Salve a tutti. Ho quarantasei anni e
non mi posso lamentare. Faccio il redattore in una rivista femminile, guadagno
abbastanza bene da mantenere la mia famiglia, ho una moglie a cui voglio bene,
due figli adolescenti che non mi danno troppi problemi e, piano piano, sto
finendo di pagare il mutuo della casa, un appartamentino di tre locali più
servizi in un quartiere relativamente tranquillo di Milano.
Non mi posso
lamentare, dicevo. Be', non è del tutto vero, in realtà: ultimamente, mi capita
sempre più spesso di fare fatica a dormire. Il motivo ve lo spiegherò tra poco.
Per questo (e su consiglio del mio medico di famiglia, a cui sono molto
affezionato e di cui mi fido moltissimo), ho deciso di raccontare per iscritto
la storia di Debora la
Palla. Forse , se lo faccio, i ricordi smetteranno di
tormentarmi.
E stato tanto tempo
fa (eravamo alla fine degli anni Cinquanta), ma mi sembra che non sia passato
nemmeno un giorno: sempre più spesso, negli ultimi tempi, quando sono sul punto
di addormentarmi ecco che mi balza davanti agli occhi quel suo faccione da luna
piena, quei suoi capelli unticci, quegli occhi bovini che sembravano quasi
scomparire nella faccia bianco-latte butterata da concentrazioni rossastre di
acne, sfoghi e pustolette. F di lei che sto parlando, ovviamente: Debora la Palla. Cerco sempre
di scacciarla, mi divincolo tra le lenzuola per liberarmi della sua presenza,
lotto sull'orlo del sonno per togliermela dalla testa: a volte ci riesco, e mi
metto a dormire. A volte, però, sento il rumore, quel rumore. E allora non
dormo più.
La mamma le apre la
porta, e Debora non ha il coraggio di guardarla in faccia. Se ne sta li con gli
occhi bassi a fissare la vestaglia lisa, stretta in vita da una cintura di
stoffa macchiata dall'uso. Il solito odore di zuppa di cipolle permea la casa,
e Debora vi si rifugia quasi con impazienza, sperando che il familiare conforto
dell'abitudine attenui il bruciore dei graffi e il dolore della vergogna che le
infiamma le gengive.
La mamma le mette una
mano sotto il mento e le solleva la testa, costringendola a guardarla negli
occhi.
- Che cosa è successo
?
Debora tira su col
naso. Ha la faccia sporca, e le due righe più pulite che le solcano le guance
sono la prova inconfutabile del fatto che ha appena pianto. - Niente, - dice in
un bisbiglio. Poi, deglutendo come per raccogliere un po' di coraggio, aggiunge
a mezza voce:
- Mi hanno presa in
giro.
Avevo nove o dieci
anni, forse anche undici, e con la mia famiglia abitavamo in un quartiere
popolare a Cologno Monzese (per chi non lo sapesse, Cologno era, ed è tuttora,
un sobborgo-dormitorio alle porte di Milano) . I nostri palazzi li chiamavano
gli alveari per via della regolarità geometrica e monotona delle finestre, che
erano tantissime ma tutte troppo piccole. All'interno dei casermoni, però, non
si respirava odore di miele, tutt'altro: il fetore acre che ammorbava le scale
si imponeva non meno di quanto non facessero lo strato di sporco che rivestiva
i muri e le chiazze di umidità che regnavano incontrastate sull'intonaco
scrostato dei pianerottoli (le conoscevo bene, quelle chiazze di muffa
verdognola, perché li sopra i pastelli ci scrivevano male, e le parolacce
sbiadivano subito). A volte, quando i capifamiglia (quasi tutti operai come mio
padre) riuscivano a trovare da lavorare per qualche settimana, si poteva anche
avvertire da dietro le porte l'odore grasso e penetrante della carne bollita,
ma devo dire che non capitava molto spesso. Per farla breve, eravamo i «poveri»
della società di allora.
Negli alveari
abitavano famiglie di immigrati meridionali venuti al nord con la speranza di
trovare qualcosa che nella loro terra d'origine non potevano trovare. Proprio
come gli immigrati adesso... e, se devo essere sincero, mi fa un po' specie
quando sento qualche terun come mio padre che borbotta cose tipo: - Ah, 'sti
africani qui, che se ne tornino a casa loro -, Possibile che si siano già
dimenticati, mi chiedo, di tutte le sciure marie e i sciur giuàn che dicevano
le stesse cose di noi poco più di una generazione fa ? Possibile ?
D'accordo, d'accordo,
mi rendo conto che sto divagando. Prometto che non lo farò più, è che a
volte... oh, be', lasciamo perdere.
Stavo dicendo ? Ah,
si... la maggior parte dei capifamiglia, quindi, era senza lavoro e per vivere
si arrangiava a fare altro, riscuotendo mensilmente il sussidio di
disoccupazione. E, proprio come gli immigrati di adesso (scusate se insisto),
quelli che non riuscivano a lavorare in nero finivano immancabilmente per farsi
assumere dall'azienda più prospera e rigogliosa che si potesse trovare in posti
come quello: la piccola criminalità organizzata. Tanti amici di mio padre (e
poi si, una volta è toccata anche a lui) sono andati a San Vitùr a ciapaa i
bott, come dice quella vecchia canzone... anche se sicuramente per motivi meno
nobili della lotta partigiana.
Gli alveari erano
stretti l'uno accanto all'altro a gruppi di quattro, ognuno di eguale altezza e
squallore. Tra i balconi erano tirati fili da bucato su cui la biancheria,
perennemente stesa ad asciugare, creava una specie di ponte fatto di mutande e
di lenzuola che collegava tra loro gli appartamenti. All'interno di ogni gruppo
di case c'era un cortile, soffocato dai palazzi che gli toglievano aria e
luce... tutti tranne uno, uno solo, in cui il sole entrava di sbieco per poche
ore al giorno. Ciò, ovviamente, lo rendeva il cortile più ambito da tutti i
bambini degli alveari. Per il privilegio di poterci giocare, pensate un po',
facevamo delle vere e proprie guerre a sassate con i ragazzini degli altri casermoni.
La piccola cicatrice che mi interrompe il sopracciglio sinistro è il risultato
di una di quelle battaglie furibonde.
Quel giorno, il
giorno della mia storia, ci eravamo riusciti. Erano le sei del pomeriggio: il
sole e l'ombra si dividevano l'angusto riquadro di cemento in parti uguali,
tagliandolo in diagonale. Eravamo a metà luglio... anzi, forse anche più in là,
perché ricordo il caldo terribile e l'umidità soffocante che ci avvolgevano
come una seconda pelle. Era cosi, d'estate: la polvere (quella polvere delle
strade sterrate e disseminate di ghiaia che poi sono state tutte asfaltate con
il boom automobilistico degli anni Sessanta) ti si appiccicava addosso,
mescolandosi al sudore, e non ti mollava più. Non che per noi avesse la minima
importanza, comunque: l'unica cosa che ci interessava era giocare, giocare,
giocare. Tutt'al più prendevamo qualche scapaccione supplementare dalle mamme
quando tornavamo a casa troppo sporchi la sera per cena, ma intanto ci eravamo
divertiti, e questo era già più che sufficiente.
Quel pomeriggio,
dicevo, c'eravamo tutti, anche perché nessuna famiglia del nostro alveare era
abbastanza ricca da potersi permettere di tornare al sud per l'estate. Eravamo
circa una dozzina, riuniti intorno alla campana tracciata con il gesso bianco
sul selciato. Stavamo giocando da circa tre ore, e la partita era giunta a uno
stallo. - Una partita giocando a campana? -si chiederanno quelli di voi che
ricordano il gioco. Be', una spiegazione c'è: non era proprio la classica campana
che tutti conoscevano. Era un gioco inventato da noi, una versione modificata
che prevedeva l'obbligo di dividersi in due squadre e la possibilità di vincere
o perdere, accontentando cosi lo spirito di competitività di noi maschi:
soltanto a quel prezzo, infatti, potevamo acconsentire a che oartecioassero
anche le bambine. A parte il nascondino, era l'unico gioco che facevamo tutti
insieme, maschi e femmine: gli altri (biglie e tollini per simulare il Giro
d'Italia tracciato sul cemento sfregandoci sopra pezzettini di catrame come
rudimentali gessetti, il pallone con cui disputavamo partite interminabili e
polverose usando le colonnine dell'Enel come pali delle porte) erano di nostra
esclusiva pertinenza. Qualsiasi cosa facessero le bambine quando giocavano da
sole, be', non era affar nostro e non ci interessava.
Quel giorno c'erano
Carmine e Franco, i capi del gruppo, chinati in osservazione. Franco aveva
dodici anni e faceva già qualche lavoretto poco pulito per i fratelli più
grandi, Carmine era stato bocciato per la seconda volta all'esame di quinta
elementare: queste loro caratteristiche, unite al fatto che entrambi ogni tanto
si nascondevano nelle cantine a fumare le Nazionali del padre di Franco e a
leggere fumetti sconci tenendo lontani tutti gli altri, bastavano a far si che,
tra i bambini del nostro alveare, la loro parola fosse legge. Erano loro due
che, nei rari periodi di tregua, si riunivano con i capi degli altri cortili
per stabilire i turni di gioco nel Cortile del Sole.
Ah ! Vedete quanti
particolari ritornano alla mente quando ci si sofferma con attenzione sui
propri ricordi? Cortile del Sole... mi sembra quasi incredibile, ora che ci
ripenso, che si possa battezzare in modo tanto poetico e glorioso quello sputo
di cemento sudicio chiuso tra quattro palazzoni. Eppure era proprio cosi che lo
chiamavamo: il Cortile del Sole.
Scusate... sento come
una cosa qui, all'altezza del petto, che si gonfia e mi solletica la gola, che
mi punge le narici e gli angoli degli occhi. É quella che chiamano nostalgia,
suppongo. Maledizione, sarebbe cosi bello ricordare, lasciarsi prendere dallo
struggimento per qualcosa che allora c'era e adesso non c'è più... sarebbe cosi
dolce chiudere gli occhi e farsi cullare dal rimpianto di quelle sensazioni. Sarebbe
meraviglioso... se nnt nnn arrivasse il rumore.
Quel rumore: sordo,
molle, umido. Definitivo.
La mamma si ravvia i
capelli nerissimi e fini che le spiovono spettinati sul viso e la stringe
dolcemente a sé. - Non te la devi prendere, Beba.
Debora si divincola
dall'abbraccio della madre. - Sono tutti deficienti ! - dice con la voce venata
da un tono di ripicca infantile. - Mi hanno detto che sono una... una... -
balbetta, cercando di trattenere le lacrime, poi termina d'un fiato, offesa: -
Una cacciapal-le!
La mamma scuote la
testa. - Beba, che cosa hai raccontato? Non avrai mica tirato fuori un'altra
volta la storia dell'uomo che vola, vero ?
Debora abbassa gli
occhi, colpevole. Sente la mano rapida e nervosa della mamma che le sfiora i
capelli con dolcezza. In un primo momento tenta di ritrarsi, ma poi si arrende
e si lascia consolare.
- Beba... ascoltami,
piccola, devi smetterla con queste fantasie. Lo sai, vero, che gli uomini non
volano? Lo sai che non può esistere un uomo che vola, vero Beba?
Debora tiene gli
occhi bassi e non dice nulla.
- Rispondimi, Beba.
Lo sai, vero ?
Invece di rispondere,
lei guarda i piedi della mamma, chiusi nelle ciabatte che le ha sempre visto
indosso, quelle blu di spugna, spelacchiate e fruscianti, che Debora saprebbe
riconoscere a occhi chiusi in qualsiasi luogo del mondo. Vorrebbe andarsene,
scappare in bagno a togliersi quel saporaccio dalla bocca, ma non può.
- Beba ? - insiste
sua madre, questa volta con un tono che non ammette repliche.
Con riluttanza,
Debora annuisce, mentre il rossore della sconfitta le sale alle guance. - Si,
lo so.
- Bene, - dice la
donna dandole un'ultima carezza. - Ora vieni e aiutami con la zuppa, che tra
poco arriva papà.
Debora alza gli occhi
verso di lei.
- Prima però vai a
lavarti le mani e la faccia.
Lei obbedisce,
cercando di non tradire la fretta con cui vorrebbe precipitarsi verso il
lavandino. Sua madre le volta le spalle e si mette ad armeggiare intorno alla
piccola cucina a gas. Debora oltrepassa la porta del bagno con il vetro
smerigliato e pensa a quante volte l'ha vista cosi, in vestaglia, curva sui
fornelli, con il vapore che si insinua tra i capellinerissimi che le spiovono
dritti e umidi sulla fronte. E un'immagine profondamente radicata in lei, il
corrispondente visivo del suono delle ciabatte blu che accompagna i passi di
sua madre in giro per casa. La trova cosi quando torna a casa da scuola, la
trova cosi al ritorno dai suoi giochi pomeridiani con i ragazzi del cortile. L'ha
sempre trovata cosi: in attesa di PAPÀ, un essere tonante e terribile che al
tempo stesso completa e disturba la loro vita di madre e figlia.
Papà.
Si sfrega la bocca
con forza, desiderando quasi farsi male. Sfrega e sfrega ancora, strofina fino
a quando non si rende conto che la mamma può insospettirsi perché è passato
troppo tempo. Mentre si insapona la faccia, stando bene attenta a non farsi
entrare la schiuma negli occhi, sente un nodo che le stringe la bocca dello
stomaco, una sorta di angoscia senza nome che prova ogni volta che suo padre
sta per arrivare. Non sapendo se attendere o temere quel momento, Debora si
ritrova sempre in bilico tra le due emozioni contrastanti, quasi che le due
sillabe uguali dell'appellativo papà siano il bene e il male, la sicurezza e la
paura, la protezione e il terrore, concetti di significato diametralmente
opposto ma al tempo stesso fusi inscindibilmente in un'unica, terrificante
parola.
Con un sospiro,
Debora si risciacqua e si asciuga. Poi esce dal bagno e va in cucina ad aiutare
la mamma.
Stavo dicendo: quel
pomeriggio di un'estate verso la fine degli anni Cinquanta, tre o forse quattro
ore pri ma del Rumore, Edoardo, il fratello minore di Franco, saltellava
intorno ai due capibanda facendo ondeggiare la zazzera rossa. - E sul sei! E
sul sei! - gridava felice.
- E statti zitto, che
cazzo! - lo rimproverò Franco prendendolo per un braccio.
- Anche a me sembra
sul sei, - disse poi a Carmine abbassando la voce.
Eravamo tutti li
intorno, in trepidante attesa della decisione che avrebbe condizionato il corso
della partita. Nonostante sia Franco che Carmine facessero parte della stessa
squadra, nessuno di noi si poneva il problema di un eventuale conflitto di
interessi: la parola dei capi, come ho già detto, era al di sopra di qualsiasi
possibile contestazione.
In un silenzio carico
di aspettativa, Carmine fece un palloncino con la gomma da masticare, studiando
il sassolino nero posato sulla linea di gesso. Ci pensò su ancora per un po',
poi lo prese in mano e lo depositò solennemente sul numero sei.
- Urrà! L'avevo detto
io! E sul sei, è sul sei! - riprese Edoardo, saltellando eccitato. Io e gli
altri bambini corremmo intorno alla campana, pronti a ricominciare.
- Tocca a me, - disse
una voce inespressiva. Ci voltammo tutti verso di lei.
Alla luce di ciò che
accadde dopo, quel momento (che di per sé non avrebbe avuto assolutamente nulla
di particolare), acquistò nella mia mente una rilevanza enorme. Per giorni e
settimane e mesi, dopo quel pomeriggio, ogni volta che chiudevo gli occhi me la
rivedevo di fronte come l'avevo vista in quel preciso istante, con un lecca-lecca
in una mano e l'altra abbandonata mollemente lungo il fianco spropositato. Un
po' di succo le era rimasto impiastricciato sulle labbra, conferendo alla sua
grossa bocca una patina zuccherosa di rossetto che risultava semplicemente
oscena nella sua tranquilla lascivia (oddio, forse queste sono caratteristiche
che le ho attribuito in seguito, nel corso dei continui e tormentosi processi
di rimemorazione: dubito fortemente che, nell'ingenuità dei miei undici anni,
potessi anche solo immaginare una roba grossa come la lascivia in uno sbaffo di
sciroppo). L'espressione del suo viso era imbronciata, come sempre o quasi. I
capelli, lunghi e con la riga in mezzo, le pendevano un po' unti ai lati della
faccia, rotonda e bianca come la luna, che le era costata uno dei soprannomi di
cui vi parlerò tra poco. Le guance e la fronte erano punteggiate di
fo-runcoletti rossi; il collo, pieghettato e lucido di sudore, scompariva in un
vestito a quadri. Debora portava sempre vestiti a quadri; non ricordo di averla
mai vista con indosso qualcosa di diverso.
I bambini degli
alveari (con il sottoscritto, devo ammetterlo, in prima linea) la chiamavano in
vari modi: i più ricorrenti erano Faccia di Luna Piena, Mongolfiera,
Cicciabomba... ma, ovviamente, il più usato era quello che lei detestava più di
ogni altro: Debora la Palla.
Sí, perché Debora,
questo era il suo grande difetto e la sua grande croce, era grassa... anzi,
forse sarebbe meglio dire che era colossale. Non posso affermarlo con certezza
ma, ripensandoci ora, direi che, nonostante non fosse più alta delle altre
bambine della sua età, si avvicinava tranquillamente ai cento chili. I suoi
vestiti erano enormi, immensi tagli di stoffa a quadrettoni rossi e bianchi che
le svolazzavano intorno come le vele delle navi dei pirati (tra noi, con la
maligna ferocia tipica dei bambini, correva voce che per vestirla sua madre
avesse adoperato le tovaglie dell'osteria dove l'anno prima, quando il marito
era in galera, aveva fatto la sguattera). Debora aveva nove anni ed era una
classe indietro... perché era stata malata. A noi erano sufficienti quelle tre
parole che, sussurrate a mezza voce e cariche di significati inquietanti,
saltavano fuori ogni volta che lei era da qualche altra parte. E stata malata,
punto e basta. Qualcuno (nessuno ricordava chi, come è di prammatica che
nessuno ricordi l'origine di ogni pettegolezzo che si rispetti) l'aveva sentito
dire da uno dei grandi, forse da una mamma che parlava con la panettiera, e
l'aveva immediatamente riferito al resto del gruppo. Da quel momento, ogni
altra spiegazione era diventata superflua. E stata malata: non ci serviva
altro.
Ci scostammo per
lasciarla passare.
Debora raggiunse la
prima fila e indicò il sassolino sul cemento. - Tocca a me, adesso, - ribadi in
tono ostinato.
Carmine, dall'alto
dei suoi undici anni, si soffiò via il ciuffo di capelli neri dalla fronte. Era
bello, Carmine. Carnagione scura, occhi e capelli come il carbone. Si diceva
che avesse già portato pili di una compagna di classe tra i cespugli del campo
spelacchiato (area edificabilc, la chiamerebbero adesso) che si estendeva dietro
i casermoni. - Sei sicura, Palla ?
Debora fece un passo
avanti, minacciosa. - Ti ho detto di non chiamarmi più cosi, Carmine! Te l'ho
detto.
Scoppiammo a ridere.
Carmine si limitò a scuotere la testa con aria di superiorità, le labbra
incurvate in un mezzo sorriso. - Non tocca a te.
- Non è vero! Toccava
a me, prima che...
- Non tocca a te, -
disse Antonio, che fino a quel momento se ne era rimasto in disparte con le
braccia conserte, succhiando pensosamente un ramoscello raccattato chissà dove.
Tonio il Rosso, lo chiamavamo, perché suo padre era un comunista di quelli
convinti; era arrivato negli alveari l'anno prima, e stava ancora sgomitando
per guadagnare posizioni nella scala gerarchica del gruppo. - Non tocca a te, -
ripetè con voce seria.
Debora protestò
ancora. Per farla breve, in meno di un minuto non c'era un solo bambino che non
urlasse a squarciagola nel tentativo di dire la sua.
- Ehi, calma! Fermi!
- disse Franco. - Facciamo la conta.
- Non è giusto, -
replicò Debora. - Io...
- Ha ragione,
facciamo la conta!
- Si, la conta, la
conta!
Carmine guardò Debora
e si strinse nelle spalle.
- Visto ? Avanti,
mettetevi in cerchio !
Quando tutti gli
furono intorno, Carmine chiuse le mani a pugno e cominciò a mulinarle davanti a
sé. - Ditemi basta.
Passò qualche
secondo, poi Edoardo disse: - Stop!
- Scemo! - lo beccò
Debora. - Non vale dire stop, bisogna dire basta... Basta! - aggiunse poi.
Carmine si fermò e
cominciò a contare. - Ventotto, ventinove, trenta... trentuno! - terminò,
battendo sulla spalla di Debora. - Hai visto ? Sei contenta ? Sei venuta fuori
tu.
- Si, ma toccava lo
stesso a me, - ribadi lei caparbiamente, portandosi di fronte alla campana. Si
chinò, mettendosi in bocca il lecca-lecca, e rimase ferma per un lungo istante
di concentrazione preliminare.
