Perché
continuava a sognarlo?
Perché il
suo subconscio si ostinava a tirarlo fuori?
Un
coniglio da un cappello a cilindro.
Et voilà!
Giovanni.
Tutte le
notti. Regolare. Un orologio.
Se ne era
andata lontano. Lontano.
Aveva
messo più di duemila chilometri di distanza tra lei e lui. Chilometri di
campagne e di paesi e di città e di fiumi e di montagne e mare. Ora viveva in
un altro posto. In un mondo diverso. Vedeva altra gente. Non aveva più niente
da spartire con lui.
Eppure...
L'ultima
volta che lo aveva sentito era stato tre mesi prima, al telefono. Roba di
vecchie bollette non pagate, risolta in cinque minuti.
Ti mando i soldi, quante? Va
bene, non ti preoccupare.
Eppure...
Eppure
continuava a sognarlo. Giovanni.
Francesca Morale si alzò dal
letto. Si sentiva stanca, affaticata e imbarazzata da quel piacere che si era
presa incoscientemente. Odiava quel perverso lavorio che faceva il suo
cervello ogni notte appena la coscienza moriva, uccisa dal sonno.
Ricordava tutto molto bene.
Quella notte erano stati a sciare in uno strano posto. Poteva essere
un'isola? Capri? Coperta di neve. Al posto dei faraglioni iceberg azzurri
affilati come lame. Metri di neve coprivano la piazzetta, i tavolini, le scale
della chiesa.
Si rincorrevano, affondavano nel manto candido, si tiravano su. Poi
sprofondavano in una fossa di ghiaccio. Una luce diffusa e azzurra rischiarava
la loro tana. La loro tana da orsi. Sentiva ancora nel naso l'odore di
selvatico e d'escrementi che riempiva quel buco.
Là dentro avevano fatto l'amore.
Non in maniera normale, come ogni cristiano dovrebbe fare. Lui l'aveva
afferrata con le sue mani rozze, gettata a terra e se l'era sbattuta da
dietro. Come una cagna. L'aveva insultata dicendole che era una puttana e
martellata. Immobilizzata per i capelli. Affogata nella neve.
In definitiva era stata stuprata.
Ti è piaciuto! Ti è piaciuto! Ti è piac...
Che cosa fastidiosa!
Le era piaciuto.
Francesca andò in bagno. Si gelava là dentro. Le mattonelle bianche e
umide. Quel terribile neon giallo.
Un languore sensuale le ristagnava addosso, nella carne, nonostante il
freddo pungente, rendendola indolente e pigra.
Poggiò le mani sul lavandino e si guardò nello specchio.
Il sogno le balenava davanti ancora vivido, come in un film porno di
quarta.
Aveva la faccia sbattuta. Stanca. Le narici dilatate e rosse. Gli occhi
gonfi e le occhiaie. Come se non avesse dormito.
Hai la faccia... la faccia di una che ha fatto sesso. Semplice, pensò.
Si toccò i seni. Erano gonfi come quando aveva le sue cose. I capezzoli
turgidi e doloranti e scuri come se fossero stati strizzati da mollette.
Viscido tra le gambe.
Sentiva ancora addosso le manate di Giovanni.
Si bagnò la faccia con l'acqua fredda.
Si morse il labbro. Tirò un sospiro.
Basta!
Si costrinse a pensare ai programmi della giornata. Cosa devo fare?
Per prima cosa devo passare a pagare l'affitto a Miss Rendell.
La proprietaria di casa che abitava al piano di sotto. E correre in
istituto. Era in ritardo.
Si gettò sotto una doccia fumante che la fece sentire decisamente meglio e
si vestì di corsa. Si infilò mutande e reggipetto sgranocchiando biscotti ai
cereali. Tirò fuori dall'armadio le prime cose che le capitarono tra le mani:
una gonna lunga di panno marrone, un golf a collo alto che aveva finito da
poco, una giacca di pelle. Prese la cartella e dopo aver infilato la busta con
l'affitto sotto la porta di Miss Rendell uscì.
Fuori si gelava.
A Londra a gennaio il freddo si fa implacabile.
La pioggia cadeva impalpabile e grigia. Il sole perso chissà dove, dietro
la coltre uniforme di nuvole. Questo le mancava dell'Italia, il sole. Più di
qualsiasi cosa. Giornate anche fredde ma con un sole tondo e visibile, che sta
là sopra, in cielo.
Quanto avrebbe pagato per un raggio di sole che ti scalda la schiena.
E si infilò giù, nella metropolitana. Si fece risucchiare insieme a mille
altri dentro le viscere calde della città. Una formica in un fottuto formicaio.
Comprò giornale, gomme da masticare e sigarette.
Una formica con i suoi compiti, con i suoi tempi e i suoi riti quotidiani.
Non era la prima volta che si sentiva così. Era stata risucchiata in un
meccanismo di sveglie programmate, orari di studio massacranti e serate chiusa
in casa che la facevano sentire più l'ultima delle impiegate che una giovane
archeologa.
Da un po' di tempo non ci trovava niente di nobile nel suo lavoro.
Uscì dalla stazione della metropolitana e s'incamminò su una grossa
stradona affollata di autobus, macchine e negozi di scarpe a basso prezzo.
Svoltò per un vicolo che divideva due palazzi di acciaio e vetro fino a quando
arrivò in una piazzetta al cui centro sorgeva un giardinetto circolare e ben
curato. Lo attraversò.
Di fronte c'era l'istituto.
L'Istituto di studi archeologici dell'Asia minore.
Un vecchio edificio di mattoni rossi. Con la sua brava scala di marmo. Il
suo bravo portiere piegato dagli anni. I suoi tre piani divisi tra aule, stanze
dei professori, una mensa scadente e biblioteche piene di libri. Milioni di
libri.
Salì di corsa al primo piano e riuscì ad arrivare appena in tempo per
seguire la lezione.
Codici e scrittura assira.
Prese appunti sbadigliando e desiderando un bell'espresso. Finita la
lezione si chiuse in biblioteca. Aveva appena un mese per consegnare la tesi e
non era che a metà.
A pranzo mangiò un panino sbriciolandolo sul libro e bevve il'bibitone
allungato del distributore automatico.
Concesse poco ad altri pensieri che non fossero la ricerca ma ogni tanto la
testa le finiva dentro a quel buco di ghiaccio e allora le righe del libro le
sparivano davanti.
Lui sopra a lei. Lui che le ansima sopra, che le sbava su un orecchio. Lui
che se la sbatte incurante di tutto e tutti.
Imbarazzante!
Brividi le corsero su per la schiena e le scoppiarono tra le scapole
facendole rizzare i peli del collo. Si guardò in giro colpevole. Quasi che gli
altri potessero vedere quello che aveva in testa.
Forse, il problema, si disse, è che la
mia vita si è ridotta solo a studio, a poche chiacchiere accademiche e a lunghi
sonni. Mi sto proprio rincoglionendo!
Sì, dormiva troppo. Ma la sera tornava a casa distrutta senza nessuna
voglia di uscire, di vedere nessuno. Come si fa a uscire, a motivarsi quando le
palpebre ti pesano come due ghigliottine?
Devi farti forza, uscire, vedere gente, andare a feste e dimenticare del
tutto Giovanni.
La prospettiva di buttarsi nella vita mondana l'atterriva e la stomacava
nello stesso tempo.
Esistono periodi che uno ha voglia di uscire e perìodi in cui uno
preferisce farsi gli affari propri, concentrarsi sul proprio lavoro.
Cazzata!
Grandissima cazzata!
E che sei pigra da morire. Che ti sei lasciata andare... Dillo che non ti
va di fare lo sforzo. È così comodo crollare davanti alla televisione. Devi
uscire e soprattutto farti delle storie, trovarti un uomo. Un uomo normale,
con cui parlare, con cui andare a fare la spesa e casomai partire per il
week-end. Uno simpatico, non per forza l'amore della tua vita.
Uno con cui scopare!
Finalmente l'aveva detto.
Imperativo categorico. Scopare.
Da quanto tempo non faccio l'amore?
Due-tre mesi almeno.
Era stato con un suo compagno di corso. Pedro. Un ragazzo spagnolo più
giovane di lei di un paio di anni. Carino, belle spalle, bel culo ma noioso da
morire. Di quelli che sanno parlare solo di se stessi, della sua famiglia, di
come la Spa gna è
il più bel posto del mondo, di come ci si diverte l'estate a Ibiza. Si era
preso una bella sbandata. Ed era ostinato, insensibile, la chiamava tutte le
sere. Alla fine, dopo averla corteggiata per settimane, se lo era portato a
casa. E lì, forse colpa del vino, gliela aveva data.
Niente di che.
Veramente niente di che.
Francesca aprì la porta di casa. In mano la busta della spesa.
L'appartamento era gelato. Toccò i radiatori. Tiepidi. Che palle!
Quella tapina della Rendell faceva economia sulla sua pelle.
Si infilò la vestaglia di flanella e i calzini di lana. Si preparò un uovo
in camicia, il purè istantaneo. Accese la televisione e ci mangiò davanti. Poi
decise di continuare il suo lavoro a maglia accucciata sul divano. La
distendeva. Stava lavorando da un po' a un enorme golf, intrecciato, bianco e
marrone. Un bel lavoro. La lana l'aveva comprata l'estate prima in Scozia da
un pastore. Lana bellissima. Grezza. Ruvida. Odorava ancora di pecora. Alla
tele non trovò niente. La spense. Mise un CD. Le variazioni Goldberg.
Il telefono squillò.
Tre volte. La segreteria automatica si azionò. «Pronto Francesca. Sono
Clive. Clive Ellson. Non ci sei? Volevo vederti, invitarti al cin...»
Francesca si alzò di scatto e corse all'apparecchio. «Clive! Clive! Ci
sono. Come stai?»
«Bene. Che fai, non rispondi?»
«Ho sempre paura che sia mia madre da Roma. Mi tiene due ore al
telefono...»
