Tales of Mystery and Imagination

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Stefano Massaron: Il rumore



Salve a tutti. Ho quarantasei anni e non mi posso lamentare. Faccio il redattore in una rivista femminile, guadagno abbastanza bene da mantenere la mia famiglia, ho una moglie a cui voglio bene, due figli adolescenti che non mi danno troppi problemi e, piano piano, sto finendo di pagare il mutuo della casa, un appartamentino di tre locali più servizi in un quartiere relativamente tranquillo di Milano.
Non mi posso lamentare, dicevo. Be', non è del tutto vero, in realtà: ultimamente, mi capita sempre più spesso di fare fatica a dormire. Il motivo ve lo spiegherò tra poco. Per questo (e su consiglio del mio medico di famiglia, a cui sono molto affezionato e di cui mi fido moltissimo), ho deciso di raccontare per iscritto la storia di Debora la Palla. Forse, se lo faccio, i ricordi smetteranno di tormentarmi.
E stato tanto tempo fa (eravamo alla fine degli anni Cinquanta), ma mi sembra che non sia passato nemmeno un giorno: sempre più spesso, negli ultimi tempi, quando sono sul punto di addormentarmi ecco che mi balza davanti agli occhi quel suo faccione da luna piena, quei suoi capelli unticci, quegli occhi bovini che sembravano quasi scomparire nella faccia bianco-latte butterata da concentrazioni rossastre di acne, sfoghi e pustolette. F di lei che sto parlando, ovviamente: Debora la Palla. Cerco sempre di scacciarla, mi divincolo tra le lenzuola per liberarmi della sua presenza, lotto sull'orlo del sonno per togliermela dalla testa: a volte ci riesco, e mi metto a dormire. A volte, però, sento il rumore, quel rumore. E allora non dormo più.
La mamma le apre la porta, e Debora non ha il coraggio di guardarla in faccia. Se ne sta li con gli occhi bassi a fissare la vestaglia lisa, stretta in vita da una cintura di stoffa macchiata dall'uso. Il solito odore di zuppa di cipolle permea la casa, e Debora vi si rifugia quasi con impazienza, sperando che il familiare conforto dell'abitudine attenui il bruciore dei graffi e il dolore della vergogna che le infiamma le gengive.
La mamma le mette una mano sotto il mento e le solleva la testa, costringendola a guardarla negli occhi.

- Che cosa è successo ?
Debora tira su col naso. Ha la faccia sporca, e le due righe più pulite che le solcano le guance sono la prova inconfutabile del fatto che ha appena pianto. - Niente, - dice in un bisbiglio. Poi, deglutendo come per raccogliere un po' di coraggio, aggiunge a mezza voce:
- Mi hanno presa in giro.
Avevo nove o dieci anni, forse anche undici, e con la mia famiglia abitavamo in un quartiere popolare a Cologno Monzese (per chi non lo sapesse, Cologno era, ed è tuttora, un sobborgo-dormitorio alle porte di Milano) . I nostri palazzi li chiamavano gli alveari per via della regolarità geometrica e monotona delle finestre, che erano tantissime ma tutte troppo piccole. All'interno dei casermoni, però, non si respirava odore di miele, tutt'altro: il fetore acre che ammorbava le scale si imponeva non meno di quanto non facessero lo strato di sporco che rivestiva i muri e le chiazze di umidità che regnavano incontrastate sull'intonaco scrostato dei pianerottoli (le conoscevo bene, quelle chiazze di muffa verdognola, perché li sopra i pastelli ci scrivevano male, e le parolacce sbiadivano subito). A volte, quando i capifamiglia (quasi tutti operai come mio padre) riuscivano a trovare da lavorare per qualche settimana, si poteva anche avvertire da dietro le porte l'odore grasso e penetrante della carne bollita, ma devo dire che non capitava molto spesso. Per farla breve, eravamo i «poveri» della società di allora.
