Mi ricordo bene.
La birreria si chiamava "Il becco giallo".
Era piccola, affollata e cercava di assomigliare a un pub inglese con quei muri rivestiti di legno e i boccali appesi sopra il bancone.
Sedevo a un tavolo con professori, assistenti e ricercatori dell'università di Bologna. Non li conoscevo bene.
Avevo tenuto, quella mattina, alla facoltà di scienze biologiche di Bologna un convegno sulle dinamiche onnonali durante la metamorfosi degli anfibi urodeli.
Un successo.
Dopo il congresso essendo solo e con l'unica possibilità di ritornarmene in albergo, nella mia squallida cameretta, i colleghi mi avevano invitato ad andare con loro, a bere.
Accettai.
Bevemmo molta birra e finimmo a parlare di università, di concorsi per ricercatori e di dottorati. L'atmosfera calda e fumosa di quel posto induceva alle chiacchiere, ai pettegolezzi accademici.
La solita zuppa.
Metti insieme più di due colleghi, non importa quali, geometri, bancari o calciatori, finiranno sempre a parlare di lavoro.
Sedeva accanto a me il vecchio e stimato professor Tauri, ordinario della cattedra di biochimica. Un omino grasso e con un nasone a patata e due belle guance rosse rosse che veniva voglia di pizzicargliele.
Era insoddisfatto. Sbuffava. A un tratto, afferrò il boccale di birra e lo sbatté sul tavolo più volte come fosse un giudice che picchia il martello per chiedere il silenzio.
«Per favore! Non possiamo parlare tutti insieme. Voglio parlare io! Se no me ne vado» ci intimò con la sua aria da tricheco prepotente.
«Parli, parli pure, professore» dissi io.
Lui si guardò in giro, a controllare che la sua platea fosse attenta, poi allungò il collo da tapiro e disse soddisfatto: