Era la necessità che mandava avanti quel corpo senza vita, se fosse venuto a mancare quell'istinto basso e primordiale sarebbe stata la fine, l'anima si sarebbe ristaccata ma oramai appesantita si sarebbe dissolta a pochi metri da terra.
Andrea si incamminò per il vicolo. Non camminava proprio armoniosamente, sbandava un po' ai lati e ondeggiando sulle gambe rigide. Arrivò su viale Regina Elena traballando. Sembrava un ubriaco all'ultimo stadio.
Giovanni Siniscalchi tornava a casa sulla sua golf GTI verde metallizzata dopo una notte d'amore che lo aveva felicemente sfibrato nel corpo e nell'anima.
Al Palladium, una grossa discoteca, aveva rimorchiato. Una di Genzano, un paese vicino Roma. Niente di che, in verità, a vederla, ma che fuoco aveva dentro.
Era la prima volta che gli capitava di acchiappare in discoteca. Lui non era di quei rapaci dalla presa rapida, da mordi e fuggi, piuttosto preferiva immaginarsi come un vecchio e saggio pescatore. Di quelli che vanno alla traina con la lenza, calmi ma inesorabili quando pesci abboccano.
Lui le sue prede le stancava prima di tirarle in barca.
E invece quella sera era successo tutto senza che lui potesse farci niente.
Sabrina, così si chiamava quella di Genzano, lo aveva adocchiato tra mille altri che si affaticavano in pista e gli si era attaccata addosso come una remora a un tonno. Al terzo ballo gà si strusciavano come il pesce pagliaccio e l'anemone. Al quarto lui era partito deciso con un bacio mozzafiato.
L'aveva riaccompagnata a casa, a Genzano. E lì, in silenzio, nella stanza accanto a quella dei genitori di Sabrina, avevano fatto sesso tra orsacchiotti di peluche e manifesti di Eros e Liga- bue.
Roba seria.
Giovanni superò il Verano e girò a destra imboccando viale Regina Elena a tutta birra.
«Vecchio stallone che non sei altro! Che cazzo ci fai alle donne, eh?» si disse tra sé contento.
Nell'abitacolo c'era un bel calduccio.
Guardò l'orologio digitale del cruscotto.
Le quattro e un quarto.
Tardissimo.
Doveva correre a casa. Alle otto e mezzo sarebbe dovuto essere in ufficio. Lavorava da pochi mesi con una società di computer.
Tirò le marce. Terza. Quarta. Quinta. Poteva correre, la strada era completamente deserta. Superò lo spartitraffico a centoventi quando improvvisamente, senza che lui potesse accorgersene e fare niente, investì qualcosa di animato, una figura.
Un impatto secco sul cofano.
La macchina sbandò prima a destra e poi a sinistra e fini contro un'edicola di giornali accartocciandole la serranda. L'airbag esplose formando una mongolfiera che spinse Giovanni indietro, impedendogli di sfondarsi lo sterno sul volante.
"Un mito l'airbag! Benedetta la mia mamma!" urlò.
Infatti era stata sua madre che lo aveva spinto ad aggiungere quell'optional alla sua Golf.
Il suo secondo pensiero fu:
"Porcatroia, ho ammazzato qualcuno".
Si scastrò da sotto al pallone e uscì fuori, nel freddo. Sulla strada non si vedeva nessuno. Solo le strisciate nere dei pneumatici sull'asfalto.
Poi lo vide.
Un corpo. A terra, a pelle di leone. Immobile.
"Cazzo, l'ho ammazzato..."
La paura gli ghiacciò i testicoli e gli fermò il respiro. Si avvicinò, aumentando il passo fino a correre. L'uomo era morto. Doveva avere meno di trent'anni. Bianchissimo. La camicia rossa di sangue.
"Nooo, l'ho ucciso..." biascicò Giovanni. Si mise le mani davanti agli occhi e cercò di piangere senza riuscirci.
Era troppo allucinante e troppo rapido quello che gli era successo e stentava a credere che fosse avvenuto.
Che doveva fare?
Si vide in prigione a marcire per i successivi vent'anni. Niente più serate al Palladium, niente più sesso con Sabrina tra i peluche. Niente di niente. Poi sentì la voce della coscienza, se quella si poteva chiamare coscienza, che gli ordinava:
Vattene! Muoviti! Chi ti ha visto?