Negli alveari abitavano famiglie di immigrati meridionali venuti al nord con la speranza di trovare qualcosa che nella loro terra d'origine non potevano trovare. Proprio come gli immigrati adesso... e, se devo essere sincero, mi fa un po' specie quando sento qualche terun come mio padre che borbotta cose tipo: - Ah, 'sti africani qui, che se ne tornino a casa loro -, Possibile che si siano già dimenticati, mi chiedo, di tutte le sciure marie e i sciur giuàn che dicevano le stesse cose di noi poco più di una generazione fa ? Possibile ?
D'accordo, d'accordo, mi rendo conto che sto divagando. Prometto che non lo farò più, è che a volte... oh, be', lasciamo perdere.
Stavo dicendo ? Ah, si... la maggior parte dei capifamiglia, quindi, era senza lavoro e per vivere si arrangiava a fare altro, riscuotendo mensilmente il sussidio di disoccupazione. E, proprio come gli immigrati di adesso (scusate se insisto), quelli che non riuscivano a lavorare in nero finivano immancabilmente per farsi assumere dall'azienda più prospera e rigogliosa che si potesse trovare in posti come quello: la piccola criminalità organizzata. Tanti amici di mio padre (e poi si, una volta è toccata anche a lui) sono andati a San Vitùr a ciapaa i bott, come dice quella vecchia canzone... anche se sicuramente per motivi meno nobili della lotta partigiana.
Gli alveari erano stretti l'uno accanto all'altro a gruppi di quattro, ognuno di eguale altezza e squallore. Tra i balconi erano tirati fili da bucato su cui la biancheria, perennemente stesa ad asciugare, creava una specie di ponte fatto di mutande e di lenzuola che collegava tra loro gli appartamenti. All'interno di ogni gruppo di case c'era un cortile, soffocato dai palazzi che gli toglievano aria e luce... tutti tranne uno, uno solo, in cui il sole entrava di sbieco per poche ore al giorno. Ciò, ovviamente, lo rendeva il cortile più ambito da tutti i bambini degli alveari. Per il privilegio di poterci giocare, pensate un po', facevamo delle vere e proprie guerre a sassate con i ragazzini degli altri casermoni. La piccola cicatrice che mi interrompe il sopracciglio sinistro è il risultato di una di quelle battaglie furibonde.
Quel giorno, il giorno della mia storia, ci eravamo riusciti. Erano le sei del pomeriggio: il sole e l'ombra si dividevano l'angusto riquadro di cemento in parti uguali, tagliandolo in diagonale. Eravamo a metà luglio... anzi, forse anche più in là, perché ricordo il caldo terribile e l'umidità soffocante che ci avvolgevano come una seconda pelle. Era cosi, d'estate: la polvere (quella polvere delle strade sterrate e disseminate di ghiaia che poi sono state tutte asfaltate con il boom automobilistico degli anni Sessanta) ti si appiccicava addosso, mescolandosi al sudore, e non ti mollava più. Non che per noi avesse la minima importanza, comunque: l'unica cosa che ci interessava era giocare, giocare, giocare. Tutt'al più prendevamo qualche scapaccione supplementare dalle mamme quando tornavamo a casa troppo sporchi la sera per cena, ma intanto ci eravamo divertiti, e questo era già più che sufficiente.
Quel pomeriggio, dicevo, c'eravamo tutti, anche perché nessuna famiglia del nostro alveare era abbastanza ricca da potersi permettere di tornare al sud per l'estate. Eravamo circa una dozzina, riuniti intorno alla campana tracciata con il gesso bianco sul selciato. Stavamo giocando da circa tre ore, e la partita era giunta a uno stallo. - Una partita giocando a campana? -si chiederanno quelli di voi che ricordano il gioco. Be', una spiegazione c'è: non era proprio la classica campana che tutti conoscevano. Era un gioco inventato da noi, una versione modificata che prevedeva l'obbligo di dividersi in due squadre e la possibilità di vincere o perdere, accontentando cosi lo spirito di competitività di noi maschi: soltanto a quel prezzo, infatti, potevamo acconsentire a che oartecioassero anche le bambine. A parte il nascondino, era l'unico gioco che facevamo tutti insieme, maschi e femmine: gli altri (biglie e tollini per simulare il Giro d'Italia tracciato sul cemento sfregandoci sopra pezzettini di catrame come rudimentali gessetti, il pallone con cui disputavamo partite interminabili e polverose usando le colonnine dell'Enel come pali delle porte) erano di nostra esclusiva pertinenza. Qualsiasi cosa facessero le bambine quando giocavano da sole, be', non era affar nostro e non ci interessava.