«E da un sacco che non ci vediamo. Ti va di andare domani al Films &
Music Festival? C'è una retrospettiva di Visconti. Ho due biglietti. Non fare
l'infame come al solito. Non mi dire di no...»
«Visconti?! Ti prego! Non c'è qualcosa di più nuovo?» «Ma come? Visconti!
Non ti pia...» «Occhei. Occhei. Vengo. Vengo.»
«Veramente?! Grande! Allora passo a prenderti verso le sei?»
«Davanti all'istituto, sulle scale.»
«Va bene. Alle sei. Ci vediamo domani. Un bacio.»
«Un bacio.»
Attaccò.
Clive.
Era più di un mese che non lo sentiva. Se lo era dimenticato. Ed era un
buon amico. Ci si era divertita insieme, almeno all'inizio, quando non doveva
farsi il culo all'istituto. Se lo era dimenticato completamente. Colpa dello
studio. Ti ottura il cervello, ti riempie di dati e informazioni che sovrastano
il resto. Cola come cemento su ricordi, amicizie e li seppellisce.
Clive.
Bel ragazzo.
Pittore. Non ancora affermato. Era fidanzato con Giulia Scatasta. Una sua
amica di Milano che studiava Scienze della comunicazione a Cambridge. Era
contenta che l'avesse chiamata.
«Forza, ce la puoi fare, vecchia Francesca.].» si ripetè sospirando. V Si
rimise a fare la maglia.
Mancava poco. Soltanto le maniche, ma le si chiudevano gli occhi.
«Me ne vado a lettoooo» sbadigliò.
Le capitava spesso di parlare da sola. Di dire ad alta voce quello che
aveva intenzione di fare.
Si immerse in un bagno bollente sentendo il silenzio dell'appartamento, i
rumori della strada, il vento contro le finestre, il ronzio del frigorifero in
cucina e lo sciacquio. La fatica le fluiva dal corpo nell'acqua calda, nel
vapore della stanza. Si asciugò il corpo bollito e tenero e si infilò a letto
benedicendolo.
A mezzanotte dormiva.
Dormiva, con la testa affondata nel cuscino, quando lo sentì entrare. Non
importa come, ma era dentro casa. Giovanni. Come lo sapeva? Lo sapeva e basta.
I suoi passi pesanti in salotto. Il rumore degli stivali sul parquet. Il
rumore del frigo che veniva spalancato. Il rumore di una lattina che si apriva.
Era di là.
Era di là e faceva il suo comodo. Casa mia è casa tua.
Francesca rimase immobile, la faccia affondata nel cuscino, sperando che
se ne andasse così come era venuto. Ma non era possibile. Lo sapeva. Prima
avrebbe dovuto farlo. E farlo alla sua maniera.
Lo sentì entrare in camera da letto.
Le passò accanto trascinandosi i piedi. Aprì una porta.
Ora era in bagno.
Francesca girò la testa leggermente, giusto il necessario per spiare, per
vedere che stava facendo. Il neon del bagno le ferì la retina.
Stava pisciando con la porta aperta.
Lo vide riflesso nello specchio. Lo scroscio del piscio nell'acqua. Si
reggeva con una mano contro al muro e con l'altra stringeva coso e lattina di
birra. Teneva gli occhi chiusi. Rumore di lampo.
Rientrò.
Francesca riaffondò la testa facendo finta di dormire. Lui le si sedette
accanto.
«Allora! Come va?» le disse. Finì di bere la birra e ruttò.
Francesca non si mosse, non fiatò.
Lui le tirò via le coperte di dosso scoprendola.
Francesca era nuda. Indifesa e verme. Giovanni ghignò una risata sospesa.
Da squalo. Gli occhi ridotti a squarci nella pelle.
«Dai, girati, forza!»
Francesca era paralizzata. Cristalli di ghiaccio le scorrevano nel sangue.
Non si mosse. «Ho detto girati, cazzo!» Francesca si girò. «Bene! E ora tira su
quel culo.»
Francesca ubbidì stringendo i denti. Affondò di più nel cuscino, piegò le
ginocchia, inarcò la schiena sollevando piano il sedere verso l'alto.
«Apri le gambe...»
Francesca divaricò le gambe.
«Di più!»
Ora aveva il sesso completamente esposto. Un tenero mucchietto di carne.
Gli stava offrendo tutto. Gli stava offrendo la sua cosa più segreta e
buona. La più morbida.
Sebbene non lo vedesse sapeva bene dove erano puntati gli occhi di quel
bastardo.
Lui cominciò a girare per la stanza. Rumore di stivali.
E le soffiò lì.
Un soffio gelato che le fece accapponare la pelle e drizzare
la schiena come una gatta a cui hanno sfilato la colonna vertebrale.
Non le diede nemmeno il tempo di reagire che l'aveva afferrata per il
collo e l'aveva legata così. Supina. I polsi alla spalliera. Le caviglie. Il
cuscino sulla faccia.
Ora il buio era totale.
«Bene. Bene. Sei proprio brava» le sussurrò sporco in un orecchio.
Ghiaccio.
Le stava spalmando qualche cosa di freddo, crema, del gelato forse, tra le
cosce. Le vene le esplosero e la carne prese a gonfiarsi e riempirsi di sangue.
Francesca ansimava con il cuscino tappato sulla bocca. Respirava a mala
pena. Le tempie le pulsavano. Il cuore a duemila. Sudore freddo.
Piacere.
«Che mi stai facendo?» ansimò.
Non ebbe risposta perché si svegliò. Completamente sudata.
Le lenzuola sudate. Le coperte che le pesavano addosso come chili di terra
su un cadavere. Boccheggiò.
Rimase al buio, seduta sul letto, a riempirsi e a svuotarsi di aria.
Accese la luce. Si guardò in giro. Dove sta? Non c'era nessuno.
Si aspettava di vederselo davanti ma non c'erano né lacci, né manette
attaccate alle sponde del letto. Tutto normale. Si guardò allo specchio.
Aveva gli occhi gonfi. I capelli appiccicati a ciocche sulla fronte
bagnata.
Ed era di nuovo eccitata.
Sono una fottuta sadomasochista. Forse farei meglio a comprarmi
giarrettiere di cuoio, cappelli da SS e vibratori in acciaio. Forse questa è la
natura nascosta di una giovane ar-cheologa. Di giorno scritture babilonesi e di
notte scudisciate sul culo. Ce qualcosa che non va più dentro la mia testa...
Quei sogni stavano diventando un problema.
Giovanni era una specie di uomo nero. Un uomo ghignante costruito dal suo
cervello apposta per lei. Un mostro fedele che la umiliava ogni notte, che le
esplodeva tra i neuroni come un cancro appena chiudeva gli occhi. Una strana malattia
fatta di paura e desideri perversi insediata come un parassita nel suo
subconscio.
La cosa più assurda era che non aveva niente a che fare con il Giovanni
reale, quello con cui aveva passato tre anni della vita sua, quello con cui
aveva conosciuto l'amore e la sensazione di essere fidanzata.
Il suo di Giovanni, quello vero, era tranquillo, le voleva bene.
Era di quelli che lo fanno a orari precisi, tre volte a settimana. Un
ragioniere della copula. Lui sopra e lei sotto.
E all'inizio, almeno, lo facevano guardandosi negli occhi, dicendosi che si
volevano bene e che non si sarebbero lasciati mai.
Poi il tempo aveva placato gli slanci, le dichiarazioni si erano fatte
rade, automatiche. Il sesso si era striminzito. Insomma, nei canoni. La solita
sporca parabola discendente. Alla fine dopo mille tentativi a vuoto si erano
finalmente lasciati, dicendosi che la passione si era spenta, che avevano
nemmeno trentanni e già sembravano una coppia di ses-sant'anni con un secolo di
matrimonio sulle spalle.
E ora?
Era tornato. Diverso. E le stava devastando il mondo dei
sogni. Perché? Si alzò. Che ore sono? Guardò la sveglia. Le sei di
mattina.
Aprì la finestra e prese una boccata d'aria gelata. Era ancora notte
fonda. L'asfalto frustato dagli assalti furiosi della pioggia. Passò un camion
dei rifiuti con attaccati gli spazzini nei loro impermeabili arancione
grondanti d'acqua. Un paio di pazzi che correvano in maglietta e pantaloncini e
qualche macchina.
Si rinfilò a letto.
Ma non aveva più sonno. E meglio non provarci. Decise di finire il golf.
Accese lo stereo e si mise al lavoro. Voleva incominciare al più presto un
vestito lungo di lana che aveva visto su una rivista di moda.
La giornata all'istituto fu interminabile.
Le ore si dividevano in minuti senza fine, in secondi lunghi come ore. Le
lezioni sembravano muoversi al rallentatore.
Andò in biblioteca ma faceva fatica a studiare. La sua ricerca non
progredì. Aveva voglia di parlare con qualcuno ma ognuno, là dentro, era chiuso
in un guscio di silenzio e concentrazione.
Decise di uscire.
Andò a mangiare in un bar italiano. Prese una parmigiana di melanzane che
al posto della mozzarella aveva le sottilette e due tramezzini con funghi e
lattuga. Conversò del tempo con il figlio del gestore, Jay, che di italiano
aveva solo le scarpe di Gucci.
Poi passeggiò un po' per Hyde Park, nonostante il freddo pungente che le
bruciava il naso e le strappava le orecchie. Vide le carpe immobili sotto lo
strato di ghiaccio. I cigni mangiare resti di pollo al curry e patatine fritte.
Quando tornò in biblioteca mancavano due ore alle sei.
Troppo1. Troppissimo!
In tutto quel tempo riuscì a scrivere solo un paio di pagine svogliate.
Alle sei meno dieci era seduta sugli scalini, avvolta nella sciarpa, i gomiti
appoggiati sulle ginocchia e il mento appoggiato sulle mani.
Lo vide arrivare da lontano.