Giovanni si guardò in giro. Nessuno. In effetti non era passata neanche una macchina da quando lui aveva investito quel poveraccio. Si rialzò e si avviò correndo verso la macchina
Tanto quello è morto ormai, si disse pugnalandosi la morale. Non c'è più niente da fare, tanto. E poi io non c'entro, cazzo, quel pazzo suicida si è gettato sotto la mia macchina.
Aprì lo sportello ed ebbe una spiacevole sorpresa che gli distrusse in un attimo tutti i progetti di fuga.
L'airbag.
Con quel cazzo di pallone non poteva proprio guidare. Si infilò tra airbag e poltrona ma non vedeva niente. Non riusciva nemmeno a raggiungere le chiavi.
Doveva bucarlo, sgonfiarlo.
Una parola.
Incominciò a prenderlo a morsi bestemmiando.
Un urlo terribile, un urlo che aveva poco di umano, più simile a un ululato di un coyote, si levò improvvisamente.
"Che cazzo è?" disse ad alta voce.
Si girò.
Tutto immobile.
Doveva essere un cane, un gatto in amore. Riprese ad azzannare il pallone cercando di bucarlo.
"Uuuuuuaaaaaaauuuuuuuuuuu".
Un altro ululato e più profondo di prima.
Si girò di nuovo e vide una cosa impossibile. Assolutamente impossibile.
Il morto si stava rialzando.
Giovanni rimase a bocca aperta.
Riuscì dalla macchina.
Il cadavere ora era in piedi e camminava traballando. Aveva un aspetto che faceva paura. Bianco come un cencio. La bava alla bocca. Un ghigno soddisfatto in volto. Gli occhi fissi. La camicia sbrindellata e insanguinata. Un macello.
E qualcosa che non andava proprio. La testa. La testa era girata di centottanta gradi.
Giovanni gli girò intorno.
Era strano vedere la faccia il collo e poi la schiena e il sedere e dall'altra parte i capelli che gli finivano sul torace.
Assolutamente impossibile.
"Come ti senti?" gli chiese balbettando.
Il giovane non lo sentiva nemmeno troppo preso a camminare all'indietro, come un gambero impazzito.
Doveva andare in avanti o indietro? Sembrava indeciso.
Poi, sempre camminando, si afferrò per i capelli e si girò la testa riportandola alla posizione naturale.
Sorrise contento.
"Come ti senti?" gli chiese ancora Giovanni.
Niente.
"Ti devo portare all'ospedale?" Ti devi essere rotto l'osso del collo... qualche vertebra..."
Il giovane posò per la prima volta gli occhi vacui e spenti su Giovanni e poi tutto serio disse:
"La vertebra è ciascuno degli elementi ossei di forma discoidale o cilindrica che, disposti in colonna, costituiscono la prima porzione dello scheletro assile di un ampio gruppo di animali, classificati come sottotipo di cordati..."
Giovanni lo vide allontanarsi così, in mezzo alla strada, sulle rotaie del tram, oscillando le gambe dure. Continuava a parlare, come un libro stampato, con una voce piatta.
"I vertebrati comprendono animali caratterizzati dal possedere uno scheletro interno, detto anche endoscheletro, protettivo e di sostegno e l'estremità anteriore del neurasse, tubulare, dilatata a formare l'encefalo".
Enrico Terzini guidava l'ultima corsa notturna del 30 barrato. Era parecchio stanco e in più gli faceva male il sedere. Da due giorni gli era comparso sulla chiappa destra un gigantesco brufolo che minacciava di esplodere da un momento all'altro
L'inconveniente dei paterecci sul culo è che fanno male quando ti siedi quindi il povero Enrico era costretto a guidare in piedi il suo tram.
Non vedeva l'ora di arrivare al capolinea. Sarebbe corso a casa e avrebbe chiesto a Maria, sua moglie, di intervenire chirurgicamente sul mostro spremendoglielo. Poi si sarebbe fatto un bagno caldo e poi a nanna fino alle tre del pomeriggio.
Era solo nel tram. la radiolina appesa alla leva del freno trasmetteva un motivetto della Rettore.
Enrico lasciava scivolare il suo tram sulle rotaie, attento solo a rallentare agli incroci. I semafori lampeggiavano ancora. Incominciò a frenare avvicinandosi alla fermata. Appoggiato al cartello c'era un giovane.