Quel giorno c'erano Carmine e Franco, i capi del gruppo, chinati in osservazione. Franco aveva dodici anni e faceva già qualche lavoretto poco pulito per i fratelli più grandi, Carmine era stato bocciato per la seconda volta all'esame di quinta elementare: queste loro caratteristiche, unite al fatto che entrambi ogni tanto si nascondevano nelle cantine a fumare le Nazionali del padre di Franco e a leggere fumetti sconci tenendo lontani tutti gli altri, bastavano a far si che, tra i bambini del nostro alveare, la loro parola fosse legge. Erano loro due che, nei rari periodi di tregua, si riunivano con i capi degli altri cortili per stabilire i turni di gioco nel Cortile del Sole.
Ah ! Vedete quanti particolari ritornano alla mente quando ci si sofferma con attenzione sui propri ricordi? Cortile del Sole... mi sembra quasi incredibile, ora che ci ripenso, che si possa battezzare in modo tanto poetico e glorioso quello sputo di cemento sudicio chiuso tra quattro palazzoni. Eppure era proprio cosi che lo chiamavamo: il Cortile del Sole.
Scusate... sento come una cosa qui, all'altezza del petto, che si gonfia e mi solletica la gola, che mi punge le narici e gli angoli degli occhi. É quella che chiamano nostalgia, suppongo. Maledizione, sarebbe cosi bello ricordare, lasciarsi prendere dallo struggimento per qualcosa che allora c'era e adesso non c'è più... sarebbe cosi dolce chiudere gli occhi e farsi cullare dal rimpianto di quelle sensazioni. Sarebbe meraviglioso... se nnt nnn arrivasse il rumore.
Quel rumore: sordo, molle, umido. Definitivo.
La mamma si ravvia i capelli nerissimi e fini che le spiovono spettinati sul viso e la stringe dolcemente a sé. - Non te la devi prendere, Beba.
Debora si divincola dall'abbraccio della madre. - Sono tutti deficienti ! - dice con la voce venata da un tono di ripicca infantile. - Mi hanno detto che sono una... una... - balbetta, cercando di trattenere le lacrime, poi termina d'un fiato, offesa: - Una cacciapal-le!
La mamma scuote la testa. - Beba, che cosa hai raccontato? Non avrai mica tirato fuori un'altra volta la storia dell'uomo che vola, vero ?
Debora abbassa gli occhi, colpevole. Sente la mano rapida e nervosa della mamma che le sfiora i capelli con dolcezza. In un primo momento tenta di ritrarsi, ma poi si arrende e si lascia consolare.
- Beba... ascoltami, piccola, devi smetterla con queste fantasie. Lo sai, vero, che gli uomini non volano? Lo sai che non può esistere un uomo che vola, vero Beba?
Debora tiene gli occhi bassi e non dice nulla.
- Rispondimi, Beba. Lo sai, vero ?
Invece di rispondere, lei guarda i piedi della mamma, chiusi nelle ciabatte che le ha sempre visto indosso, quelle blu di spugna, spelacchiate e fruscianti, che Debora saprebbe riconoscere a occhi chiusi in qualsiasi luogo del mondo. Vorrebbe andarsene, scappare in bagno a togliersi quel saporaccio dalla bocca, ma non può.
- Beba ? - insiste sua madre, questa volta con un tono che non ammette repliche.
Con riluttanza, Debora annuisce, mentre il rossore della sconfitta le sale alle guance. - Si, lo so.