Era facilmente riconoscibile. Rise fra sé. Guidava un'Alfa 75 rosso
fiammeggiante, cafonissima. Teneva i finestrini aperti e ne usciva il vocione
di Pavarotti che ca tava "O' sole mio".
Clive.
Il vecchio Clive. Il giovane pittore. L'unico a Londra con tutti i successi
della musica napoletana in macchina. L'unico capace di mangiare gnocchi alla
sorrentina per un mese e mezzo. Clive delle Shetland, isolette gelate sul bordo
più a nord della Scozia e che in Italia non c'era mai stato in vita sua.
L'Alfa si fermò proprio sotto la scalinata rombando e sputando gas nero.
Ne uscì Clive.
Un bel ragazzo. Alto. Smilzo. Lunghi capelli biondo cenere legati in una
coda di cavallo. Occhi grigi con una perenne espressione divertita. Una bocca
grande e qualche dente storto.
Quel giorno indossava pantaloni di vei ito a coste sporchi di colori a
olio, una paio di doctor Martens malandate, una maglietta nera, un golf bucato
e un impermeabile blu con la fodera tutta strappata.
«Dai, andiamo, siamo in ritardo...» le urlò.
«Arrivo!» disse Francesca alzandosi e raccogliendo la borsa. «E guarda che
sei tu in ritardo...»
La fece entrare in macchina.
Rimasero chiusi nel traffico.
«Dove sei scomparsa? Non ti si è più vista!» le chiese Clive smanettando
sullo stereo.
«Ho dovuto studiare da morire. Nell'ultimo mese avrò visto sì e no tre
persone fuori da quel maledetto istituto. Non ce la faccio più. E tu che hai
fatto invece?»
«Mah, poco, un cazzo praticamente. È da un sacco di tempo che devo finire
dei quadri per una mostra a Liverpool ma mi sono bloccato... Sto perdendo
tempo.»
«Come?»
«Vado in giro senza meta. Dormo. Dormo un casino.» «E Giulia?»
«Non sai niente? Ci siamo lasciati, cioè mi ha lasciato... Se ne è tornata
a Milano. Dal suo ex.» «Ah. Mi dispiace...» Non le dispiaceva.
A Francesca Clive era sempre piaciuto. Lo aveva trovato interessante
subito. Sexy, con quei suoi modi distaccati nei confronti del mondo. Quando si
erano conosciuti Clive aveva provato a corteggiarla ma Francesca si faceva le
storie con Pedro, lo spagnolo. Clive si era allora fidanzato con Giulia e lei
se lo era tolto dalla testa.
Come?
Facile, prendi il file Clive e lo butti nel cestino.
Ed ora quella notizia la fece contenta.
Non avrebbe dovuto più sbattersi a feste, in giro, a dire cazzate per
cercare di piacere. Clive le si stava offrendo su un piatto d'argento.
«Ti ho pensato un sacco in questi ultimi giorni. Avevo vo-, glia di
vederti!» le disse lui con un'espressione divisa tra il seducente e
l'affettuoso.
«Anch'io ti ho pensato... Hai fatto bene a chiamarmi» fece lei cercando di
imitare l'espressione di lui.
Clive la stava lavorando ai fianchi e lei lo sapeva. Francesca avrebbe
voluto dirgli:
"Non mi devi fare la corte. Non ce ne bisogno. Stasera ci vengo a
letto con te. Tranquillo. Una sana sbattuta di ossa è proprio quello di cui ho
bisogno..."
Ma non le reggeva. Era una ragazza timida. E poi non è male farlo un po'
lavorare. Esistono in tutte le specie di mammiferi rituali di corteggiamento e
bisogna rispettarli.
Arrivarono al cinema pochi minuti prima che incominciasse la proiezione di
Senso. Nella sala faceva caldo. Pessima acustica. Clive le prese la
mano e lei gliela carezzò.
Quando ci si stringe la mano al cinema il più è passato. Resta solo una
lenta discesa che precipita in un letto. Vale molto più di un bacio.
Mollarono a metà Morte a Venezia. Francesca scalpitava per
andarsene. Voleva uscire. Aria. Cibo. Alcol.
Lo trascinò fuori.
«Dove vuole andare, signorina?» le chiese Clive, imitando un portiere
d'albergo, mentre apriva lo sportello dell'Alfa. «Pappa! Pappa!» rise
Francesca. «E pappa sia!»
Finirono in una bettola indiana. Mangiarono pollo masala e masala dosa.
Bevvero vino e liquore di cocco mentre un giovane sikh suonava un raga al
sitar.
Uscirono dal locale piegati in due dal cibo e dal vino. Francesca se lo
sentiva nelle gambe e in testa l'alcol. Rideva per ogni stronzata che diceva
Clive. Era contenta. Contenta di non essere a casa. Contenta che era tardi e
non gliene fregava un cazzo che il giorno dopo avrebbe dovuto arrivare presto
in istituto.
Non voglio dormire da sola questa notte, si disse.
«Vuoi venire allo studio? Ti faccio vedere le ultime cose che ho prodotto
però non ti aspettare niente...» le fece lui poco dopo.
Francesca non si stupì.
Lo studio si trovava in periferia. Era grande e polveroso.
Un seminterrato di un edificio ancora in costruzione. I piani superiori
solo uno scheletro di cemento armato.
Clive era nervoso. Forse perché non amava mostrare le sue opere. Forse
perché ci doveva provare con Francesca.
«Dimmi veramente che ne pensi... in questi quadri, sto cercando di
percorrere una nuova strada, torse più tradizionale.»
Francesca si avvicinò a una parete su cui erano appese le opere.
Mastodontiche nature morte. Cadaveri di gatti, brocche di fiori e pezzi di
asfalto.
«Allora?»
«Ma... vuoi la verità?» «Sì.»
«Li trovo un po' macabri... ma nonostante questo credo che hai una
pennellata originale. Vai avanti...»
Gli disse le prime cose che le passarono in testa, non le reggeva di
spiegare il suo punto di vista. Era stanca.
«Ti voglio far sentire un cantante nuovissimo... Ho della vodka» le fece
Clive mentre accendeva lo stereo.
Poco dopo lo studio venne invaso dalla voce di Claudio Baglioni che cantava
"Signora Lia".
«Clive, cazzo, questo disco è del Settanta e Claudio Baglioni lo conoscono
tutti in Italia...»
Ci risero sopra. Sulla sua passione per l'Italia, sul fatto che lui da
dieci anni a questa parte aveva avuto solo donne italiane.
«Mi vuoi spiegare perché ti piacciono così tanto le ragazze italiane?» gli
chiese lei puntandogli gli occhi scuri negli occhi chiari.
Stavano seduti su un gigantesco divano mezzo sfondato, uno accanto
all'altro, vicinissimi, con i loro bicchieri di vodka gelata in mano.
«Perché quando ti abbracciano ti stringono veramente e quando fanno l'amore
lo senti che ci credono e che non lo fanno, come le inglesi, così, tanto per
fare, ma lo fanno con la testa, ci credono.»
Discorso abbastanza banale e discutibile, comunque... Se non te ne sei
accorto hai davanti una giovane e carina ragazza italiana, pensò Francesca.
Clive sembrò aver intuito i suoi pensieri, le si fece ancora più vicino, le
carezzò il collo poi finalmente la baciò. Un piccolo bacio sulle labbra. Poi
un altro e un altro ancora. Le labbra si ammorbidirono e si bagnarono di
saliva. Le bocche si aprirono leggermente, gli aliti si fusero e finalmente le
lingue si toccarono, prima circospette come due salamandre che si corteggiano
e poi si intrecciarono come due serpi che copulano.
Si abbracciarono più forte, le mani di Clive, due polipi, si avventurarono
sul corpo di Francesca. Le strinsero i fianchi, risalirono in su, si
attaccarono circospette ai bottoni della camicia e glieli slacciarono.
Francesca si levò il reggipetto.
Aveva due grossi seni.
Clive ci affondò la faccia dentro, glieli chiuse tra le mani. Lei allora
gli sfilò la maglietta. Sul petto glabro e bianco aveva tatuato un grosso
drago cinese che sputava fuoco. Glielo baciò un milione di volte. Chiuse gli
occhi e gli passò la mano sopra la patta dei pantaloni. Ce l'aveva duro. Lo
sentiva costretto in una gabbia. Glielo liberò abbassando la lampo. Lui si calò
i pantaloni e le mutande mettendo a nudo l'erezione.
Francesca glielo prese in mano.
Da un altro mondo non era più Baglioni ma Cocciante che cantava.
Le sembrava di avere solo sedici anni, di essere a Roma, con il suo primo
fidanzato, Filippo, quando a casa sua si toccavano da tutte le parti.
Ma Clive voleva fare l'amore. Aveva deciso.
Le aveva già alzato la gonna, abbassato le calze e ora stava maldestramente
cercando di sfilarle le mutande.
«Aspetta! Faccio io» disse lei.
Si tolse le scarpe, i collant, le mutande.
Lui la guardava tenendoselo in mano. Le montò sopra. Le divaricò le gambe
pronto ad affondarle dentro.
Filippo no, Filippo poteva toccarla, leccarla ma non penetrarla. Questo
era il patto.
Sperò che anche Clive facesse così ma poi capì che lui aveva altri
progetti. Più ambiziosi. L'aveva afferrata per i glutei e ora stava girandola a
pancia in giù per prenderla da dietro.
Francesca ne aveva voglia?
No, non molta.
Sperava in qualcosa di più romantico. Di frasi sussurrate. Di una
disinibizione lenta. Clive, cazzo, corri troppo.
E non ce niente di peggio dei tipi frettolosi. Ti gelano le ossa, ti fanno
chiudere a riccio.
«No, Clive ti prego» gli disse decisa.
Non quei "Nooo, Clive, ti pregooh..." sussurrati, pieni di
esitazioni che significano fammi qualsiasi cosa. «Non vuoi?» chiese lui
stupito.