Enrico lo riconobbe subito.
Un punk.
Uno di quei bastardi che predicano anarchia e violenza. Uno di quegli sbandati che vivevano con la droga in corpo e nelle mani tanta voglia di far male.
Lui i punk li odiava.
Poco meno di due mesi prima una banda di quei dannati gli aveva puntato un coltello alla gola e poi era stato costretto a vederli imbrattare con le loro scritte a spray il tram.
Certo questo esagerava proprio.
I capelli sconvolti, dipinti con la tintura rossa. Senza una scarpa. Con i vestiti stracciati. Lo sguardo strafatto.
Ma che gli dice a questi la testa? pensò.
Ventilò l'ipotesi di non fermarsi, di tirare dritto, di lasciarlo a piedi a quel bastardo ma poi il senso del dovere lo fece fermare.
Le porte si aprirono sbuffando. Il punk sembrava essere poco interessato al tram ma poi si decise a salire e con uno sforzo si arrampicò su per le scale. Inciampò sull'ultimo gradino e crollò di testa contro l'obliteratrice automatica. Un botto che fece vibrare tutta la carrozza.
Enrico bestemmiò. Che lavoro di merda si era scelto.
Chissà quanta eroina si è fatto, io quelli così li metterei ai lavori forzati. 'Sto bastardo! Speriamo solo che non mi schiodi nel tram, pensò.
Ma il punk si era già rialzato e si era sbracato a peso morto su una delle sedie.
Enrico chiuse le porte e ripartì. Alzò il volume della radio, c'era una bella canzone di Riccardo Cocciante.
Andrea, o meglio, l'ex Andrea, si adagiò su una sedia e si mise a ripetere:
"Gli anellidi si dividono in tre classi, i policheti che comprendono gli anellidi di mare, gli oligo- cheti includono forme d'acqua dolce e i lombrichi e per finire gli irudinei, tra cui ricordiamo le sanguisughe..."
Assunta Casini non era mai stata a Roma. E non era contenta di starci ora, con quel freddo bestiale. Aveva un diavolo per capello. Suo figlio, Salvatore, non era nemmeno venuto a prenderla alla stazione. Preoccupata lo aveva chiamato da un telefono pubblico. Quello sciagurato stava dormendo.
Le aveva solo detto:
"Mamma, è facilissimo. Appena esci dalla stazione troverai la fermata del tram, il 30 barrato. Ci sali. Ti fai sette fermate. Scendi al Colosseo. Da lì mi chiami. Io ti vengo a prendere subito. È facilissimo".
Ora immobile, alla fermata, malediceva suo figlio e se stessa per aver deciso di abbandonare, anche solo per una settimana, il posto in cui aveva vissuto sessantatré anni senza mai muoversi: Caianello.
Le grandi città le facevano paura. Così piene di ladri, spacciatori e psicopatici. E di notte poi...
Avrebbe voluto tornare in stazione e riprendersi il treno e tornarsene a casa sua.
Ma vide arrivare il tram. Afferrò la valigia e salì.
Era vuoto.
Solo un giovanotto sedeva a un lato. Assunta si sedette. Dentro sentiva l'ansia di avere sbagliato tram. Chissà dove sarebbe finita. Si alzò e si avvicinò alle spalle del ragazzo e chiese:
"Mi scusi, giovanotto, tra quand'è la fermata per il Colosseo?"
Sembrava non averla sentita.
"Giovanotto, tra quan'è la fermata per il Colosseo?"
Niente. Assunta si innervosì.
"Sei sordo?"
Il ragazzo si voltò.
Assunta vide quell'espressione lontana e immobile, la bocca spalancata, la bava verde ai lati, i capelli sconvolti, il sangue che colava dal naso.
"Il celoma dei lombrichi è diviso in compartimenti da setti trasversali e la muscolatura longitudinale e circolare è organizzata in masse segmentate, che corrispondono alla suddivisione del celoma in compartimenti" disse il giovane bianco come un cencio.
"Scusa, non ho capito. Che hai detto?"
"Ogni segmento possiede un paio di organi escretori (metanefridi), che si formano tra i due strati cellulari dei sepimenti e si aprono nel celoma."
"Non capisci allora, dove si scende per il Colosseo?"