- Bene, - dice la donna dandole un'ultima carezza. - Ora vieni e aiutami con la zuppa, che tra poco arriva papà.
Debora alza gli occhi verso di lei.
- Prima però vai a lavarti le mani e la faccia.
Lei obbedisce, cercando di non tradire la fretta con cui vorrebbe precipitarsi verso il lavandino. Sua madre le volta le spalle e si mette ad armeggiare intorno alla piccola cucina a gas. Debora oltrepassa la porta del bagno con il vetro smerigliato e pensa a quante volte l'ha vista cosi, in vestaglia, curva sui fornelli, con il vapore che si insinua tra i capellinerissimi che le spiovono dritti e umidi sulla fronte. E un'immagine profondamente radicata in lei, il corrispondente visivo del suono delle ciabatte blu che accompagna i passi di sua madre in giro per casa. La trova cosi quando torna a casa da scuola, la trova cosi al ritorno dai suoi giochi pomeridiani con i ragazzi del cortile. L'ha sempre trovata cosi: in attesa di PAPÀ, un essere tonante e terribile che al tempo stesso completa e disturba la loro vita di madre e figlia.
Papà.
Si sfrega la bocca con forza, desiderando quasi farsi male. Sfrega e sfrega ancora, strofina fino a quando non si rende conto che la mamma può insospettirsi perché è passato troppo tempo. Mentre si insapona la faccia, stando bene attenta a non farsi entrare la schiuma negli occhi, sente un nodo che le stringe la bocca dello stomaco, una sorta di angoscia senza nome che prova ogni volta che suo padre sta per arrivare. Non sapendo se attendere o temere quel momento, Debora si ritrova sempre in bilico tra le due emozioni contrastanti, quasi che le due sillabe uguali dell'appellativo papà siano il bene e il male, la sicurezza e la paura, la protezione e il terrore, concetti di significato diametralmente opposto ma al tempo stesso fusi inscindibilmente in un'unica, terrificante parola.
Con un sospiro, Debora si risciacqua e si asciuga. Poi esce dal bagno e va in cucina ad aiutare la mamma.
Stavo dicendo: quel pomeriggio di un'estate verso la fine degli anni Cinquanta, tre o forse quattro ore pri ma del Rumore, Edoardo, il fratello minore di Franco, saltellava intorno ai due capibanda facendo ondeggiare la zazzera rossa. - E sul sei! E sul sei! - gridava felice.
- E statti zitto, che cazzo! - lo rimproverò Franco prendendolo per un braccio.
- Anche a me sembra sul sei, - disse poi a Carmine abbassando la voce.
Eravamo tutti li intorno, in trepidante attesa della decisione che avrebbe condizionato il corso della partita. Nonostante sia Franco che Carmine facessero parte della stessa squadra, nessuno di noi si poneva il problema di un eventuale conflitto di interessi: la parola dei capi, come ho già detto, era al di sopra di qualsiasi possibile contestazione.
In un silenzio carico di aspettativa, Carmine fece un palloncino con la gomma da masticare, studiando il sassolino nero posato sulla linea di gesso. Ci pensò su ancora per un po', poi lo prese in mano e lo depositò solennemente sul numero sei.
- Urrà! L'avevo detto io! E sul sei, è sul sei! - riprese Edoardo, saltellando eccitato. Io e gli altri bambini corremmo intorno alla campana, pronti a ricominciare.
- Tocca a me, - disse una voce inespressiva. Ci voltammo tutti verso di lei.