Ecco, questo è un
altro di quegli istanti che mi sono rimasti impressi nella memoria come una
fotografia: il culone immenso di Debora la Palla che nasconde alla vista il tracciato della
campana, l'orlo liso del vestitone a quadri da cui spuntano gli enormi polpacci
graffiati e impolverati, le calze di cotone traforato segate in due dall'ultima
lama di sole concessa al pomeriggio dalle sagome immense dei casermoni... e poi
il caldo soffocante, il silenzio improvviso, l'atmosfera carica di tensione che
era calata sul gruppo, quasi avessimo intuito, inconsciamente, di trovarci di
fronte non a un banale gioco di cortile, bensì a qualcosa che avrebbe segnato
profondamente le nostre vite future.
- Vedi di non
sbagliare, - le disse Edoardo con un filo di voce, - altrimenti abbiamo perso.
Debora non rispose.
Socchiuse gli occhi, inghiottì una boccata d'aria che le gonfiò ulteriormente
il torace immenso... e parti.
Sono io a chiudere
gli occhi, ora, mentre scrivo, e quella che mi scorre sulle palpebre non è una
fotografia, ma una serie di immagini scollegate tra loro e, al tempo stesso,
coerenti come un filmato. Vedo le facce intente dei miei amici d'infanzia, vedo
i loro occhi che si strizzano inconsapevolmente, le bocche ruminanti gomma da
masticare che si immobilizzano... e poi vedo lei, Debora la Palla , che si muove con la
grazia e la leggerezza di un elefante zoppo.
A piedi pari sull'i e
sul 2, in bilico sul piede sinistro nella casella del 3, poi di nuovo a piedi
paralleli sul 4 e sul 5 e, finalmente, con il piede destro sul 6.
Quello era il momento
più difficile. Edoardo urlò per incitarla e Debora si preparò al salto all'indietro.
Si mosse, ma poi ebbe un attimo di esitazione.
E, come era ovvio,
perse l'equilibrio.
- E ora di andare a
letto, Beba, - le dice la mamma con un sorriso triste. - Su, preparati, che poi
vieni a darmi il bacio della buonanotte.
Lei guarda la zuppa
fredda nel piatto della madre e rimane indecisa per un istante. Poi, con voce
seria, chiede: - Dov'è papà?
La mamma si stringe
nelle spalle. - Ha fatto tardi. Su, adesso vai a letto, da brava.
Debora solleva lo
sguardo. Vorrebbe dire qualcosa, ma poi, quando vede la patina umida che vela
gli occhi di sua madre, si alza da tavola e se ne va in silenzio.
Nessuno di noi se ne
stupf, in realtà: semplicemente, Debora la Palla era troppo grossa per poter restare a lungo
in equilibrio su un piede solo.
Annaspò nell'aria per
non cadere e si contorse goffamente. Quando capi che non ce l'avrebbe mai
fatta, provò ugualmente a saltare. Atterrò sul culo con un tonfo secco di
stoffa troppo larga, un suono simile allo schiocco di un lenzuolo al vento. Allargò
la bocca. Il lecca-lecca le volò dalle labbra aperte e cadde sul cemento.
Ci fu un attimo di
silenzio, poi Tonio il Rosso cominciò a ridere. Fu come un segnale: nel giro di
pochi secondi, ridevamo tutti a crepapelle. Non vorrei fare l'errore di
attribuire alla cosa un significato che allora non aveva, eppure più ci ripenso
e più mi convinco che
il suono delle nostre
risate era in qualche modo fasullo, più simile al soffio di vapore che
fuoriesce dalla valvola di sfogo di una pentola a pressione che alla manifestazione
spontanea di un divertimento, forse un po' sadico, ma quantomeno comprensibile.
Debora rimase seduta
per terra, con la bocca spalancata in un'espressione di stupore assolutamente e
definitivamente comica. In quel momento, mentre gli altri sghignazzavano senza
ritegno, sentii la risata che mi si spegneva lentamente nella gola,
afflosciandosi su se stessa come quando (sarà capitato a molti di voi) le pile
dei mangiadischi finivano a metà di una canzone. Nello sguardo bovino di Debora
vidi comparire qualcosa di sconosciuto, un'emozione tanto nuova per quei
lineamenti da sembrarmi del tutto incongruente: collera. Una collera feroce e
minacciosa, ribollente come un vulcano. - Siete degli animali! - gridò. -
Andate tutti affanculo, brutti stronzi mongopatici deficienti!
Ormai, però, il
gruppo era lanciato. - Su, Ciccia-bomba, non te la prendere, - disse qualcuno.
- Pensa un po' se rimbalzavi!
Le risate la
sommersero. Debora si alzò goffamente in piedi, impedita dal volume del proprio
corpo a fare ciò che, ne sono assolutamente certo, in quel momento avrebbe
desiderato fare più di ogni altra cosa al mondo: scattare come una furia e
saltarci addosso, picchiarci tutti fino a farci sanguinare, calpestarci uno dopo
l'altro fino a ridurci in poltiglia. - Non me ne faccio niente di voi...
niente! - gridò quando fu di nuovo in posizione eretta. Spazzò via con un
calcio il lecca-lecca, mandandolo a frantumarsi contro il muro del palazzo più
vicino. - Non me ne faccio niente di voi! Io ho chi mi vuole !
Carmine le si
avvicinò, sorridendo e allargando le braccia in segno di pace. Forse aveva
capito anche lui che quella volta c'era qualcosa di diverso... o, forse, la sua
era soltanto una manovra diversiva per poi colpire più ferocemente la vittima
indifesa. In effetti, dai ricordi che ho di lui, direi che quest'ultima è di
gran lun ga l'ipotesi più probabile. - Su, Debora, - la esortò divertito, - non
fare tutta 'sta camurria.
- Togliti di mezzo,
deficiente ! - gli urlò Debora, spingendolo con forza tale da mandarlo a gambe
all'aria.
Le risate cessarono
all'istante.
Tutti, nessuno
escluso, ci sentimmo gelare il sangue nelle vene, e il motivo era semplice:
Debora la Palla
aveva appena buttato a terra il Capo... non so se mi spiego.
- Vi odio! Tutti
quanti! Compresa te, Betta, - disse Debora, fissando con odio la bambina con i
capelli lunghi che se ne stava seminascosta vicino a Tonio il Rosso. La Betta era l'unica che,
qualche volta, giocava con lei anche quando non era strettamente necessario. -
Tu che fai finta di essere mia amica ! Ti odio ! Te più di tutti gli altri!
Carmine si rialzò da
terra, spolverandosi i calzoni in tutta fretta. Era ferito nell'orgoglio: un
capo non poteva lasciar passare certe cose. Si avvicinò a Debora e la guardò
negli occhi. Nessuno di noi osava fiatare.
Se devo essere
sincero, mi aspettavo che Carmine la picchiasse. Invece si limitò a guardarla,
e Debora ricambiò lo sguardo: rimasero cosi per un istante eterno,
fronteggiandosi immobili in uno scontro di volontà ferite. - Questa me la
paghi, - disse infine lui a mezza voce. - Sta' sicura che me la paghi -. Poi si
voltò e tornò verso di noi.
- Non me ne faccio
niente di voi, - ripetè Debora, ma ormai il suo momento era passato. Anche lei
doveva essersene resa conto, perché si incamminò verso il portone del suo
palazzo lentamente, a testa bassa, senza più nemmeno tentare di guardarci in
faccia.
