Sììììììììì, ancora, mi farai morire cosi, sìììììì, non smettere, sto venendo. AAAHHH.
Spengo il video.
Spengo la tele.
Carne. Genitali priapeschi. Erezioni. Sudore. Balistiche eiaculazioni.
Tutto quel sesso mi gira in testa e mi frastorna come uno stormo di corvi strepitanti.
Queste cassette mi sfiniscono e stremano.
È oramai solo un rituale introduttivo che cornpio quotidianamente prima di masturbarmi.
Prima guardo la cassetta e poi mi masturbo.
II film serve solo come antipasto.
Le seghe che mi sparo hanno perso il rigore della realtà per diventare astratte e ispirate a principi complessi, metafisici.
II bene e il male, la vita, la riproduzione, la duplicazione del DNA, la morte, Dio.
Oggi però ho bisogno di qualcosa di più terreno.
Vorrei sentire un corpo agitarsi sotto il mio.
Vorrei venire in qualcosa di diverso della mia mano.
Non vorrei che il mio sperma finisse nel cesso.
Vorrei morire dentro qualcosa che sbatte le gambe.
Giro per casa indeciso.
Deciso solo ad appagare le voglie torbide che mi si muo vono nel cranio come selvatiche fiere alienate dalla cattivita.
Mi faccio una doccia.
L'acqua scorre sul mio corpo, cola in lucide strisce e questo invece di placarmi mi eccita ancor di più.
Vecchio babbuino frustrato che non sei altro.
Nella doccia, insieme a me, ci sono donne che mi baciano, mi toccano, mi mostrano i loro attributi sproporzionati come nel più classico dei film pornografici. Donne con seni giganteschi, scuri e terribilmente gonfi.
Ipertrofia della ghiandola mammaria. Palloni di carne. Emiglobi gonfi di silicone. Basta.
Mi vesto.
Prendo un mazzo di banconote.
Spengo tutte le luci.
Scendo in strada.
Fa freddo.
Monto sulla mia FIAT Croma e giro.
Giro come un pazzo attraverso i sottopassaggi che bucano il sottosuolo di Roma. Esco nel traffico che ristagna immobile e svogliato lungo il Muro Torto.
Arrivo strombazzando ai Prati.
Via Cola di Rienzo.
Lungotevere.
Mi sta riprendendo la voglia di sesso. Ringraziando Iddio mi sta tornando ai livelli di guardia questa fottutissima voglia di fare l'amore. Posso diventare pericoloso se mi prende male. Poi mi infilo nell'Olimpica e lì lancio la macchina oltre i 150. Mi ingarello con un Golf GTI metallizzato, eterno rivale. Lo straccio, lo fa ccio a pezzi, lo riduco a niente, con una accelerata da 128 cavalli.
Giro a destra e sgommando arrivo al Villaggio Olimpico.
Sono le nove di sera e lo smercio della carne è gia cominciato da un po'. Entro, in fila, dietro altre diecimila maèchine nel grande parcheggio alberato.
All'interno degli abitacoli, stipati dentro, giovani manzi urlano e si eccitano sgomitandosi e ridendo fino al, le lacrime. Stereo a palla. In altri invece uomini soli, timorosi più di me, abbassano il finestrino.
Si chiede, si domanda, si contratta.
E poi ci sono i fottuti guardoni, incapaci di comprarsi quello di cui hanno bisogno.
Sapete solo guardare, schifosi.
I brasiliani sono ai lati, nudi, alti, sfrontati. Sono strane bellissime creature. Ridono, si incazzano, non temono assolutamente il freddo.
Pellicce.
Mutandine di strass.
Tacchi a spillo.
Un trans con dei vaporosi capelli gialli infila la testa nel finestrino della mia macchina. È gigantesco. Ha delle mani enormi che in altri tempi devono aver fatto altro.
Mi guarda come se in me trovasse tutto quello che ha bisogno.
«Bella serata» fa lui.
«Bella serata» faccio io.
«Come ti chiami bel moretto?»
«Mario.»
«Ciao, Mario.»