Alla luce di ciò che accadde dopo, quel momento (che di per sé non avrebbe avuto assolutamente nulla di particolare), acquistò nella mia mente una rilevanza enorme. Per giorni e settimane e mesi, dopo quel pomeriggio, ogni volta che chiudevo gli occhi me la rivedevo di fronte come l'avevo vista in quel preciso istante, con un lecca-lecca in una mano e l'altra abbandonata mollemente lungo il fianco spropositato. Un po' di succo le era rimasto impiastricciato sulle labbra, conferendo alla sua grossa bocca una patina zuccherosa di rossetto che risultava semplicemente oscena nella sua tranquilla lascivia (oddio, forse queste sono caratteristiche che le ho attribuito in seguito, nel corso dei continui e tormentosi processi di rimemorazione: dubito fortemente che, nell'ingenuità dei miei undici anni, potessi anche solo immaginare una roba grossa come la lascivia in uno sbaffo di sciroppo). L'espressione del suo viso era imbronciata, come sempre o quasi. I capelli, lunghi e con la riga in mezzo, le pendevano un po' unti ai lati della faccia, rotonda e bianca come la luna, che le era costata uno dei soprannomi di cui vi parlerò tra poco. Le guance e la fronte erano punteggiate di fo-runcoletti rossi; il collo, pieghettato e lucido di sudore, scompariva in un vestito a quadri. Debora portava sempre vestiti a quadri; non ricordo di averla mai vista con indosso qualcosa di diverso.
I bambini degli alveari (con il sottoscritto, devo ammetterlo, in prima linea) la chiamavano in vari modi: i più ricorrenti erano Faccia di Luna Piena, Mongolfiera, Cicciabomba... ma, ovviamente, il più usato era quello che lei detestava più di ogni altro: Debora la Palla.
Sí, perché Debora, questo era il suo grande difetto e la sua grande croce, era grassa... anzi, forse sarebbe meglio dire che era colossale. Non posso affermarlo con certezza ma, ripensandoci ora, direi che, nonostante non fosse più alta delle altre bambine della sua età, si avvicinava tranquillamente ai cento chili. I suoi vestiti erano enormi, immensi tagli di stoffa a quadrettoni rossi e bianchi che le svolazzavano intorno come le vele delle navi dei pirati (tra noi, con la maligna ferocia tipica dei bambini, correva voce che per vestirla sua madre avesse adoperato le tovaglie dell'osteria dove l'anno prima, quando il marito era in galera, aveva fatto la sguattera). Debora aveva nove anni ed era una classe indietro... perché era stata malata. A noi erano sufficienti quelle tre parole che, sussurrate a mezza voce e cariche di significati inquietanti, saltavano fuori ogni volta che lei era da qualche altra parte. E stata malata, punto e basta. Qualcuno (nessuno ricordava chi, come è di prammatica che nessuno ricordi l'origine di ogni pettegolezzo che si rispetti) l'aveva sentito dire da uno dei grandi, forse da una mamma che parlava con la panettiera, e l'aveva immediatamente riferito al resto del gruppo. Da quel momento, ogni altra spiegazione era diventata superflua. E stata malata: non ci serviva altro.
Ci scostammo per lasciarla passare.
Debora raggiunse la prima fila e indicò il sassolino sul cemento. - Tocca a me, adesso, - ribadi in tono ostinato.
Carmine, dall'alto dei suoi undici anni, si soffiò via il ciuffo di capelli neri dalla fronte. Era bello, Carmine. Carnagione scura, occhi e capelli come il carbone. Si diceva che avesse già portato pili di una compagna di classe tra i cespugli del campo spelacchiato (area edificabilc, la chiamerebbero adesso) che si estendeva dietro i casermoni. - Sei sicura, Palla ?
Debora fece un passo avanti, minacciosa. - Ti ho detto di non chiamarmi più cosi, Carmine! Te l'ho detto.
Scoppiammo a ridere. Carmine si limitò a scuotere la testa con aria di superiorità, le labbra incurvate in un mezzo sorriso. - Non tocca a te.
- Non è vero! Toccava a me, prima che...
- Non tocca a te, - disse Antonio, che fino a quel momento se ne era rimasto in disparte con le braccia conserte, succhiando pensosamente un ramoscello raccattato chissà dove. Tonio il Rosso, lo chiamavamo, perché suo padre era un comunista di quelli convinti; era arrivato negli alveari l'anno prima, e stava ancora sgomitando per guadagnare posizioni nella scala gerarchica del gruppo. - Non tocca a te, - ripetè con voce seria.