Quando fu a una
decina di metri di distanza, però, le arrivò un'altra stoccata. - Guardate, -
disse la Betta con
una vocina resa stridula dalla perfidia, - ha il culo cosi grosso che ci sono
rimasti stampati i numeri della campana!
Era vero. Purtroppo
per lei, era proprio cosi: sui quadrettoni bianchi e rossi del suo immenso
vestito spiccavano un 3 e un 4 rovesciati. E io, mi vergogno a dirlo, oltre a
unirmi alle risate fragorose degli altri, provai anche una soddisfazione
selvaggia e primordiale nel vederla cosi assolutamente, definitivamente
sconfitta; un pugno di sadico piacere mi serrava la bocca dello stomaco,
spingendomi a gridarle cattiverie sempre più feroci e a ridere, ridere, ridere
con quanto fiato avevo in gola.
Maria sparecchia la
tavola, portando via i piatti senza che il marito stacchi gli occhi una sola
volta dalla «Gazzetta dello Sport» che tiene spiegata davanti a sé. Quando gli
passa davanti per togliergli il piatto, urta il giornale e lui, senza nemmeno
guardarla, impreca: - E stai attenta, che cazzo !
Ha capito subito, non
appena lui è entrato in casa poco più di un'ora prima, che quella sarà una
serata da dimenticare. L'ha capito dall'assenza di luce nello sguardo
aggrottato sotto le sopracciglia nere e cespugliose, dalla barba non rasata,
dall'alito puzzolente di alcol che le ha già spiegato a sufficienza dove sia
stato durante quell'ora e mezza in cui lei e Debora l'hanno atteso in silenzio,
guardando di sottecchi la zuppa di cipolle che si raffreddava nei piatti.
Ha fatto mangiare
Beba nonostante l'assenza del padre e l'ha mandata subito a letto. Non le
importa che lui a tavola esiga la famiglia al completo: oggi ha deciso di
rischiare, e non vuole che la bambina sia presente quando ciò che deve iniziare
finalmente inizierà.
Lui, invece, non ha
detto niente: si è seduto a mangiare e si è perso nella lettura del giornale. Senza
un suono, senza un saluto. Niente. Una qualsiasi altra volta, Maria ne sarebbe
stata persino sollevata, ma non oggi... non dopo aver visto l'ago della
bilancia portarsi tra il 90 e il 95 quando ci ha fatto salire Beba poco prima
di cena.
La bambina ha bisogno
di essere visitata, e ne ha bisogno subito. E privatamente, perché con la mutua
c'è da aspettare almeno due mesi... ma per una visita privata ci vogliono
soldi, e tutto il denaro in pivi che gira per casa (poco, per la verità) lui se
lo va a bere da qualche parte o lo spende con qualche puttana.
No. Oggi no. Oggi
deve parlargliene.
Cosi affronta il
marito, partendo da lontano. - Dove sei stato per arrivare cosi tardi ? - gli
chiede, adoperando il tono più neutro e colloquiale che le riesce di trovare.
Lui sposta lo sguardo
direttamente dal giornale a lei, fissandola con aria stupita. - Che cosa hai
detto ?
- Ti ho chiesto dove
sei stato, - ripete Maria, cercando di assumere un tono più deciso.
Non funziona molto
bene: lui continua a guardarla con stupore crescente. - E da quando ti sei
messa a ficcare il naso nei cazzi miei ?
Nonostante Maria non
si aspettasse certo una risposta gentile, la violenza insita nel tono di voce
del marito la fa sussultare. In lei compare immediatamente quello che ormai è un
riflesso condizionato all'ira di lui: la paura. Le sue mani si ricoprono di una
patina di sudore gelido, il cuore le balza in petto, le sue pulsazioni
accelerano.
- Vincenzo, -
riprende sforzandosi di nascondere il tremito che le vibra nella voce, - Beba
ha bisogno di una visita specialistica... non può più andare avanti cosi. Pesa
novantacinque chili. Non possiamo aspettare la mutua.
Lui non dà mostra di
averla ascoltata. - Non hai risposto alla mia domanda, donna. Da quando ti
vieni a fare i cazzi miei ?
Prima che Maria possa
rendersi conto di ciò che sta facendo, la sua bocca si è già aperta e le parole
sono già uscite: impossibile riportarle indietro. - Da quando Beba ha ripreso a
ingrassare e tu spendi tutti i soldi che abbiamo per andare a ubriacarti con
quei delinquenti deivtuoi amici !
E terrorizzata da ciò
che ha appena detto, si, ma al tempo stesso ha la sensazione di essersi
finalmente liberata da un macigno che le pesa sulle spalle da tanto, troppo
tempo. La leggerezza e il senso di sollievo che la pervadono sono tali da
impedirle di registrare la patina di ghiaccio che scende sullo sguardo del
marito, la furia ottusa che nuota sotto quel sottile strato di freddezza.
Con gesti rabbiosi,
Debora si affrettò a togliersi di dosso la polvere di gesso, ma ormai si era
rovinata l'uscita: avevamo ricominciato a ridere tutti, e a quel punto niente e
nessuno avrebbe potuto fermarci.
- Non mi vedrete più
qui ! Mai più ! Non tornerò mai più da voi ! Non me ne faccio niente di voi !
Io ho chi mi vuole! Me ne andrò via con l'uomo che vola, avete capito ? Non me
ne faccio niente di voi deficienti!
Non credevamo alle
nostre orecchie. - Chi è che ti porterà via? L'uomo che vola? Oddio... - Le
risate divennero assordanti. C'era addirittura qualcuno (non ricordo chi, forse
il piccolo Edoardo) che si rotolava per terra tenendosi la pancia... o forse
esagero, ma comunque non è questo il punto: il fatto è che non era la prima
volta che Debora la Palla
tirava fuori quella storia. Niente di male, per carità: tutti i bambini, si sa,
hanno una fantasia preferita e ricorrente, qualcosa a cui si affidano nei
momenti di sconforto o in quelli di gioia e che custodiscono come il più
prezioso dei segreti. Debora, però, nella sua ottusa ingenuità, era stata tanto
stupida da lasciarselo sfuggire e questo, in un gruppo dalla struttura
gerarchica come il nostro, basato sulla durezza e sulla virilità dei due capi,
era un errore che, semplicemente, non poteva esserle perdonato. La prima volta
l'avevamo presa in giro per settimane, tormentandola e stuzzicandola ogni
minuto di ogni ora di ogni giorno finché un pomeriggio, esasperata e demolita
dal continuo stillicidio di risatine e di sfottò, era scappata a casa in
lacrime e non si era fatta vedere per un mese. E ora ci offriva nuovamente il
fianco.
Ricordo perfettamente
di averla odiata, in quel mo mento: ebbi la netta impressione che lo stesse
facendo apposta, quasi volesse attirare su di sé lo scherno e la ferocia del
gruppo per immergersi fino in fondo nel fango dell'umiliazione. Ridevo insieme
agli altri, sì, ma era come se mi sentissi ridere da un chilometro di distanza:
dentro di me, avrei voluto prenderla a schiaffi e gridarle perché, maledetta ? Perché
ci costringi a fare questo?