«E tu chi sei?»
«Margot.»
«Ci vogliamo divertire?» mi fa ancora.
«Quanto?»
«Poco per te!»
«Quanto?»
«Settanta con la bocca, cento il resto.»
«Sei una ladr,a, Margot!» rido io.
«Ma io ti faccio morire di gioia.»
Rimango così, in fila, indeciso sul da farsi.
Guard o. Me ne vado.
È scoppiata una rissa tra i travestiti che si prendono à borsettate, che si sputano addosso, che si spintonano, che si urlano addosso.
Cagne idrofobe.
Ce n'è una che mostra spavalda le due stupende sfere che gli gonfiano il torace.
Ogni volta è la stessa storia. Finiscono sempre per litigare. C'è una volante della polizia.
Barre di luce blu nel buio.
I poliziotti cercano di dividerli e nello stesso tempo ridono, li lasciano sfogare, piangere.
Vado avanti.
Attraverso una grande arteria intasata di traffico locale ed entro nel dedalo di strade piccole dove battono le troie negre.
Non ne vedo neanche una che mi possa piacere.
Mi fanno schifo.
Sono brutte, malvestite, nei loro cencetti scadenti. Almeno i brasiliani sanno essere provocanti, eccessivi.
Non voglio finire a sbattere le ossa né con un travestito né con una negra.
Cosa voglio?
Vorrei una giovane ragazza bianca. Poco pratica ma esperta. Alta e bassa. Provocante e timida.
Mi allontano.
Mi spingo oltre.
Lascio andare la macchina sulle larghe strade periferiche. 120. 140. 160.
Non voglio tornare a casa così, insoddisfatto.
Vado avanti un altro po'.
Lo stereo spara l'ultimo successo di Ponatella Rettore, ''Di notte specialmente''.
Credo che mi andrò a scaricare sulla Roma-I'Aquila.
Lì potrò tirare la macchina ad altri livelli. Poi mi fermerò in un Autogrill e lì mi mangerò un Fattoria.
Sto per imboccare il raccordo anulare quando vedo una zoccola battere sul ciglio opposto della strada.
Che ci fa una topa così al dodicesimo chilometro della Casilina?
Conversione a U.
Stridore di gomme sull'asfalto.
Mi affianco.
Mi fa impazzire subito.
Avrà una ventina d'anni. Ha i capelli corti, neri. È alta e magra. Ha belle tettine sotto una magliettina elastica color porpora. Intravedo le collinette dei capezzoli. Ha le labbra gonfie impiastricciate di rossetto viola scuro. Il naso piccolo. Porta una minigonna nera e delle calze rosso scuro. Ha degli stivali di cuoio nero.
Abbasso il finestrino.
Lei si guarda intorno come a controllare qualcosa poi mi si avvicina a passi svogliati. Ha le mani in tasca del giubbotto jeans. Mastica una gomma.
«Sei pazzesca. Quanto vuoi?» dico abbassando lo stereo.
«Non lo so» è dubbiosa. «Poco.»
Strascica un po' le parole.
«Quanto poco?»
«Tu quanto pensi che possa costare scopare con me?»
Si è appoggiata al finestrino. Sembra nervosa ma nello stesso tempo stanca.
«Ma, non lo so.»
Mi ha preso in contropiede. Per me tre piotte le vale tutte.
Lé dico:
«Centocinquanta è la tua cifra.»
Ci pensa un po' su. Alza gli occhi al cielo e corruccia la fronte facendo dei calcoli mentali poi dice:
«Ci sto. Salgo?»
«E certo. Sali, sali.»
Monta.
Io ingrano e parto.
«Bella macchina!»
«Grazie. Dove andiamo?»
«Continua dritto.»
Andiamo avanti così per un po'. Il traffico è abbastanza scorrevole. La città si sta diradando, disperdendo. Fa spazio a una campagna miserabile e trascurata, ai grandi capannoni di industrie di cessi e di mattonelle e di infissi in alluminio.
«Posso cambiare la musica?» mi fa.
Stiamo ascoltando l'ultimo pezzo di Laura Pausini, quello di Sanremo.