Debora protestò ancora. Per farla breve, in meno di un minuto non c'era un solo bambino che non urlasse a squarciagola nel tentativo di dire la sua.
- Ehi, calma! Fermi! - disse Franco. - Facciamo la conta.
- Non è giusto, - replicò Debora. - Io...
- Ha ragione, facciamo la conta!
- Si, la conta, la conta!
Carmine guardò Debora e si strinse nelle spalle.
- Visto ? Avanti, mettetevi in cerchio !
Quando tutti gli furono intorno, Carmine chiuse le mani a pugno e cominciò a mulinarle davanti a sé. - Ditemi basta.
Passò qualche secondo, poi Edoardo disse: - Stop!
- Scemo! - lo beccò Debora. - Non vale dire stop, bisogna dire basta... Basta! - aggiunse poi.
Carmine si fermò e cominciò a contare. - Ventotto, ventinove, trenta... trentuno! - terminò, battendo sulla spalla di Debora. - Hai visto ? Sei contenta ? Sei venuta fuori tu.
- Si, ma toccava lo stesso a me, - ribadi lei caparbiamente, portandosi di fronte alla campana. Si chinò, mettendosi in bocca il lecca-lecca, e rimase ferma per un lungo istante di concentrazione preliminare.
Ecco, questo è un altro di quegli istanti che mi sono rimasti impressi nella memoria come una fotografia: il culone immenso di Debora la Palla che nasconde alla vista il tracciato della campana, l'orlo liso del vestitone a quadri da cui spuntano gli enormi polpacci graffiati e impolverati, le calze di cotone traforato segate in due dall'ultima lama di sole concessa al pomeriggio dalle sagome immense dei casermoni... e poi il caldo soffocante, il silenzio improvviso, l'atmosfera carica di tensione che era calata sul gruppo, quasi avessimo intuito, inconsciamente, di trovarci di fronte non a un banale gioco di cortile, bensì a qualcosa che avrebbe segnato profondamente le nostre vite future.
- Vedi di non sbagliare, - le disse Edoardo con un filo di voce, - altrimenti abbiamo perso.
Debora non rispose. Socchiuse gli occhi, inghiottì una boccata d'aria che le gonfiò ulteriormente il torace immenso... e parti.
Sono io a chiudere gli occhi, ora, mentre scrivo, e quella che mi scorre sulle palpebre non è una fotografia, ma una serie di immagini scollegate tra loro e, al tempo stesso, coerenti come un filmato. Vedo le facce intente dei miei amici d'infanzia, vedo i loro occhi che si strizzano inconsapevolmente, le bocche ruminanti gomma da masticare che si immobilizzano... e poi vedo lei, Debora la Palla, che si muove con la grazia e la leggerezza di un elefante zoppo.
A piedi pari sull'i e sul 2, in bilico sul piede sinistro nella casella del 3, poi di nuovo a piedi paralleli sul 4 e sul 5 e, finalmente, con il piede destro sul 6.
Quello era il momento più difficile. Edoardo urlò per incitarla e Debora si preparò al salto all'indietro. Si mosse, ma poi ebbe un attimo di esitazione.
E, come era ovvio, perse l'equilibrio.
- E ora di andare a letto, Beba, - le dice la mamma con un sorriso triste. - Su, preparati, che poi vieni a darmi il bacio della buonanotte.
Lei guarda la zuppa fredda nel piatto della madre e rimane indecisa per un istante. Poi, con voce seria, chiede: - Dov'è papà?
La mamma si stringe nelle spalle. - Ha fatto tardi. Su, adesso vai a letto, da brava.
Debora solleva lo sguardo. Vorrebbe dire qualcosa, ma poi, quando vede la patina umida che vela gli occhi di sua madre, si alza da tavola e se ne va in silenzio.
Nessuno di noi se ne stupf, in realtà: semplicemente, Debora la Palla era troppo grossa per poter restare a lungo in equilibrio su un piede solo.