- L'uomo che vola...
ma l'avete sentita? - sbottò Carmine. - Ma ce la fa, il tuo uomo volante, a
decollare con te sulle spalle ?
Le risate divennero
selvagge. Franco e Tonio il Rosso cominciarono a correre in cerchio con le
braccia larghe, imitando con la bocca il rumore degli aeroplani.
Debora rimase
immobile a guardarci, poi si voltò e riprese a camminare verso il portone. Non
ricordo chi fu il primo a far partire il coro e non credo nemmeno che abbia
molta importanza: so solo che, prima ancora che avesse avuto il tempo di fare
un passo, avevamo già cominciato a scandire la nostra cantilena.
- Cac-cia-pal-le,
cac-cia-pal-le, cac-cia-pal-le... Debora entrò nell'androne sporco e si chiuse
la porta alle spalle.
Notai immediatamente
l'occhiata che si scambiarono Carmine e Franco e, senza nemmeno sapere perché,
sentii un brivido correre lungo la spina dorsale. Tentai immediatamente di
abbassare lo sguardo, ma non feci in tempo: mi avevano visto. Carmine mi guardò
e, con un brusco movimento del capo, mi fece cenno di seguirli, poi parti con
passo deciso verso il portone.
A questo punto,
credo, potrei cercare di giustificarmi, potrei dire che non ero in grado di
immaginare ciò che sarebbe accaduto... ma mentirei: lo sapevo. Me lo sentivo,
era come un'ombra solida che mi premeva dietro gli occhi e mi appesantiva
l'inguine, una stretta alla bocca dello stomaco che mi trasmetteva un vago senso
di nausea e una strana, perversa eccitazione.
Fu in quel preciso
istante, credo, che il mio destino prese un'altra strada. Infinite volte, in
seguito, ho cercato di immaginare che cosa sarebbe cambiato nella mia vita se
quel giorno mi fossi comportato in maniera diversa; mi sono domandato fino alla
nausea se il rifiuto delle donne che ha segnato la mia adolescenza, se le difficoltà
nei rapporti con l'altro sesso che mi hanno portato a perdere la verginità
quando i miei coetanei avevano già un paio di figli e a sposarmi quasi
quarantenne non dipendessero in realtà da ciò che era accaduto dentro di me in
quel singolo, brevissimo istante smarrito nel mare di ricordi della mia
infanzia. E, nonostante non abbia mai trovato una risposta precisa, una cosa
però ho capito: ci sono momenti, nella vita di tutti, in cui le circostanze ci
impongono una scelta in grado di condizionare il nostro futuro in modo irrevocabile.
Si può andare in una direzione oppure in un'altra, ma non c'è modo di restare
fermi, non c'è modo di evitare di decidere. Ebbene, quel giorno io imboccai la
direzione sbagliata.
Era la prima volta
che Carmine e Franco mi trattavano da pari a pari: con quel breve cenno del
capo, Carmine mi aveva offerto l'opportunità di salire al loro livello, di
instaurare con loro quella complicità che mi avrebbe immediatamente procurato
il rispetto e il timore del resto del gruppo. Era la mia grande occasione e,
che Dio o chi per lui possa perdonarmi, mi mossi senza alcuna esitazione e li
seguii sulle scale.
- Per il tuo bene
faccio finta di non aver sentito, Maria. Non lo fare più. Sono tuo marito e
quello che faccio fuori di casa, da che mondo è mondo, sono cazzi miei, - le
dice lui con voce terribilmente calma. Un sorriso idiota e innaturale gli stira
le labbra, contrappunto malsano alla luce gelida che gli brilla negli occhi. -
Fammi il caffè, - ordina tornando a dedicarsi al giornale.
Maria vorrebbe stare
zitta, ma non riesce a sopportare ciò che vede: lui si è rimesso a leggere il
giornale come se niente fosse. Di Beba non gliene frega niente. Niente. Maria
ne è assolutamente certa e, semplice mente, non può e non vuole trattenersi. -
Se vuoi il caffè fattelo da solo, - dice.
Lui si alza dalla
sedia, fissandola incredulo. Scuote la testa, quasi gli dispiaccia ciò che sta
per fare, poi si slaccia la fibbia della cintura. - Maria, hai passato il limite,
che cazzo ! - dice con voce pacata e fredda. - Hai proprio bisogno di una bella
battuta.
Maria indietreggia. -
Starami lontano. Non ti avvicinare. Non ce la faccio più! No... -. Si
interrompe per mettere una sedia tra sé e l'uomo, che ora le dà la caccia
girando come un predatore intorno al tavolo da pranzo.
Lui butta la sedia di
lato con un movimento brusco del braccio, mandandola a sbattere con fracasso
contro la parete. La cintura sibila nell'aria.
Ora la sensazione di
sollievo è scomparsa dall'animo di Maria. Tutto ciò che rimane dentro di lei,
ora, è la morsa fin troppo familiare della paura. La sua voce si incrina,
facendosi odiosamente supplichevole. - Vincenzo, pensa alla bambina, ti prego! Ti
prego!
Incurante delle sue
parole, lui le si avvicina sempre più. La chiude in un angolo, brandendo la
cinghia con forza tale da sbiancarsi le nocche.
- Non mi toccare,
bastardo ! Prendo la bambina e me ne vado, giuro che me ne va...
La cintura la
colpisce in pieno volto e poi si abbatte di nuovo, rapida e feroce. Maria
grida, cerca di proteggersi, ma non serve a nulla: con un rapido passo in
avanti, lui le è addosso. La afferra per i capelli e la colpisce. Il pugno la
coglie sulle labbra e Maria cade a terra, sentendo il sapore amaro del sangue
che sale a riempirle la bocca. Prova a rialzarsi aggrappandosi al bordo del
tavolo, ma l'uomo cala nuovamente il pugno, colpendola questa volta sul lato
del collo. Maria stramazza a terra, portandosi dietro la tovaglia. La bottiglia
di vino si rompe sul pavimento.
Nel buio della sua
stanzetta, Debora sente il rumore e chiude gli occhi, si tura le orecchie e
ficca la testa
sotto il cuscino,
cercando di soffocare i singhiozzi per paura che la senta suo padre.
Non appena ci senti
arrivare alle sue spalle, gemette e tentò di scappare... vi lascio immaginare
con quale esito. Il primo a raggiungerla fu Carmine: sull'ultimo gradino della
terza rampa di scale, la afferrò per le braccia e la spinse con forza in
avanti, mandandola a sbattere contro la parete scrostata del pianerottolo tra
il primo e il secondo piano.
Debora cominciò a
piagnucolare, e Carmine la zitti con uno schiaffo. - Smettila, cicciona del
cazzo! - sibilò. Poi si voltò verso di me. - Tu guarda se arriva qualcuno, - mi
ordinò.
Indietreggiai di un
passo, spostandomi vicino alla ringhiera in modo da poter osservare sia sopra
che sotto... ma, in realtà, il mio sguardo era incollato a ciò che stava
accadendo a meno di un metro da dove mi trovavo. Con le labbra stirate in un
sogghigno, Franco premette le mani sulle spalle di Debora, mollandole un feroce
calcio negli stinchi per costringerla a inginocchiarsi.
Lei emise un: - No...