In quel "Non vuoi?" di Clive c'era da una parte comprensione,
comprensione per gli strani problemi che affliggevano Francesca, e dall'altra
c'era meraviglia.
Eh.'? Clive, si disse Francesca tra sé, come
cazzo è possibile che una dopo cinque minuti che la stai baciando non voglia
essere sbattuta da dietro? Eh, come cazzo è possibile una cosa del genere?
«No, non ho voglia!»
«Ah?!» disse lui deluso.
Alla fine gli fece una sega e lui tornò carino. Prese una coperta, accese
la tele, mise un video. Apocalypse now. Lo avevano visto tutti e due
cento volte ma mai insieme, così, uno
vicino all'altro, nudi, sotto quella vecchia coperta a scacchi blu e rossi.
Francesca gli si addormentò tra le braccia.
Quella notte l'uomo ghignante non la venne a trovare. Forse il cervello
pago di quello che aveva ricevuto in quel giorno di vita cosciente non le
molestò il sonno. Forse Francesca lo sognò. Certo è che quando si svegliò non
ricordava di aver sognato né lui né nient'altro. Se ne rallegrò.
Svegliò Clive con piccoli baci sul collo e fecero l'amore ma come voleva
lei. Lui sotto e lei sopra. Lo vide in faccia, gli sorrise. Lo vide aprire la
bocca, strizzare gli occhi e venire.
Fecero colazione in un localaccio frequentato da autisti e bigliettai degli
autobus.
Uova, bacon, caffè scuro e pane caldo.
Si salutarono con un lungo bacio.
Di quelli seri, da innamorati.
Poi Francesca gli scompigliò i capelli con una mano e scomparve nella
metropolitana.
con terrore...
Rientrò a casa con il fiatone. Era in ritardo.
Dopo aver salutato Clive aveva aspettato più di venti minuti la
metropolitana. Un guasto.
Si fece la doccia lavandosi i denti, attenta a non bagnarsi i capelli. Si
cambiò con le prime cose che trovò. Si truccò accennando un motivetto musicale
tra le labbra. Prese i libri e uscì di casa ma rientrò subito. Corse in salotto
e prese un gomitolo di lana rosso ruggine finito sotto al divano. Aveva bisogno
di un altro paio di quei gomitoli per cominciare il vestito.
Stava per
chiudere la porta di casa quando vide sul comò dell'ingresso la spia rossa
della segreteria telefonica lampeggiare.
Uffa!
Tornò indietro e spinse il tasto del
riascolto.
«Francesca,
Francesca. Dove sei stellina? Immagino che non avrai letto i giornali italiani.
Io non ci credo... Ci deve essere un errore. La polizia sbaglia sempre e i
giornali ci ricamano su... Iene... Comunque non ti preoccupare. Decidi tu, o
vengo io da te o te ne torni a Roma. Però stai calma. Mi raccomando, capito?
Io non so più che pensare. Chiamami appena torni a casa.»
Sua madre.
Aveva una voce da far paura.
Di che stava parlando? Era impazzita?
Polizia? Tornare a Roma?
Per un attimo la odiò. Aveva la capacità di
mettere in agitazione anche un monaco tibetano. I suoi messaggi erano sempre
un garbuglio di parole senza né capo né coda.
Ma che cavolo, sono già in
ritardo...
Provò a chiamarla. Occupato. Si sedette
sbuffando e provò ancora. Occupato.
Uscì maledicendo sua madre e la sua pazzia.
La lezione era già cominciata. L'aveva persa oramai. Correre era inutile.
Si rilassò.
Si avviò alla metro continuandosi a chiedere
che voleva dire quel messaggio.
All'edicola della sua stazione non avevano
giornali italiani.
Normale. Per trovarli devi andare in centro.
Uscì alla stazione di Piccadilly Circus, nel
caos, nel traffico e nella pioggia.
Comprò il "Corriere della Sera" e
"la Repubblica "
in una edicola specializzata in stampa straniera.
Entrò in un locale qualsiasi, il primo che
trovò, con i videogiochi che imperversavano e l'odore di filetti ai ferri bruciati
e patatine rancide.
Ordinò un caffè a uno scuro cameriere
pakistano. Poggiò "la
Repubblica " sul tavolo e cominciò a sfogliarla velocemente.
Non trovò niente.
Tutto normale. Crisi di governo. Vertici
RAI. Aiuti umanitari alla Bosnia. I diari di Mussolini. Arrivò alla cronaca.
Sì fermò.
Mise la mano davanti alla bocca e soffocò un
grido.
Forse a una svolta le indagini sugli omicidi dei ferri
da calza NON SONO IO IL KILLER DEI
PARIOLI! Interrogato l'imprenditore
romano Giovanni Forti
Roma - È
terminato all'alba, nella caserma dei carabinieri di viale Romania,
l'interrogatorio di Giovanni Forti, sospettato di pluriomicidio aggravato.
Il
ventottenne imprenditore romano è stato fermato nel pomeriggio di venerdì
davanti alla sua abitazione di via Lisbona dai carabinieri del nucleo
investigativo speciale creato dal prefetto della polizia e dal
comandante dell'arma dei carabinieri per indagare sulla lunga serie di omicidi
che ha sconvolto la quiete del quartiere più esclusivo della capitale.
Sono ormai
otto mesi che gli inquirenti seguono le tracce del misterioso pluriomicida
ritenuto responsabile dei sei omicidi avvenuti nel quartiere Parioli tra il
giugno del '91 e il febbraio '92.
Le
vittime: Mario Cecconi 28 anni, Angela Dumino 25 anni, Lorenzo Lo Presti 27
anni, Fernando Tersini 30 anni, Anna La Rocca 27 anni e Rita Gagliardi 26 anni, tutti
residenti ai Parioli, sono stati trovati orribilmente trucidati nelle loro
rispettive abitazioni con dei ferri da calza.
Pesanti
accuse gravano su Giovanni Forti. Il giovane ha dichiarato ai giornalisti la sua
innocenza e la sua estraneità ai fatti.
Il commissario Pacinetti che ha tentato invano di ottenere la confessione
durante un lungo ed estenuante interrogatorio ha lasciato intendere che
dall'esame del dna dipenderà
l'esito definitivo delle indagini.
Francesca rilesse due volte l'articolo e si alzò di scatto. Attraversò
correndo il locale. Fino in fondo, oltre il lungo bancone e i tavolini scuri.
Aprì una porta e scese delle scale strette rischiarate da un neon scarico e
intermittente. I gradini di marmo umidi e sdrucciolevoli per la segatura fradicia.
Odore di muffa sui muri lerci. Scese fino in fondo. Aprì una porta e poi
un'altra ancora.
Buio.
Trovò un interruttore che penzolava vicino alle mattonelle bagnate. La luce
fievole illuminò un cesso, un lavandino scheggiato e un resto di specchio e una
scritta gigantesca che diceva: "Noi viviamo con un cazzo in culo per
ventiquattrore al giorno. Chiama il 3212723 se vuoi essere dei nostri".
Puzzava di deodoranti di bassa qualità e piscio.
Francesca si piegò sul gabinetto e vomitò senza centrarlo. Sparse quello
che restava della sua colazione lì, per terra, sulle mattonelle nere.
Rimase così, accucciata, a riprendere fiato e a passarsi le mani sulla
faccia.
Che cosa stava succedendo?
Il mondo era impazzito.
Giovanni Forti.
Il suo uomo. Il suo ex fidanzato.
... Quello con cui hai fatto per la prima volta l'amore, quello con cui
hai condiviso per due anni un appartamento, quello che hai amato da stare
male, quello con cui hai passato le vacanze in Grecia, quello...
... Quello era un killer.
Il killer dei Parioli.
Francesca aveva visto le foto, le immagini alla televisione. Le si erano
stampate bene nel cervello.
Se la ricordava Angela. Angela Dumino. Angela di venticinque anni. Angela
la studentessa.
Nuda. Sciolta su un letto matrimoniale di un attico ai Parioli.
Morta.
Trapassata da lunghi spilloni acuminati. Dovunque. Sui seni, negli occhi,
nel cuore, nei genitali. E il materasso rosso, trasformato in una gigantesca
spugna zuppa di sangue. La bocca aperta e gli occhi aperti. I capelli solo
ciocche di sangue coagulato.
Il lavoro di uno psicopatico.
Vomitò di nuovo. Poi pianse singhiozzi rotti.
Risalì come uno zombi le viscide scale. Attraversò il bar. Non vedeva nulla
e non sentiva nulla. Uscì nella piazza, sotto la pioggia. Alzò un braccio.
Un taxi le si fermò accanto.
Ci salì e diede il proprio indirizzo automaticamente. Si sono sbagliati.
Ci deve essere un errore. Ora le veniva quasi da ridere a vedere Giovanni
nelle vesti di un serial killer. Che cantonata! Non poteva proprio essere.
Giovanni, lei lo conosce. Lo conosce bene. Giovanni è la persona più
normale e tranquilla che ha mai conosciuto. Uno con la testa a posto.
Inquadrato. Con tutte le rotelle che funzionano bene. Uno che come massima
aspirazione ha quella di fare soldi, sposarsi una ragazza di buona famiglia e
comprarsi una barca a vela da tenere a Porto Ercole.
Non sono gli insospettabili, gli inquadrati, quelli che covano dentro
orrore e pazzia? Non sono loro i più malati? sentì una vocina dirle.
No. No. No.
Ci doveva essere un errore.
Sicuro.
La polizia non capisce un cazzo. Sbaglia. Sicuro.
Scese sotto casa. Pagò la corsa molto di più del dovuto. Il tassista cercò
di darle il resto ma lei era già scomparsa. Arrancò sulle vecchie scale di
legno tirandosi sul corrimano.
Doveva vedere una cosa.
Subito.
Immediatamente.
Una cosa che le aveva ghiacciato il sangue nelle vene e ridotto il respiro
a un rantolo doloroso, un pensiero orrendo.
