Una grassa signora americana con una Nikon a tracolla camminava per i luridi vicoli di una cittadina indiana.
I capelli biondi raccolti in un’unica treccia, la pelle bianca arrossata da quel sole forestiero.
Grossi occhiali con una montatura massiccia di tartaruga e legno di sandalo coprivano gli occhi miopi.
Era vestita con semplicità. Una maglietta azzurra e pantaloncini coloniali color panna. Ai piedi, sandali con la suola di sughero.
Aveva abbandonato il gruppo con cui era partita da Seattle per continuare a curiosare indisturbata nei vicoli di quella cittadina indiana.
Gli altri, stanchi del caldo e della bolgia, se n’erano tornati in albergo, a fare il bagno in piscina, a immergere i piedi gonfi nell’acqua tiepida.
Lei non capiva il loro atteggiamento di superiorità nei confronti degli indiani e il loro continuo fastidio per la povertà e la mancanza di igiene di quel Paese. Non riuscivano a vedere oltre la punta del loro naso. Quello, almeno secondo lei e altri luminari che si erano occupati del problema, era un sistema regolato perfettamente da secoli e aveva prodotto una tra le più complesse e affascinanti culture di tutto il pianeta.
Era stato terribilmente imbarazzante passare quei giorni con le sue amiche che non si erano avvicinate a un piatto locale, che non toccavano con le mani nemmeno i bambini per paura di chissà quali malattie mortali. Avevano finalmente mostrato il loro vero volto e questo l’aveva ferita. Razziste, questa era la parola. Era terribile vedere queste persone storcere il naso: tutto faceva loro schifo. O Dio che orrore! O Dio che impressione!