- appena sussurrato. I suoi occhi avevano smesso di essere bovini, ora: erano
sgranati e attenti, vivificati dal terrore che le faceva tremolare
incontrollabilmente gli angoli delle labbra. - Ti prego...
Carmine la afferrò
per i capelli e la strattonò con forza. - Sta' zitta, grassona! - Senza
lasciare la presa, con la mano libera si sbottonò i calzoni e lo tirò fuori. -
Se ti muovi, giuro che ti ammazzo, - le disse, poi glielo infilò in bocca e
cominciò a spingerlo avanti e indietro.
Io ero come
paralizzato. Avrei voluto scappare, avrei voluto voltarmi e andarmene... no,
non sto cercando di sembrare migliore degli altri due, ve lo assicuro; il mio
non vuole essere affatto un tentativo di giustificazione, anzi. Volevo
scappare, questo si, ma non per l'indignazione o per il disgusto, no... volevo
scappare per l'imbarazzo, per la vergogna di trovarmi di fronte al più grande
tabù della mia generazione, quella cosa di cui ai miei tempi non si parlava se
non di nascosto e a mezza voce, storditi da un miscuglio letale di eccitazione
e senso di colpa. Per questo e soltanto per questo.
Avrei voluto fuggire,
dicevo. Invece, profondamente affascinato dalla scena che si stava svolgendo
davanti ai miei occhi, rimasi a guardare il cazzo di Carmine che entrava e
usciva con frenesia crescente da quella bocca imbrattata di succo di
lecca-lecca... e, piano piano, dalla passività rassegnata con cui Debora la Palla accettava dentro di sé
quel corpo estraneo, dal modo in cui teneva gli occhi serrati senza emettere
alcun suono, dalla lentezza con cui le lacrime le scivolavano sulle guance,
capii che quella non era la prima volta che qualcuno la costringeva a fare una
cosa del genere.
Mi sentii vacillare.
Mi aggrappai al corrimano, con la testa che mi girava e il cuore che mi sfarfallava
in gola. Quando Carmine ebbe finito, fu la volta di Franco.
E poi, come era
inevitabile...
- Adesso tocca a te,
- mi disse Carmine.
A questo punto, in
tutta sincerità, i miei ricordi si fanno un po' confusi. I particolari perdono
consistenza, stemperati nella rabbia... anzi, nella ferocia che mi sentivo
crescere dentro via via che mi avvicinavo alla faccia ottusa e stolida di
quella vittima fin troppo perfetta. L'imbarazzo che avevo provato fino a poco
prima era scomparso senza lasciare traccia. Non mi importava più di niente,
ora: volevo soltanto umiliarla, degradarla, farla precipitare ancora più in
basso... il desiderio di sopraffazione mi premeva nel ventre, e non vedevo
l'ora di liberarlo.
Non sapevo bene come
comportarmi: non avevo mai fatto nulla di simile in vita mia. Cosi lo tirai
fuori, glielo ficcai tra le labbra e tentai di imitare i movimenti dei due
amici che mi avevano preceduto. Quando sentii Debora che cominciava a
ciucciare, qualcosa di enorme e oscuro mi nacque dentro, partendomi dalla base
della spina dorsale e allagandomi tutte le terminazioni nervose, dalla punta
dei piedi alla radice dei capelli. Non capii più nulla: cominciai a muovermi
con violenza, aggrappandomi alle ciocche unte che le pendevano ai lati del viso
per tenerla ferma, del tutto incurante della sua testa che sbatteva
ritmicamente sull'intonaco crepato e ammuffito del pianerottolo. Vedevo quella
parte di me, quell'appendice che fino a quel momento non avevo mai toccato se
non per lavarmi, entrare e uscire dalla sua bocca umida, vedevo le lacrime che
le scorrevano fino al mento e poi si fermavano nella peluria appena accennata
del mio inguine, vedevo i suoi foruncoli farsi sempre più rossi, sempre più
congestionati... e intanto sbattevo, sbattevo, sbattevo... sbattevo il bacino
in avanti, sempre più forte, sempre più rapido, sempre più violento. La
sensazione crebbe, e per un attimo ricordo di aver pensato che stavo per
morire. Poi, con un sussulto, riversai il primo orgasmo della mia vita nella
bocca bollente di pianto di Debora la
Palla.
- Diglielo anche tu,
avanti, - mi incitò Franco mentre le serrava le guance con forza per impedirle
di aprire le labbra. - Dai!
E io, stordito e
ubriaco di cattiveria, con il mio cazzo già moscio di preadolescente ancora
fuori dai pantaloni corti, mi chinai su gambe che mi sembravano di gelatina e
le dissi ciò che le avevano detto Franco e Carmine quando era stato il loro
turno: - Ingoia tutto, puttana.
Debora, continuando a
piangere quelle sue lacrime grosse e silenziose, strizzò gli occhi con forza come
si fa un attimo prima di ricevere uno schiaffo, e deglutì.
- Te l'avevo detto
che te l'avrei fatta pagare, brutta cicciona, - le disse Carmine. Debora si
lasciò andare contro la parete, le spalle abnormi scosse da singhiozzi muti e
disperati.
La prendemmo un po' a
calci e poi ce ne andammo, ridacchiando e dandoci grandi pacche sulle spalle. Carmine
e Franco non mi avevano mai trattato con tanta familiarità, e la cosa mi riempi
di orgoglio.
Adesso ero uno di
loro.
- Guarda che cosa hai
fatto, troia, - le grida lui, ritmando le proprie parole con i calci che le fa
piovere nelle costole e sui fianchi. - Dovrai anche pulire, dopo! -Abbatte di
nuovo la cintura, più volte, colpendola sulle braccia che lei ha sollevato per
proteggersi il volto.
Maria singhiozza
disperata, respirando la polvere del pavimento e l'odore nauseabondo del vino
rovesciato. Pensa soltanto a ripararsi dai colpi che le grandinano sul corpo da
ogni direzione.
Con un ultimo grido,
lui le balza addosso e la schiaccia sotto di sé con tutto il suo peso, poi la
afferra per i capelli e la costringe a guardarlo. Maria sente la puzza del suo
alito e chiude gli occhi. - Guardami! - le grida lui. - Guardami, puttana!
- Vincenzo... ti
prego...
Lui le apre la
vestaglia, colpendola ripetutamente sulla testa con la mano libera, poi le
strappa le mutande.
- No! No! Vincenzo,
ti prego... no!
-Sta' zitta, troia! -
Facendo leva con le ginocchia, le divarica le gambe a forza. - Ora apri le
cosce e fai quello che vuole tuo marito.
Maria smette di
divincolarsi. Non ha più la forza di reagire. Singhiozzando e inghiottendo
sangue dalle labbra spaccate, rinuncia a opporre resistenza e lo lascia fare.
Il Rumore arrivò
quella sera poco dopo le dieci.
Per una di quelle
coincidenze assolutamente fortunate, ero riuscito per la prima volta a
strappare a mio padre il permesso di scendere in cortile dopo cena, cosa che di
solito mi era proibita. Non dico che se fossi rimasto a casa avrei perso tutto
il prestigio che mi ero guadagnato in modo tanto meschino quel pomeriggio, ma
di sicuro non sarebbe stata la stessa cosa.