Aprì la porta e corse in camera da letto. Alzò la coperta che arrivava a
terra e infilò una mano sotto al letto. Lì dove teneva le valigie. Tirò fuori
la più grande, una bella valigia di cuoio scuro che le aveva regalato...
... il suo serial killer.
La aprì strattonando le cinghie. Abiti. Che scaraventò per tutta la stanza.
Il completo da sci comprato con Giovanni a Pescasseroli, i calzettoni di
lana comprati con Giovanni a Zermatt, il cappello con il pon pon rosso
regalatole da Giovanni per l'onomastico.
Finalmente trovò quello che cercava.
Una scatola di legno intarsiata. Lunga e sottile. La aprì. La rovesciò a
terra.
Si sparsero sul parquet lunghi ferri da calza, come in uno Shanghai per
giganti. Li mise in ordine, ne contò cinque coppie. Li ricontò.
No. No. No.
Dovevano essere molti di più.
Sei sicura? Vaffanculo, sono sicurissima. Certo che ce ne erano di più.
Per anni ne aveva collezionati, da quelli più sottili adatti per i golf di
cotone a quelli più grossi adatti alla lana spessa.
C'erano rimaste solo cinque coppie, quelli spessi con la punta smussata.
Quali mancano?
Quelli più fini e appuntiti.
Sentì la vocina perfida che le mormorava:
Giganteschi spilloni d'acciaio adatti a conficcarsi nella carne. Perfetti
per inchiodare i corpi ai materassi come scarafaggi a una bacheca.
Dove sono? Non lo so.
Da quanto tempo non apri quella scatola?
Da un sacco.
Da Roma.
Da Roma, quando?
Da almeno due anni.
Ora usava un set speciale di ebano, comprato a Londra appena arrivata.
Quella scatola non l'aveva mai aperta.
Si mise una mano sulla bocca e si morse a sangue il centro del palmo.
Sei una cretina... Li hai lasciati a Roma. Certo. Non può essere che cosi.
Si alzò e afferrò il telefono. Chiamò sua madre, con il fiato sospeso,
attenta a non sbagliare numero, con calma. Occupato. 'Fanculo!
Si aggirò per casa senza sapere che fare. Doveva calmarsi. Doveva
riflettere. Riprovò a telefonare. Niente. Una, due, tre, quattro, cinque volte
e finalmente, libero.
Uno, due, tre, quattro, cinque squilli e poi la voce di sua madre.
«Pronto?»
«Mamma!!»
«Francesca, amore, hai letto?» «Sì mamma...»
«Non ti preoccupare. Ci deve essere stato un eri-ore... È così.»
«Sì, è sicuro. Non può essere stato lui. Io ci ho vissuto due anni
insieme...»
«Lo so, lo so, piccola. Non ti preoccupare, sbagliano sempre.»
«Hai altre notizie?»
«No, la televisione ha detto le stesse cose dei giornali. Non si sa
niente...»
«Ma dove sarà ora?»
«È stato rilasciato dopo l'interrogatorio. So solo questo...» «Senti,
mamma, devi farmi un favore... È molto importante...»
«Dimmi.»
«Devi andare all'appartamento di via San Valentino e guardare tra le cose
che ho lasciato. Devi cercare i miei ferri da calza...»
«Che cosa, non ho capito?»
«I miei ferri da calza!»
«Come?»
«I miei ferri da calza, mamma!» Silenzio.
«Francesca, che vuol dire?»
«Niente, ti prego, non chiedermi niente. Fa' solo quello che ti dico. Ti
prego. Qui non ci sono... Non riesco più a trovarli. Vai a vedere. Devono
essere ancora a via San Valentino...»
Silenzio.
«Pronto! Pronto mamma? Ci sei?»
«Ci sono, ci sono. Va bene. Vado. Ti chiamo appena torno a casa. Ho
prenotato un aereo per domani mattina. Alle undici sono da te. Ora tu stai
tranquilla.»
«Sto bene. Chiamami appena hai controllato...»
«Sì, ma tu promettimi che ti fai un bel sonno...»
«Va bene. Ora vai.»
Abbassò.
Doveva solo aspettare che sua madre richiamasse. Doveva
solo starsene tranquilla, guardare un po' di televisione e aspettare che le
dicesse che i suoi ferri erano là, finiti in una vecchia valigia insieme ai
libri. E se non fosse stato così?
Accese la televisione. Un documentario sulle scimmie del Sud America.
Cambiò. Un gioco a premi. Cambiò. Un telefilm della "Casa nella
prateria". Cambiò. Un clip di Madonna. Spense.
Alcuni di quelli che erano morti Francesca li conosceva. Non bene in
verità, solo di vista. Era gente che frequentava il suo giro, che si incontrava
alle feste. Quel Ferdinando Tersi-ni detto Ferdi se lo ricordava. Quando ci
incontravamo ci salutavamo. Alto, stempiato e bene in carne. Un fichetto
dei Parioli. Stava sempre davanti al Mameli, il liceo dove Francesca aveva
preso la maturità. Era più grande e se la faceva con le liceali.
Il killer gli aveva inchiodato lo scroto e il pene a una gamba. Andò in
cucina.
Tirò fuori le bustine della camomilla. Scaldò l'acqua.
Conosceva anche Anna La
Rocca. Lavorava in un pub vicino piazza Euclide. Era magra
magra, sembrava anoressica. Dei lunghi capelli biondi.
L'avevano ritrovata appesa alla doccia. Le mani unite, come se pregasse,
trafitte dai ferri. I ferri piantati nel cranio.
In quel periodo non usciva più nessuno. Qualcuno ci scherzava sopra.
Coglioni. Ci si vedeva solo in case di amici, si frequentava solo vecchie
amicizie, mai sconosciuti. Non si usciva da soli. Si diceva che il pazzo
omicida era uno dei Parioli, probabilmente qualcuno che si conosceva, qualcuno
a cui era andato in corto il cervello.
No.
Non poteva rimanere da sola.
La testa le correva ai ferri, ai morti e a Giovanni e ci girava su, in una
spirale di sangue.
Clive!
Chiamalo!
Andò al telefono e lo chiamò.
Gli avrebbe chiesto di farle compagnia. Di passare la notte insieme fino a
quando non sarebbe arrivata sua madre.
La segreteria telefonica. La voce di Clive. La stronza voce di Clive con
sotto una stronza musica da camera.
«Clive dove stai? Chiamami, appena torni, sono a casa!»
Abbassò.
Si sedette.
La casa era troppo silenziosa. Solo pochi rumori che le parvero
improvvisamente sinistri. Il ronzio del frigorifero. Il borbottio della
resistenza dello scaldabagno. Il ticchettare della sveglia sul camino.
Attraversò la casa con la sua tazza di camomilla tra le mani ascoltando i
suoi passi rimbombare sul pavimento.
Le sembrava che la vita, la città fossero lontanissime, oltre le finestre.
Poggiò la fronte contro il vetro bagnato. La gente ancora passava, le macchine
ancora si incolonnavano davanti al semaforo all'incrocio della strada ma era
come se tra lei e tutto questo ci fosse un fossato profondissimo e
invalicabile.
Doveva uscire. Cercare gente. Perdersi nelle strade piene di negozi
illuminati. Fare shopping. Andare in istituto. Anda...
No.
Non poteva. Doveva aspettare la chiamata di sua madre. Clive chiamami.
Forza.
Come era possibile che Giovanni fosse un assassino?
Ragioniamo. Stavano sempre insieme. Giorno. Notte. Qualche volta tornava
tardi, ma perché giocava a calcetto.
Si sarebbe già sconvolta a scoprire che aveva avuto un'amante. Non era
nemmeno capace di mentire. Le bugie gli si vedevano in faccia. Arricciava il
naso.
Impossibile.
Si mise sul letto, si coprì con la coperta, accese la radio. Prese un libro
qualsiasi.
Tra poco avrebbe chiamato Clive o sua madre. Bisognava solo aspettare.
Si rannicchiò e si strinse forte il cuscino tra le braccia. Brividi.
Dalla finestra vide l'insegna luminosa del supermarket indiano di fronte
accendersi di rosso e blu e le nuvole grigie correre su nuvole più grigie.
Si sentiva stanca e sfinita. Stanca da morire, con il respiro corto come se
i polmoni le si fossero improvvisamente rimpiccioliti. Sentiva le palpebre di
piombo cadérle.
Le chiuse.
Ora era tutto buio. Finalmente. Ora doveva solo dormire.
La casa rimbombò.
Rumore di passi. Di pantofola strusciate. In cucina. In salotto. Dovunque.
Era tornato.
L'uomo ghignante era tornato e trascinava i piedi per il suo appartamento.
E tornato solo per te. Per giocare di nuovo...
Francesca alzò la testa. Si mise seduta.
Era lì, davanti a lei, in piedi, e rideva. Una risata stravolta, strozzata,
che le fece accapponare la pelle. Non lo vedeva in faccia, coperto dall'ombra
della tenda. Ne vedeva solo il fondo dei pantaloni sporchi di fango sopra
piedi deformi infilati a forza in sandali di gomma.
L'aria si fece salata. Salata come l'odore del sangue.
Non sei Giovanni, vero? Dimmelo! ti prego.
Non rispose. Sentiva solo il respiro di un cetaceo ferito a morte.
Mi vuoi uccidere?
Lui prese qualcosa dalla giacca, qualcosa che balenò di luce metallica.
Acciaio. Un rumore leggero leggero. L'ombra teneva in mano qualcosa di
lungo e sottile. Apparì.
Francesca, a letto, inchiodata dal terrore. I muscoli inutili pezzi di
legno.
Era un cinese. Un cinese diverso. Abbastanza piccolo. Gli occhi stretti e a
mandorla, opachi e senza vita. Come quelli di un bastardo con la cataratta. Il
naso solo un buco da cui colavano brandelli di carne e una bocca con denti
sgangherati. Le sorrise mostrando le gengive livide e marce.
«Io avele fame. Molta fame» sghignazzò contento.