"Il sistema nervoso ha anch'esso una struttura metamerica..."
"Ma che madonna..."
...Comprende un ganglio cerebrale superiore (cervello) posto al di sopra dell'esofago..."
"Ho capito, tu sei un povero fesso! Scostumato e ignorante come quel buono a nulla di mio figlio" gli ringhiò contro Assunta.
Il ragazzo arricciò la bocca, strizzò il naso e vomitò addosso alla vecchia una quantità sproporzionata di pappa verde e calda.
Assunta prese a urlare come se la stessero scannando.
"Figlio di puttana... Che schifo! Il vestito buono!"
E incominciò a colpirlo in testa con la borsetta. Il morto vivente con le mani in testa si rifugiò sotto le sedie.
Assunta urlò al conduttore:
"Apra! Apra! Mi faccia scendere..."
Si mise irrequieta davanti all'uscita e appena poté scese.
Prese al volo un taxi e disse solo:
"Mi porti alla stazione. Me ne torno a Caianello. Io in questa chiavica di città non ci voglio stare nemmeno un minuto di più!"
Andrea in testa aveva solo nomi, anatomia, rapporti e morfologie zoologiche che gli intasavano il cervello e li ripeteva come un registratore inceppato. Fece tre volte la corsa completa avanti e indietro. Il sole era salito in alto oltre le nuvole e ormai la gente incominciava ad affollare la carrozza.
Molti studenti con i libri sotto braccio riempivano il 30 barrato. Due ragazze, Marina Castigliani, anni 24, alta con i capelli castani e un'altra bassa, Tiziana Zergi, 25, tinta di biondo e con un gigantesco apparecchio ancorato ai denti, chiacchieravano appese al reggimano.
"Non so niente, aiuto, non mi ricordo nulla, sarà un disastro..." disse Marina stringendo il braccio dell'amica.
"Non è vero, non è poi così difficile, speriamo solo che non ci chiedono i molluschi..." disse Tiziana cercando di tranquillizzare l'amica.
Andrea rizzò le orecchie a quel nome e si avvicinò. La gente gli fece spazio vedendolo così male in arnese.
"Il phylum Mollusca occupa il secondo posto tra i maggiori phyla animali e comprende forme ben note, come chiocciole, vongole, patelle, ostriche, calamari e polpi".
Le due lo guardarono sconvolte.
"Devi fare anche tu l'esame di zoologia?" do- mandò la finta bionda.
"... sebbene la maggior parte dei molluschi sia marina, vari gasteropodi hanno invaso gli ambienti d'acqua dolce e terrestri..."
Lo zombi sparava rapido bava e conoscenze sugli invertebrati.
"Ne sai una cifra, eh? certo però non hai un bell'aspetto, forse dovresti andare a casa a darti una bella lavata. La parte sui cordati l'hai studiata?" gli chiese Marina lisciandosi i capelli e storcendo un po' il naso.
"I cordati, che rappresentano il più grande tra i phyla dei deuterostomi, comprendono animali che possiedono caratteristiche distintive:
1) Cordone nervoso
2) Notocorda
3) Fessure branchiali".
"Come fai a parlare con questo soggetto?" disse Tiziana in un orecchio all'amica, mentre Andrea continuava a sciorinare le nozioni.
Tiziana era una di quelle che ci tengono a non sfigurare.
"... e poi ha un alito bestiale, e che occhiaie, pare morto. È un pessimo!"
"Forse hai ragione, lasciamolo perdere. Guarda come va in giro combinato" fece Marina, poi rivolgendosi ad Andrea:
"Scusa, sai com'è... Noi dobbiamo scendere, siamo arrivate".
"... al termine della fase planctonica, la larva raggiunge il fondo e vi si attacca per mezzo di papille anteriori..."
"Be', ciao!" disse ancora Marina che essendo una ragazza studiosa era in fondo un po' dispiaciuta di abbandonare un pozzo di scienza come quello.
Scesero. Andrea le seguì ruzzolando giù dal tram. Lo aiutarono a ritirarsi su e come per ringraziarle Andrea si infilò le dita nel naso e prese a ululare.
Ogni tanto gli pigliava così.
Gli zombi sono esseri imprevedibili.
"Duahhhhh Duuuuaaaahhh" prese a ripetere.