Eravamo noi tre; io,
Franco e Carmine. Era andata esattamente come mi aspettavo: ero uno di loro a
tutti gli effetti, ora, abilitato a partecipare in qualità di
complice a tutte
quelle attività semiclandestine che erano prerogativa dei veri capibanda. La
prima boccata della Nazionale che Franco mi aveva offerto da un pacchetto
sbiadito e cincischiato mi si era ingrippata in gola come una lisca di pesce
ma, sforzandomi fin quasi a soffocare, ero riuscito miracolosamente a non
tossire e a non perdere la faccia.
Ora, nella vertigine
euforica dell'intossicazione da nicotina, me ne stavo seduto per terra a
guardare il cielo insieme agli altri due, con la schiena appoggiata alla
finestrella della cantina dalla quale eravamo appena usciti.
- Certo che farselo
ciucciare dalla Betta dev'essere un po' meglio, - disse Franco.
Carmine scosse la
testa. - Lascia stare. Quella è roba di Tonio il Rosso.
- Che cazzo dici! -
sbottò Franco. - Come fai a saperlo ? - Parlava sempre cosi, Franco, facendo
domande senza inserirvi alcuna intonazione interrogativa. Teneva sempre le
labbra strette, da duro, e sembrava che le parole gli uscissero dalla bocca
quasi per sbaglio.
- È vero, - dissi io,
felice di poter dare il mio contributo alla conversazione. - Quando giochiamo a
nascondino, quei due si infrattano sempre insieme. Tonio una volta mi ha detto
che lei gli ha fatto una sega, - conclusi con aria saputa. Mi sentivo come se,
dopo quel pomeriggio, il sesso per me non avesse più alcun mistero.
- Be', comunque, una
volta o l'altra...
Franco non ebbe il
tempo di finire: il tonfo arrivò da dietro l'angolo del palazzo, possente e
incredibile, troncandogli la frase a metà.
Nonostante nei mesi e
negli anni che seguirono sia stato proprio quel rumore a svegliarmi ogni notte
di soprassalto, lasciandomi boccheggiante e ricoperto di sudore gelido nel
letto della camera che dividevo con il mio fratellino più piccolo, nonostante
sia proprio quel rumore che da qualche tempo a questa parte ha ricominciato a
interrompere i miei incubi di uomo di mezza età, so già che non sarò in grado
di descriverlo con la precisione necessaria per farvelo anche soltanto immaginare.
Fu come se qualcuno avesse appena scaricato dal cielo un camion di angurie. La
terra tremò, ma non fu un terremoto vero e proprio; fu piuttosto una vibrazione
sorda che si ripercosse nelle nostre spine dorsali con la lentezza ineluttabile
di un brivido, quasi che Godzilla avesse scelto proprio il Cortile del Sole per
muovere il suo primo, ciclopico passo fuori dallo schermo del cinema
dell'oratorio, dove la domenica pomeriggio seguivamo le sue terribili gesta
succhiando rotelle di liquirizia e lanciando palline di carta tra i ca*; pelli
delle bambine.
Si era fatto
precedere da un sibilo sordo (uno di quei suoni innocui della cui presenza ci
si rende conto soltanto quando cessano all'improvviso) e poi, una frazione di
secondo più tardi, era stato completato da una raffica umida e in un certo qual
modo densa, come se qualcuno avesse lanciato in cortile un gavettone pieno di
melassa. Ma la sua qualità principale, quella che mi fece gelare il sangue
nelle vene prima ancora che la parte conscia del mio cervello avesse il tempo
di registrarlo come realmente accaduto, si può riassumere con il termine che ho
adoperato in una delle prime pagine di questo mio racconto: definitivo. Qualsiasi
cosa l'avesse prodotto, sicuramente non sarebbe stata più la stessa, dopo un
simile urto... Ve lo dico io... io che quel rumore lo sento ancora e lo sentirò
per il resto dei miei giorni... io che a volte, nei momenti peggiori, non posso
fare a meno di pensare che quel rumore sarà l'ultima cosa che sentirò prima di
andare all'altro mondo.
- Che cazzo è stato ?
- disse Franco.
Ci alzammo e corremmo
a vedere. Quando voltammo l'angolo del palazzo, ci bloccammo come se qualcuno
ci avesse inchiodato i piedi al selciato. La prima sensazione che avvertii fu
la cena che mi saliva prepotentemente in gola, reclamando una via d'uscita. Vacillai
e, stringendo i denti, riuscii a non vomitare. Franco ebbe meno fortuna: si
voltò dall'altra parte di scatto, pallido come un cencio. Udii i conati che gli
squassavano lo stomaco, ma non lo guardai... perché, semplicemente, non potevo:
io e Carmine fissavamo come paralizzati lo scempio che imbrattava il cortile,
assolutamente incapaci di distogliere lo sguardo.
Era Debora la Palla. O meglio, la sua
parte posteriore, resa inconfondibile dai polpacci enormi e dal cu-lone
colossale. La parte anteriore del suo corpo si era fusa con il selciato:
sembrava quasi una statua pronta per essere tirata fuori dal calco di gesso. C'era
sangue ovunque, e quando dico ovunque intendo proprio dire ovunque: sul muro
del palazzo, sul vetro smerigliato del portone, sulla colonnina dell'Enel... e
poi per terra, raccolto in una pozza viscosa e tentacolare che si allargava
lentamente sul cortile, spingendo le sue propaggini nel buio come un polipo che
si distende sul fondo del mare. Frammenti perlacei di tessuto cerebrale
galleggiavano nel liquido rossastro, allontanandosi pigramente dal cranio
sfondato.
Passò del tempo, non
saprei assolutamente dire quanto. A un certo punto, mentre già la gente cominciava
a gridare dalle finestre, Carmine voltò le spalle al corpo e, parlando a mezza
voce, disse: - Minchia che schifo.
Adesso potrei anche
raccontarvi di averlo preso a sberle, o di averlo mandato a fare in culo. No,
mi dispiace, niente di tutto questo. Mi limitai a voltarmi verso di lui e,
quando vidi la sua espressione disgustata, mi strinsi nelle spalle e non dissi
assolutamente nulla.
Mi incamminai
lentamente verso il portone del mio palazzo, perché sapevo che, quando fossero
scesi i genitori di Debora, non sarei riuscito a guardarli in faccia.
Nella sua cameretta,
Debora apre gli occhi e si toglie le dita dalle orecchie. Cautamente, emerge da
sotto il cuscino.
La casa è silenziosa.
Scosta le cooerte e
anoossia un Diede sul pavimento. La gamba che vede sporgere dal letto è grassa,
brutta, sgraziata; la pelle è tesa e bianca, come se stesse per scoppiare.
Al buio, attraversa
la stanza e si avvicina alla finestra.
Lui è li, bellissimo,
più bello di un divo del cinema. Fluttua oltre i vetri della cameretta e le
sorride, felice di vederla.
Timidamente, Debora
afferra la maniglia e la tira verso di sé. Lui le porge la mano. Debora accetta
l'aiuto e si issa sul davanzale. Rimane in piedi per un istante, godendosi
l'aria della sera che le asciuga il sudore dalla pelle martoriata dall'acne,
poi si sporge in avanti e, sorridendo, sale sulla schiena dell'uomo che vola.
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