Le si avvicinò a piccoli passi. In mano, tra pollice e indice, impugnava
due bacchette, due bacchette di metallo. Due ferri da calza appuntiti. Le
punte stringevano un pezzo di carne grondante sangue. Era un labbro, si rese
conto Francesca, con i suoi bravi baffi attaccati.
Il cinese con il suo sorriso idiota glielo porse, come per imboccarla.
Gocce di sangue sulla coperta. Poi lo tirò su, verso l'alto e se lo cacciò in
bocca. Rise e masticò e mentre masticava si trasformò.
Dalle arcate sopraccigliari cominciò a formarsi qualcosa di nero e duro, di
plasticoso, anche sopra quel simulacro di naso colò una sostanza nera che si
congiunse con quello delle sopracciglia fino a trasformarsi in un paio di
occhiali, di Persol. I capelli si diradarono schiarendosi. Un naso spuntò dal
buco, un naso appuntito, e i denti persero la patina gialla e si raddrizzarono,
diventarono progressivamente perfetti. Gli occhi si fecero mobili e
infinitamente tristi.
Giovanni!
Era Giovanni.
Guardava Francesca con uno sguardo così triste...
Disperazione e amore. Gli occhi di un innamorato abbandonato. Giovanni
sei tu? Mi dispiace, non volevo lasciarti... Ho sbagliato!
«Francesca, Francesca. Ti prego. Aiutami!» le sussurrò lui ed era la sua
voce, identica, con quell'accento romano appena accennato.
Le si avvicinò ancora e le sorrise appena. Tirò su una mano insanguinata,
impugnava il ferro da calza, se la guardò un attimo.
«Aiutami Francesca!»
E la colpì.
Francesca saltò fuori dal letto come una molla. Sto impazzendo!
Sudata e terrorizzata. Il cuore in gola. Si guardò in giro alla ricerca
del suo incubo.
È solo un altro sogno di merda... Rilassati. Si rinfilò sotto le coperte.
L'appartamento le parve improvvisamente troppo piccolo. Minuscolo,
claustrofobico e silenzioso. Un mare di inchiostro oltre le finestre.
L'oscurità oltre la porta. Ebbe una visione della sua piccola casetta con le
sue stanzette, con lei bambina, seduta sul lettino che affondava lenta e
inesorabile negli abissi di un mare nero e senza fondo.
Sto impazzendo!
Le ronzavano le orecchie.
Guardò l'orologio. Le otto e mezzo. Clive non aveva chiamato. Sua madre
nemmeno. Doveva uscire. Tornare alla vita. Prese il telefono e compose il
numero di Clive. Tre squilli e poi la segreteria. Dove cazzo stai?!
«Clive! Sono Francesca. Dove sei finito? Chiamami appena arrivi!»
Compose il numero di sua madre. Libero.
Aspettò. Non era ancora rientrata. Abbassò. Si vestì di fretta. Senza
pensare. La casa le pesava addosso. Quei vestiti sparsi a terra, quel cappello
con il ponpon, la scatola di legno. Afferrò la borsa ed uscì sbattendosi la
porta di dietro. Corse giù per le scale di legno fino al portone. Lo aprì ed
uscì.
Pioveva.
Scendeva giù continua e implacabile. Francesca si avventurò per la strada
camminando in una specie di pantano fatto di terra di lavori in corso e
spazzatura. Dopo duecento metri si sentiva già il gelo nelle ossa e gli abiti
bagnati che le pesavano addosso.
Ma come mi sono vestita?
Si guardò. Indossava un paio di superga, i jeans e la giacca di camoscio.
Non un cappello, una sciarpa, delle scarpe da pioggia, un ombrello. Era uscita
senza neanche l'ombrello.
Tranquilla! Va tutto bene. Ora te ne tomi a casa. Ti cambi, ti vesti
pesante. Ti prendi un taxi e ti fai accompagnare da qualcuno, si disse.
Girò su se stessa e tornò indietro riparandosi la testa con le braccia.
Arrivata davanti al portone aprì la borsa e cercò le chiavi.
C'era di tutto: i trucchi, l'astuccio delle penne, un paio di quaderni, il
gomitolo di lana, le sigarette, l'accendino, le pillole per il mal di testa,
addirittura le chiavi del suo appartamento a Roma ma non le chiavi di casa, le
stronze chiavi di casa.
Le hai dimenticate.
E lei sapeva pure dove, nell'ingresso, vicino alla segreteria telefonica.
Bestemmiò. Suonò a Miss Rendell. Aveva i doppioni.
Non rispose nessuno. Si attaccò al campanello. «Dove sei vecchia troia?
Rispondi!»
E Francesca sapeva anche questo. Glielo aveva detto la vecchia stessa. Due
giorni prima.
«Signorina, domani parto. Torno martedì. Vado da mio figlio a Plymouth.
Sono due anni che non lo vedo. Mi raccomando le luci per le scale. Le spenga!»
le rimbombò la voce della Rendell in testa.
«'Fanculo» imprecò tra i denti.
Un'altra voce, la vocina della consapevolezza, le sussurrò una cosa che non
voleva sentire:
Carina, se cerchi nella borsa vedrai che manca anche un'altra cosa!
Che cosa?
Il tuo bel portafoglio di coccodrillo. Quello che ti ha regalato il tuo ex.
Dov'è?
Francesca lo sapeva. Sul tavolino vicino al letto. Lo aveva preso dalla
borsa. Dentro ci teneva il biglietto con il numero dello studio di Clive.
Si sedette sulle scale disperata. Niente chiavi. Niente soldi. Era uscita
come un'idiota. Neanche l'ombrello. Niente di niente. Si tirò su e infilò le
mani nelle strette tasche dei jeans. In fondo alla tasca di destra trovò una
banconota accartocciata. Ne avvertì la consistenza con la punta delle dita.
Gioì.
La tirò fuori. Una sterlina.
Solo una stupida, inutile sterlina.
L'acqua continuava a scendere dal cielo, a scrosciare dalle grondaie, a
ingrossare i torrenti che correvano tra strada e marciapiede, a fuoriuscire dai
tombini.
Vai all'istituto.
Guardò l'orologio. Troppo tardi. Era chiuso. Devo andare da Clive, al
suo studio.
Con la sterlina avrebbe pagato il biglietto e quando sarebbe arrivata
avrebbe trovato Clive ad aspettarla, con una coperta, con i video, Baglioni e
tutto il resto.
E se non c'è?
Ci sarà. Ci deve essere. Si deve pur interrompere la spirale di sfortuna,
non è possibile che continui, che si accanisca ancora. Muoviti. Clive sarà là.
Con questa convinzione si rigettò sotto la pioggia. Corse a testa bassa,
con il fiatone, sentendo il diluvio infilarsi giù per il collo, fino alla
stazione della metropolitana. Scese le lunghe scale mobili. Faceva più caldo là
dentro. L'aria sapeva di pioggia e chiuso insieme. Un venticello umido e puzzolente
le accarezzava i capelli zuppi. I neon facevano tutto giallo: la lunga galleria
coperta di maioliche, i poster delle pubblicità, i volti della gente. Molte
anime attendevano lungo la pensilina. Tutta quella gente ferma e placida, in attesa
della metro, la fece stare più tranquilla, le rallentò il battito.
Punti di vista.
Basta regolare il proprio. Rotarlo fino a vedere le cose in un'ottica
migliore.
Giovanni è sospettato. Però nessuno ha detto che lui è l'assassino.
Chiunque ai Parioli che vive nell'ambiente dove vivevano le vittime è
sospetto. Sospetto agli occhi ottusi della polizia che non capisce un cazzo.
E allora perché sei così terrorizzata?
E i ferri da calza?
I ferri da calza sono a Roma. Lasciati chissà dove, in quale scatola.
La metro arrivò preceduta dallo spostamento d'aria e dal rumore assordante.
Francesca entrò in un vagone quasi pieno. Trovò un posto libero in fondo alla
carrozza. Si sedette.
Lei era a Est, Clive a Ovest. Tutta la città in mezzo. C'erano parecchie
fermate.
Due ragazzi neri, grassi, nelle loro tute colorate, le sedevano vicino.
Mangiavano pop-corn e leggevano insieme un giornaletto dell'Uomo Ragno
commentando ogni pagina con esclamazioni e risate. Una vecchia con una busta di
plastica in testa le dormiva davanti. Molti in piedi, umidi e silenziosi.
Francesca appoggiò la testa contro il finestrino, protetta dall'umanità
stipata nel treno.
Riprese a respirare.
Man mano che procedeva verso la periferia il treno si svuotava. La gente
tornava a casa. Francesca contò quante fermate le rimanevano.
Solo quattro.
Alla fermata successiva i due adolescenti neri spintonandosi scesero dalla
carrozza. Dalla porta in fondo alla carrozza entrò un uomo. Si sedette vicino
alla porta. Francesca lo notò perché indossava una giacca a vento Henri-Lloyd
blu.
Quelle giacche avevano avuto una grande fortuna in Italia a metà degli anni
Ottanta e soprattutto ai Parioli dove erano diventate una specie di divisa. Un
modo per riconoscersi. Francesca ne aveva avute due. Una nera e una gialla.
Era la prima volta che ne vedeva una a Londra.
L'uomo indossava anche un paio di jeans neri e degli stivali a punta.
Francesca era troppo lontana per vederlo in faccia.
Deve essere un italiano!
Il treno rallentò. Si fermò. Altri viaggiatori scesero. Nessuno salì.
Ora nella carrozza c'erano soltanto Francesca, la vecchia che dormiva e
l'italiano. Mancavano due fermate.
Il giovane dall'altra parte sedeva composto e immobile. Un manichino.
Il treno rallentò ancora fino a fermarsi. La
vecchia aprì gli occhi e poi sacramentò. Di corsa, se la sua si poteva chiamare
corsa, prese da terra una busta piena di vestiti e sparì oltre le porte.
Nessuno salì.