Le ragazze fecero finta di niente, accellerarono il passo e si avviarono sculettando su viale dell'università per raggiungere l'istituto di zoologia.
Andrea le seguiva toccando il culo dei passanti e annodandosi i genitali.
"... sottordine Criptocerati. Antenne corte, nascoste in fossette sotto il capo; acquatici..."
"Non ti girare Marina. È veramente un cafone bestiale. Non puoi immaginare quello che sta facendo" diceva la biondina disgustata.
Andrea si era attaccato con i denti al copertone di un motorino e lo masticava come se fosse gomma americana. Entrarono tutti e tre nel vecchio edificio di zoologia, che tanto aveva dato alla scienza nei tempi andati ed ora si reggeva traballante su quei passati allori. Le due davanti, il morto vivente dietro.
Il professor Amedeo Ermini, il luminare, cercava parcheggio alla sua Lancia Fulvia senza trovarlo. Tutte le strade intorno all'università erano un manicomio. Macchine in terza fila, macchine in mezzo alla strada, macchine dovunque. Finalmente vide qualcosa di simile a un posto. Ci si infilò di prepotenza e sperò di non ricevere multe. Scese dalla Lancia e si avviò deciso verso l'istituto di zoologia.
Scopritore di una specie endemica dell'isola dell'Asinara di Argas ergastolensis (zecca dell'ergastolano) era ormai un vecchietto, acciaccato dai dolori e dalla malaria che si era preso nel '56 nel Congo Belga. Non vedeva più molto bene e spesso confondeva le entrate finendo nel dipartimento di storia della medicina antistante l'edificio di zoologia.
Gli studenti, accalcati, aspettavano il professor Ermini, in una grande sala con animali impagliati, vasi con organismi in formalina, cartelloni raffiguranti le scale evolutive.
Si avvertiva la tensione nell'aria. Ermini era una brutta bestia. Lo chiamavano il professor Tiboccio.
Marina e Tiziana sedute, una vicino all'altra, a un banco, sfogliavano nervosamente il manuale.
"Ma Ermini non è ancora arrivato?" domandò Marina a Tiziana mordicchiandosi le unghie.
"No, non mi pare. Senti, ma tu li hai studiati gli echinodermi..."
"Insomma..."
"Perché non lo chiediamo a quel tipo strambo del tram".
"Ma guarda che fa. Lascialo perdere..."
Andrea si rotolava per terra leccando prima il pavimento poi le cosce delle ragazze in minigonna. Indispettite le studentesse lo picchiavano con i libri di testo, i quaderni, le sacche e gli ombrelli.
"Vai via, mostro orrendo" gli dicevano schifate.
Il povero zombi, tentando di coprirsi la testa da quella gragnola di colpi, scappava a quattro zampe e ragliava come un asino:
"Uaaaahhhhhh ooohhhhhh".
Il professor Ermini entrò in aula. Gli studenti gli fecero spazio per farlo passare. Non volava più una mosca. Tutti aspettavano trepidanti. Si sedette alla cattedra e prese il foglio con gli iscritti all'appello del giorno.
Odiava fare gli esami. Era triste e scoraggiato, il livello degli studenti peggiorava di anno in anno. Non avevano passione e tiravano a superare l'esame, arronzando risposte generiche e imprecise. Ne interrogò due. E li bocciò. L'ultimo addirittura aveva detto che le balene sono pesci.
Ne chiamò un altro.
Andrea camminava sotto i banchi alla ricerca di merende, pizzette, liquirizie, caccole e gomme americane attaccate sotto i banchi. Infilò la mano in uno zaino.
"Hiiiiiiiiiiiiiiiii" grugnì.
Aveva trovato un panino al salame. Lo addentò deciso.
Il padrone dello zaino, un giovane panzone, vedendo quello che Andrea stava facendo, gli diede un pedatone sul culo. Lo zombi ululò e partì in avanti, verso il fondo dell'aula. Si ritrovò davanti a Ermini.
"Si sieda, si sieda e non faccia confusione!" disse il professor Ermini ad Andrea pulendosi gli occhiali.
Andrea si sedette.
"Bene, mi parli degli ctenofori, per cominciare".
Lo zombi prese a parlare come una furia.
"Gli Ctenofori comprendono circa novanta specie di animali marini liberamente natanti, con il corpo gelatinoso e trasparente. Gli ctenofori presentano una certa somiglianza con le meduse degli cnidari..."