Tira fuori da una tasca del giubbotto una cassetta.
La infila nell'autoradio.
Truce rock. Metallo pesante.
«Cos'è?»
«I Sepultura!»
«Belli rozzi, veramente.»
Le metto una mano tra le cosce, sembra non accorgersene. Non le apre.
Vedo ai lati dei bei piazzali sterrati dove potremmo parcheggiarci.
«Ci fermiamo?» chiedo dopo un po' stanco di continuare a guidare.
«Guarda, tra trecento metri c'è una strada che gira a de stra. Prendila.»
«Dove mi porti?»
«A casa mia.»
«A casa tua?!»
Cazzo che affare ho fatto. Credevo che lo avremmo fatto in macchina invece me la sbatterò sotto un tetto, su un letto.
Grande.
Giro a destra.
Proseguo su una stradaccia piena di buche e pozze fangose.
Mi sto sporcando la macchina e ho paura per le sospensioni.
Superiamo un paio di catapecchie, un campo da calcio abbandonato.
«Siamo quasi arrivati» mi fa guardando avanti, sempre con la sua gomma tra i denti.
Facciamo altri cinque, seicento metri attraverso un campone spoglio e parcheggiamo di fronte a una vecchia casa malridotta.
Due piani.
Tetto di mattoni.
Crepe.
Intonaco a vista.
Una lucina al piano superiore.
«Eccoci finalmente» mi fa e si riprende la cassetta.
Metto l'antifurto.
Prendo la radio.
Usciamo.
«Non è che mi rubano la macchina?» dico guardandomi in giro.
«Tranquillo.»
La seguo.
Ha proprio un gran bel culo.
Tira fuori le chiavi, apre il lucchetto che chiude la porta di ferro.
Entriamo dentro.
Accende una luce al neon secca e morta.
Salotto.
Televisione.
Divani e poltrone ancora incellofanate.
Un tavolo tondo. In mezzo un centrino di pizzo con sopra una pentola con dei fiori secchi.
Le pareti sono dipinte a calce.
Quadri a olio con pagliacci tristi.
«Spogliati!» mi fa.
«Fa un po' freddo!»
vado su ad accendere il riscaldamento.»
«Lo facciamo qui?»
«Sì, sul divano.»
«Okay.»
Sale delle scale che portano di sopra.
Non vedo termosifoni. .
Niente.
Nonostante il gelo sono eccitato.
Ho il cazzo che mi fa male.
Mi levo la giacca.
Mi levo le scarpe.
Rimango in mutande e camicia.
Non ritorna.
Poi eccola finalmente.
Continua a masticare la sua gomma americana.
Si toglie la giacca.
Si sfila la minigonna.
Mutandine.
Calze autoreggenti.
La trascino sul divano. •
Mi cade addosso.
La stringo.
Le alzo le braccia. •
Le tiro su la maglietta.
Le abbasso le mutande.
Lei fa fare.
''Ti piace ehh? Ne hai voglia?'' dico io tra me e non perché
lei mi dia questa impressione ma piuttosto perché mi eccita dire cose del genere.
Mi abbasso le mutande e mi prendo il cazzo enorme in mano. .
Lei sprofonda nella plastica del divano e io le sono sopra.
Mi guarda imbambolata.
Le cerco la fica.
Le infilo un paio di dita dentro.
«Aiaaaaaaaaaaaa» urlo.
Un dolore fortissimo e intenso a un orecchio. I
Fuoco.
Riapro gli occhi.
Qualcuno mi ha preso un orecchio e me lo sta strizzando come se fosse uno straccio bagnato.
«Che cosa stai facendo?» una voce aspra alle mie spalle. Vengo trascinato via dal divano nudo e sbattuto a terra. Il gelo delle mattonelle.
Provo a rialzarmi.
Un calcio mi solleva un labbro.
Sento il bordo della suola raschiarmi via pezzi di gengiva. Quello che mi sta prendendo a calci è tarchiato. I capelli bianchi. Il naso porcino. Gli occhi bovini. Il sorriso ferino da cui spuntano lapidi scassate simili a denti. Indossa una canottiera zozza. Dei pantaloni deformi e stracciati di flanella grigia. Sporchi di calce.