Le porte si richiusero sbuffando. Ora erano
solo in due. Lei e l'italiano. Una fermata.
Anche Giovanni aveva un Henri-Lloyd. Blu.
Gliel'ho regalato io. Ci facevamo un sacco di regali. Soldi ne avevamo...
L'uomo, come se improvvisamente si fosse
svegliato, si alzò.
Uno strano gioco di ombre gli copriva la faccia.
Aveva il colletto della giacca tirato su. Un occhio nero balenò.
Francesca sentì le gambe farsi pappa
sciolta. Lo stomaco chiudersi in un pugno.
Lo straniero stava avanzando verso di lei.
Deciso.
La metropolitana incominciò la lunga frenata
prima della stazione. Lo sferragliare si fece meno ritmato. La galleria, oltre
i vetri sporchi, si schiarì. Le luci.
Francesca si alzò. Il cuore le martellava le
tempie. Ora lo straniero era al centro della carrozza. Francesca si avvicinò
alla porta. I muscoli tesi come elastici.
Ecco, la stazione, oltre le porte
automatiche. Ecco la gente.
Il treno rallentò di più, fino a fermarsi.
Lo straniero era a meno di un metro da lei e avanzava ancora.
Porte del cazzo apritevi. Che
aspettate?
Non lo guardava ma sentiva il suo sguardo
addosso, fic-carlesi, come un uncino, dentro.
Forza! Apritevi!
E quelle sbuffando si aprirono.
Francesca
scattò. Attraversò la folla, sgomitando. Corse, a bocca aperta, lungo il
corridoio coperto di manifesti che saliva lentamente verso la superficie.
Corse come non aveva mai corso in
vita sua. Si gettò nelle porte girevoli
facendole urlare sui cardini. Attraversò la biglietteria. Si arrampicò, incespicò
sulle scale.
E fu fuori.
Nella notte, nella pioggia e nel traffico.
Riprese a correre, piegata in due dalla
milza che le urlava. Girò a sinistra, nella prima strada che incontrò. Non
vedeva niente, solo il chiarore delle vetrine e le ruote delle macchine
posteggiate ai lati della strada e i piedi della gente. Voltò di nuovo in un
vicolo e poi in un altro ancora. A caso.
Non ce la faceva più. Si doveva fermare.
Rallentò e si girò indietro. Per la prima volta.
Non c'era nessuno.
Non c'era lo straniero, non c'era
l'italiano, non c'era l'uomo con l'Henri-Lloyd. Solo un vicolo buio. Continuò a
camminare ansimando. Ogni tanto si voltava e guardava indietro.
Sto impazzendo!
Quello, probabilmente, era uno qualsiasi.
Uno dei tanti italiani che affollano Londra. Uno dei milioni di possessori di
Henri-Lloyd.
Che mi sta succedendo?
Francesca, oramai completamente bagnata, si
sedette su una panchina di marmo e cominciò a piangere. Pianse di stanchezza e
dell'orrore che sentiva dentro. Pianse la sua sfortuna.
«Signorina, si sente bene?»
Francesca sollevò la testa. Un signore con
ombrello, cappello, sciarpa, impermeabile, la guardava con un'aria divisa tra
il preoccupato e il caritatevole.
«Sì, sto
bene... sto bene» rispose Francesca con la voce rotta.
Si tirò su e si avviò. Il signore sotto l'ombrello,
frustato dalla pioggia, la guardò allontanarsi.
Francesca continuò a camminare a caso in quel
groviglio di stradine residenziali con le piccole casette tutte uguali, tutte
illuminate. E finalmente sbucò in una strada più grande che non doveva essere
lontana dallo studio di Clive. Il gelo le era salito su per le gambe
mordendole i polpacci. I piedi le sciacquavano dentro le scarpe.
Mancava poco a casa di Clive.
Si tirò indietro i capelli che le cadevano sugli
occhi. Si mise dritta e rallentò il passo, tanto ormai era completamente
bagnata.
La
luna, stranamente visibile tra gli squarci delle nuvole nere, tonda e pallida,
illuminava l'orizzonte di una luce diafana e innaturale.
E lo vide di nuovo.
Davanti
a un negozio di elettronica. Dall'altra parte della strada. Illuminato dalle
insegne rosse. La guardava.
Chiuso
nella sua giacca a vento blu la guardava. Un fantasma. Cos'altro era? Mani
nelle tasche.
No, non è
possibile! Mi sta seguendo...
Francesca riprese a correre. L'uomo rimase fermo. La
guardava allontanarsi scomposta, affondare nelle pozzanghere.
Francesca
con il buio nel cervello e il cuore che le fischiava nelle orecchie attraversò
un'area di costruzioni, di scheletri in cemento armato, di gru d'acciaio e di
fango. L'ultima delle costruzioni, la più grande, era quella di Clive. La riconobbe
subito.
La serranda era abbassata. Chiusa.
Francesca si precipitò addosso e incominciò a
tempestarla di pugni.
«Clive. Clive. Apri. Apri. Clive» urlò.
La prese a calci, ammaccandola, odiandola e facendola
fremere sui lucchetti.
«Clive, cazzo. Apri. Sono Francesca. Apri.»
Continuò a lungo a prenderla a cazzotti. I pugni che
le facevano male.
Non ce
nessuno. Smettila! Smettila!
Crollò
in ginocchio, nell'acqua e urlò. Urlò a Clive scomparso. Urlò a Giovanni che
era tornato. Urlò a quella pioggia senza fine. Urlò e basta.
Un
grido che non aveva più niente di umano. Il latrato di un cane morente. Poi
piegò la testa e rimase così, un sacco di tempo, con la pioggia che le
scivolava addosso.
Come era possibile?
Giovanni
a Londra. Che diceva il giornale? Fermato dalla polizia. Fermato. Soltanto
fermato. Che le aveva detto sua madre?
"È stato solo rilasciato, so solo questo..."
Ma
se sei indagato lo puoi prendere un aereo? No, non lo puoi prendere. Non ti
levano il passaporto? Certo che ti levano il passaporto.
Non era lui. Ti sei fatta prendere dal panico, da un
leggero attacco di follia. Niente di grave. Stai solo diventando una psicopatica...
Si
tirò su e, automaticamente, si avviò verso la strada. I fari delle macchine
scivolavano sull'asfalto brillando nelle pozzanghere. Si sbracciò cercando di
fermare un taxi. Ne passarono due. E non si fermarono.
Forse a causa del suo aspetto. Uno spaventapasseri
affogato.
Finalmente si fermò un cab. Francesca
ci si infilò dentro. L'autista era un giovane nero. Con un cappello di lana colorato
in testa e una divisa militare. «Dove ti porto, bellezza?» le chiese «A casa» disse Francesca tremando. Ora aveva i brividi. I denti le
battevano senza controllo. Il gelo le era entrato nelle ossa.
«D'accordo. Ma se non mi dici l'indirizzo...»
«Vincent Square.»
«D'accordo.»
C'era traffico. Rimasero a lungo incolonnati. L'autista ogni tanto se la
spiava nello specchietto. Francesca non ci faceva caso.
«Che è successo? Sembra che hai fatto il bagno in una piscina con tutti i
panni addosso. Copriti. Stai battendo i denti. Guarda, dietro di te c'è una
coperta. Forse puzza un po'. Mettitela addosso se no ti prenderà un accidente»
le disse a un tratto con l'accento giamaicano.
Francesca si avvolse nella coperta.
E poi perché Giovanni era a Londra e la inseguiva?
Non aveva nessun senso.
Sentì una voce dentro, una voce fredda e razionale, che le diceva:
"E semplice da morire. Tu hai la prova. La prova che lui è
l'assassino. I ferri. I ferri che sono scomparsi. Tu lo sai e lui lo sa. È
venuto per chiuderti la bocca. Per chiudertela per sempre."
Un terrore nuovo, così assurdo, da sembrare incomprensibile si impadronì
di lei. E così. E così.
Devi scappare. Devi nasconderti. Non devi farti trovare. Bisognava solo essere razionali.
Adesso vai a casa. In qualche modo entri. Prendi i soldi e te ne vai.
E dove? Dove me ne vado? In un albergo, alla polizia, dove cazzo ti pare. Mancavano pochi isolati a casa. «Fermati. Fermati» ordinò al tassista.
«Ma non siamo ancora arrivati...»
«Non importa. Senti non ho soldi per pagarti. Ma ti do questo, dovrebbe
andare bene.»
Francesca si sfilò dal braccio l'orologio. Un Rolex. Il regalo di sua
madre per la laurea. Glielo diede.
«Aspetta... È troppo!» gli urlò dietro l'autista ma era tardi, Francesca
era già fuori e correva.
La palazzina era buia.
Nessuna finestra illuminata, anche al piano di sotto. La Rendell non era tornata.
Francesca raccolse da terra una pietra pesante. Si girò a guardare. Non
passava nessuno. Sfondò il vetro smerigliato con un colpo secco. Infilò la mano.
Trovò la serratura. Tirò il chiavistello.
La porta si aprì.
Si avviò su per le scale ansimando. Lo stomaco ridotto a un pugno di
visceri doloranti. Ora arrivava il difficile. La porta di casa. Quella non si
sfondava con una pietrata. Salì fino al solaio dove la Rendell teneva i panni ad
asciugare. Accese le luci. Dietro le lenzuola appese trovò quello che faceva
al caso suo. Una grossa accetta arrugginita. Tornò giù tremando. Si mise
davanti alla porta e sollevò l'ascia sopra la testa. Prese fiato e la calò con
tutta la forza che aveva sulla serratura. Un boato assordante rimbombò nella
tromba delle scale. La porta era ancora chiusa. Si era staccata una grossa
scheggia ma la serratura teneva.
La calò ancora. E ancora. E ancora. Fino a staccare del tutto la serratura.
La porta si aprì.
Entrò.
Accese le luci. Corse in camera da letto. Il portafoglio era là, dove
ricordava, sul comodino, vicino alla finestra. Lo prese. Dentro c'erano
duecento sterline.