Continuò a parlare agitandosi sulla sedia e strappandosi ciuffi di capelli e gettandoli sul banco e mordicchiando la cattedra.
"Bene, mi sembra che sugli ctenofori è preparato. Può smettere" disse Ermini.
Ma Andrea continuava a snocciolare. Era passato a elencare tutte le novanta specie di ctenofori esistenti.
"... pleurobrachia, hormiphora, balinopsis, mneiopsis leidy, cestus veneris,..."
"Va bene, basta. passiamo ad altro. Ho capito".
Prese i barattoli che contenevano gli animali in formalina e li passò ad Andrea.
"Che cosa sono?"
Andrea incominciò ad aprire i barattoli sigillati con il silicone tirandone fuori i contenuti. Una cubomedusa che prima lasciò scolare sul tavolo e poi se la succhiò come se fosse un ghiacciolo. Poi prese un enorme vaso che conteneva un grosso ragno tropicale e lo sgranocchiò come se fosse toblerone. Per finire si dissetò con la formalina, sbrodolandosi e facendo dei versi orrendi.
"Ma che fa? mi parli della speciazione, lasci perdere i barattoli!"
"La speciazione è il pro... gluhhhhuuuu gnammmmm... cesso con cui si form... gghhhhhmmmmm ghhheeeemm".
"Per favore. Non parli con il boccone in bocca. La pizza la mangerà alla fine dell'esame".
Andrea si stava cibando di un corallo tubiporo. Si succhiava le colonie come fossero ossibuchi.
Continuò a parlare ininterrottamente per un'ora delle abitudini sessuali delle ofiure. Ermini era raggiante. Finalmente uno studente brillante, uno che aveva studiato, che conosceva la materia a fondo. Certo era un po' irrequieto e agitato di carattere.
"la vuole la domanda per la lode?"
Andrea si divertiva ad attaccare le caccole sul registro di Ermini.
"Cos'è la ghiandola del Mehlis?"
"È una ghiandola del guscio vicino all'ootipo mediano nella fascicola epatica" disse Andrea.
"Va bene trenta e lode, complimenti. Non si sente bene? Ha una cera ragazzo mio!"
Gli diede il verbale dell'esame che lo zombi si infilò in un occhio ruttando
Ermini fu così colpito dalle cognizioni zoologiche di Andrea che gli offrì di fare la tesi con lui, di diventare un interno nel suo dipartimento. Gli affidò la catagolazione degli insetti sociali che vivono nelle cloache di Roma.
Andrea prese l'impegno con grande serietà. Passava tutto il giorno a sguazzare nelle gore pestilenziali della capitale.
Gli zombi, si sa, sono portati per questo genere di attività. Tornava all'istituto con buste piene di animaletti e siccome non era molto preciso nella raccolta ogni tanto ci infilava qualche topo che finiva per nascondersi nel laboratorio del professore.
Ermini aveva un unico problema con il suo interno, puzzava in maniera insopportabile; gli misero sotto le ascelle le saponette che si attaccano dentro i gabinetti. Incominciò a profumare di pino silvestre.
Si laureò con centodieci e lode e bacio accademico. Fece il dottorato di ricerca e lo vinse.
Con il tempo incominciò un po' a decomporsi, i tessuti a cadere a pezzi. Allora la sera, quando ormai il dipartimento era deserto, Andrea si infilava in un acquario riempito di formalina in modo da mantenersi in buono stato. Rimaneva là, tranquillo, immerso nella soluzione ripetendo le caratteristiche degli echinodermi, lo sviluppo embrionale dei cirripedi.
Fece carriera velocemente e divenne assistente e infine professore. Con il tempo incominciarono tutti, anche i suoi colleghi, a volergli bene. Acquistò fama con una ricerca sul valore nutritivo dei centopiedi. Continuò sempre a ululare e a mangiarsi le caccole, ma gli studenti, che sono persone indulgenti, la amavano proprio per questo.
Nel mondo di quei morti dei professori universitari solo Andrea gli sembrava vivo.
Quando Cornelio Balsamo concluse il suo racconto aveva cambiato a tutti noi l'umore e ci sentivamo tutti speranzosi per quella grande istituzione ch'è l'università italiana.
No comments:
Post a Comment