In mano ha un lungo coltello seghettato di quelli per il pane. Da dove è uscito?
Che cosa vuole da me?
«Che cosa stai facendo?» mi chiede.
«Chi... io?» rispondo tentando di rialzarmi.
Mi respinge a terra con una pedata.
«Tu!»
«Io?!»
«S ì , t u !»
«Pago. Pago.»
«Dài pa', lascialo, non gli fare male» dice la ragazza mentre si rinfila le mutande.
Mi guarda da lontano come una madonna pietosa. Ho paura.
Ho paura da morire e non posso fare a meno di non guardare quel fottuto coltellaccio che tiene in mano.
Ora mi sventrano come un pòrco. Papà e figlia insieme. Avvolgeranno i resti insanguinati della mia anatomia in queste fottutissime plastiche trasparenti che coprono le loro poltrone. Le hanno messe per non sporcare.
Fanno sempre così. Lo so.
Sto malissimo.
«Che volevi da mia figlia, merda?»
«Niente, lo giuro.»
«Come niente? Perché le stavi sopra come un animale?»
Non so che cazzo rispondere.
Mi metto a piangere.
Sento in bocca il sapore stucchevole del sangue e delle lacrime.
«Che ci volevi fare?»
Perché continua a farmi questa domanda?
È chiaro a tutti quello che ci volevo fare. Cazzo.
«Ehhh, merda, allora, vuoi rispondere?»
Mi tira un calcio nel costato. Urlo.
La ragazza sta seduta e continua tranquilla a masticare la sua stronza gomma americana.
«Allora?»
«... Ci volevo... ci volevo... ci volevo fare l'amore. Avrei pagato tutto, tutto quanto. Lo giuro.»
«Bene. Era proprio questo che volevo sentirti dire. Ora alzati.»
Mi tira su.
Mi fa sedere sul divano accanto a sua figlia che intanto ha tirato fuori da un cassetto un walkman e sta allungata con le cuffie in testa . Agita le ginocchia a tempo di musica.
«Fammi vedere.»
Il padre viene vicino a me, mi solleva il labbro e ci guarda dentro gentilmente.
«Non ti preoccupare. Guarirà.»
«Che vuoi da me? I soldi? La macchina?» frigno.
«Nooo, niente di tutto questo. Non mi interessano i tuoi beni. Voglio che continui a fare quello che stavi facendo con Priscilla. Voglio che ti accoppi. Voglio che fai del sesso. Ma non con Priscilla, con sua sorella Piera. Vedrai, ti piacerà» mi dice accomodante. Quasi gentile.
«Com'è Piera?» chiedo disperato.
«Niente male e ha tanta voglia, poverina. È arrivata l'ora di riprodursi. Vieni.» .
Mi prende di nuovo per l'orecchio che è bollente e gonfio e mi tira.
«Dove mi porti? Dove mi por ti?!»
Mi trascina in fondo al salotto, oltre la tavola da pranzo, oltre il mobile bar, davanti a una porta.
La apre.
Oltre la porta il buio.
Un mondo nero e senza luce.
«Dài, vai den tro, c'è Piera che ti aspetta.»
Mi butto a terra.
Scappo a quattro zampe.
Mi attacco al mobile bar chiedendo pietà. Un po' di umana pietà.
Mi piglia ancora a calci.
«Non essere sgarbato, stallone!» dice ridendo tra i denti marci.
Mi afferra per i capelli. Mi solleva da terra.
Mi fruIla in aria e mi spinge fino alla porta.
Inchiodo i piedi ma lui è più forte.
Mi oppongo ma non c'è niente da fare.
Mi lancia.
«Noooo. Noooo. Nooo. Nooo. Nooo. Nooooo» urlo volando nel buio.
La porta si chiude.
liiieeeeeeeee. Sclang.
Precipito in giù, più in giù.
Crollo pesante e maldestro sugli scalini di cemento.
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