Bene!
Ora poteva anche andarsene. Tornò in corridoio. La segreteria lampeggiava.
Che cosa doveva fare?
Scappare? E se era sua madre che le diceva che aveva trovato i ferri, che
erano tra le sue cose a via San Valentino? Spinse il tasto del riascolto.
«Sono Clive. Che succede? Sono appena tornato. Stavo fuori Londra.
Richiamami.»
Francesca cominciò a spogliarsi rapidamente. Stava morendo di freddo.
Tremava come una foglia. Si doveva togliere di dosso quegli stracci bagnati.
Secondo messaggio.
«Francesca. Non li ho trovati i ferri. Li ho cercati dovunque. Non ci
sono... Senti perché stanotte non vai a dormire da una tua amica? Non mi va di
saperti sola soletta nel tuo appartamento. Appena torni chiamami... Io domani
mattina sono là.»
Francesca non ascoltava. Lì, nuda, vicino alla segreteria ascoltava un
altro suono. Passi.
Passi sulle scale.
Qualcuno stava salendo. Qualcuno con le suole di cuoio.
Erano passi. Pesanti. Trascinati.
Giovanni.
L'adrenalina le ingolfò le arterie, le eccitò il cuore, le gelò le braccia,
le morse le gambe e le rilassò la vescica. L'urina le colò calda lungo la
coscia. Passi. Passi. Passi. Ancora passi.
Il corpo di Francesca voleva muoversi, scappare, ma la testa era
imbrigliata da una paura semplice e primordiale che le impediva di pensare, di
agire.
Non ce la faccio... non ce la faccio a muovermi.
L'interruttore generale della luce.
Era accanto a lei.
Allungò una mano e lo abbassò.
Buio.
Dalla porta sfondata entrava un po' di luce che timidamente illuminava i
primi metri del corridoio per lasciare spazio poi alle tenebre.
Passi.
L'accetta.'
Francesca la raccolse da terra. Si nascose dietro lo stipite della porta.
Nuda e terrorizzata. Stringeva con tutte e due le mani l'ascia pesante. Non
respirava. Aspettava.
Il ritmo dei passi cambiò. Il fruscio dell'Henri-Lloyd. Lo straniero ora
era sul pianerottolo.
«Francesca!? Francesca! Dove sei?»
La stava chiamando con la sua voce viscida. . «Francesca!?»
L'ombra si dipinse sul pavimento. Francesca vide la sagoma dell'uomo
indugiare sull'ingresso, tirò su l'accetta, oltre la testa. La mano dell'uomo
cercò l'interruttore della luce. Francesca scattò, con tutta la forza che
aveva.
Gli amputò tre dita.
Di netto.
Tre ramoscelli che si spezzano. Caddero sul pavimento.
E anche lo straniero crollò a terra, in ginocchio, urlando. Tirò su il moncherino
e se lo strinse nell'altra mano. Francesca non riusciva a vederlo. Vedeva solo
la sagoma accucciata a terra. Sembrava che stesse pregando. Francesca avvertì
l'odore salato del sangue diffondersi nel corridoio.
Lo spinse da un lato, avrebbe voluto scappare giù, per le scale, ma non
poteva, l'uomo le ostruiva il passaggio. Corse allora verso la camera da letto,
sbattendo come un topolino cieco. Brancolando nel buio a mani avanti. Sbattendo
contro il cassettone, contro lo spigolo della porta, facendo crollare a terra
lo specchio, i soprammobili.
Scivolò sul tappeto.
E batté violentemente lo sterno a terra, lo stomaco. I polmoni le si
chiusero. Francesca provava a respirare ma non ci riusciva. Riusciva solo a
emettere un rantolo affogato. Un sibilo asmatico. Lontano, sentiva l'urlo e il
pianto di dolore dell'uomo che le girava in testa... Stava soffocando. Boccheggiava
come un pesce fuor d'acqua.
Finalmente riuscì a ingoiare un po' d'aria. Poca. Quella che bastava per
non morire. Piano piano i muscoli intercostali le si rilassarono e riuscì di
nuovo a respirare.
Passi.
Lo straniero si era alzato. Avanzava verso di lei lamentandosi.
Francesca se lo vide, davanti, illuminato dal bagliore della città.
Giovanni!
L'uomo con l'Henri-Lloyd. Si stringeva con la mano il moncherino. Francesca
indietreggiò strisciando sul culo. Fino al bordo del letto.
«Non mi ammazzare. Non mi ammazzare. Ti prego» disse Francesca piano, tra i
denti. Una preghiera sussurrata.
«Non mi ammazzare. Non mi ammazzare...»
Intanto si era arrampicata sopra il letto e ora era spalle al muro. Senza
via di scampo.
La fine.
«Francesca! Francesca!» disse l'uomo con una voce distorta, strana,
innaturale.
«Francesca aiutami!»
L'uomo attraversò la stanza barcollando.
Francesca prese il telefono e glielo tirò addosso. Poi i libri e gli tirò
anche quelli.
«Vaffanculo! Figlio di puttana. Che cazzo vuoi? Lasciami in pace» gli
miagolò contro.
Lui si fece più avanti, ora in silenzio. Francesca afferrò la lampada dal
tavolino. Gliela scagliò addosso. Non lo colpì.
Era in trappola. Un topo in trappola. Con le mani, cercò qualcos'altro.
Qualsiasi cosa con cui difendersi. Qualsiasi cosa con cui mandarlo via.
Niente.
Poi tra le coperte trovò qualcosa. I ferri.
I ferri da calza.
Sfilò la lana che c'era avvolta intorno e ringhiando disse:
«Muori bastardo!» tirò su i lunghi spilloni d'acciaio e gli si avventò
contro come una furia.
L'uomo non se l'aspettava. Rimase immobile.
Lo colpì. Con tutta la forza che aveva. Prima nello stomaco e poi nel
petto. Tre volte. Lo spillone bucò i vestiti e poi la carne senza difficoltà.
Si infilò in un pezzo di burro.
L'uomo rimase immobile.
Lo colpì di nuovo. Una, due, tre, dieci, cento volte. «Muori. Figlio di
troia. Muori bastardo» intanto gli urlava contro.
Giovanni, lo straniero, l'uomo ghignante le crollò addosso e basta. Rigido.
Come una statua a cui hanno tolto il piedistallo.
Rantolò solo, quasi stupito:
«Cazzo, Francesca. Mi hai... mi hai ammazzato!»
Francesca lo colpì ancora. E ancora. E ancora.
Il sole finalmente era apparso insieme alla nebbia fondendo le cose in
un'unica cosa grigia e luminosa. La pioggia era finita. La luce filtrava dalla
finestra illuminando il pulviscolo in sospensione. Faceva freddo.
Francesca aprì un poco gli occhi.
// sole! C'è il sole finalmente.
Sentiva i brividi che le correvano sui muscoli. Doveva avere la febbre. E
anche forte. Che ore saranno?
Doveva essere tardi. Il sole era già abbastanza alto, dietro la finestra.
Francesca non aveva voglia di alzarsi ma aveva freddo e le ossa rotte.
Si tirò più su le lenzuola, fino al naso.
Ma le lenzuola erano bagnate e appiccicose e non la scaldavano per niente.
Anche il pavimento dove aveva dormito era freddo e duro.
Forse è il caso che mi vesta, pensò.
Si levò le lenzuola di dosso. Le lenzuola completamente rosse. Come tutto
il resto d'altronde. Il tappeto. Il pavimento. I muri.
Anche lei era completamente rossa. Solo il rosso che aveva addosso si era
seccato e ora le tirava la pelle, senza farle male.
Si mise in piedi.
Tremava.
Si guardò in giro.
«C'è proprio un bel disordine!» disse ad alta voce. Andò in cucina. Mise
l'acqua sul fuoco.
Scotland Yard arrivò mentre Francesca si beveva in salotto il suo tè e
guardava la televisione.
Le macchine della polizia, due per l'esattezza, si fermarono proprio
d'avanti alla casa di Miss Rendell.
L'ispettore Shell, mezz'ora prima, aveva ricevuto una telefonata
dall'Italia. Un certo commissario Pacinetti inun inglese scolastico gli aveva
spiegato che aveva buone ragioni di credere che una giovane italiana, Francesca
Morale, ora residente a Londra, fosse il killer di una serie di omicidi avvenuti
a Roma due anni prima.
L'ispettore Shell non aveva nessuna voglia di uscire, voleva rimanere nel
suo ufficio, al caldo. Quella mattina aveva un terribile mal di testa, la sera
prima aveva alzato un po' il gomito, ma la voce insistente e nervosa del
commissario Pacinetti lo aveva convinto a muoversi.
Quando arrivò davanti all'ingresso di casa della giovane trovò la porta
aperta e il vetro spaccato. Salì le scale di corsa insieme a tre agenti. Al
primo piano trovò la porta dell'appartamento sfondato. Entrò.
Francesca Morale era nuda e completamente imbrattata di sangue.
Nella stanza da letto l'ispettore trovò il corpo senza vita di un uomo,
trafitto da circa una trentina di ferri da calza.
Il sangue dal corpo era colato sul materasso rendendolo color vinaccia.
Il giovane, che non doveva avere più di trentanni, aveva una strana
espressione, come di sorpresa, rovinata da due ferri che gli trapassavano le
guance da una parte all'altra. I lunghi capelli biondo cenere, raccolti in una
coda di cavallo, si erano incollati insieme come un pennello non lavato. Il
lungo cappotto era aperto rivelando una fodera interna vecchia e consumata. La
camicia sbottonata. Sul petto il ragazzo aveva tatuato un grosso drago cinese
ora poco visibile, nascosto dal sangue e dai lunghi spilloni che lo
crivellavano. La vittima risultò poi essere Clive Ellson, un pittore.
L'ispettore coprì la ragazza con il suo impermeabile.
La ragazza gli sorrise e gli chiese se voleva un tè, lo aveva appena fatto.
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