Annaspò nell'aria per non cadere e si contorse goffamente. Quando capi che non ce l'avrebbe mai fatta, provò ugualmente a saltare. Atterrò sul culo con un tonfo secco di stoffa troppo larga, un suono simile allo schiocco di un lenzuolo al vento. Allargò la bocca. Il lecca-lecca le volò dalle labbra aperte e cadde sul cemento.
Ci fu un attimo di silenzio, poi Tonio il Rosso cominciò a ridere. Fu come un segnale: nel giro di pochi secondi, ridevamo tutti a crepapelle. Non vorrei fare l'errore di attribuire alla cosa un significato che allora non aveva, eppure più ci ripenso e più mi convinco che
il suono delle nostre risate era in qualche modo fasullo, più simile al soffio di vapore che fuoriesce dalla valvola di sfogo di una pentola a pressione che alla manifestazione spontanea di un divertimento, forse un po' sadico, ma quantomeno comprensibile.
Debora rimase seduta per terra, con la bocca spalancata in un'espressione di stupore assolutamente e definitivamente comica. In quel momento, mentre gli altri sghignazzavano senza ritegno, sentii la risata che mi si spegneva lentamente nella gola, afflosciandosi su se stessa come quando (sarà capitato a molti di voi) le pile dei mangiadischi finivano a metà di una canzone. Nello sguardo bovino di Debora vidi comparire qualcosa di sconosciuto, un'emozione tanto nuova per quei lineamenti da sembrarmi del tutto incongruente: collera. Una collera feroce e minacciosa, ribollente come un vulcano. - Siete degli animali! - gridò. - Andate tutti affanculo, brutti stronzi mongopatici deficienti!
Ormai, però, il gruppo era lanciato. - Su, Ciccia-bomba, non te la prendere, - disse qualcuno. - Pensa un po' se rimbalzavi!
Le risate la sommersero. Debora si alzò goffamente in piedi, impedita dal volume del proprio corpo a fare ciò che, ne sono assolutamente certo, in quel momento avrebbe desiderato fare più di ogni altra cosa al mondo: scattare come una furia e saltarci addosso, picchiarci tutti fino a farci sanguinare, calpestarci uno dopo l'altro fino a ridurci in poltiglia. - Non me ne faccio niente di voi... niente! - gridò quando fu di nuovo in posizione eretta. Spazzò via con un calcio il lecca-lecca, mandandolo a frantumarsi contro il muro del palazzo più vicino. - Non me ne faccio niente di voi! Io ho chi mi vuole !
Carmine le si avvicinò, sorridendo e allargando le braccia in segno di pace. Forse aveva capito anche lui che quella volta c'era qualcosa di diverso... o, forse, la sua era soltanto una manovra diversiva per poi colpire più ferocemente la vittima indifesa. In effetti, dai ricordi che ho di lui, direi che quest'ultima è di gran lun ga l'ipotesi più probabile. - Su, Debora, - la esortò divertito, - non fare tutta 'sta camurria.
- Togliti di mezzo, deficiente ! - gli urlò Debora, spingendolo con forza tale da mandarlo a gambe all'aria.
Le risate cessarono all'istante.
Tutti, nessuno escluso, ci sentimmo gelare il sangue nelle vene, e il motivo era semplice: Debora la Palla aveva appena buttato a terra il Capo... non so se mi spiego.
- Vi odio! Tutti quanti! Compresa te, Betta, - disse Debora, fissando con odio la bambina con i capelli lunghi che se ne stava seminascosta vicino a Tonio il Rosso. La Betta era l'unica che, qualche volta, giocava con lei anche quando non era strettamente necessario. - Tu che fai finta di essere mia amica ! Ti odio ! Te più di tutti gli altri!
Carmine si rialzò da terra, spolverandosi i calzoni in tutta fretta. Era ferito nell'orgoglio: un capo non poteva lasciar passare certe cose. Si avvicinò a Debora e la guardò negli occhi. Nessuno di noi osava fiatare.
Se devo essere sincero, mi aspettavo che Carmine la picchiasse. Invece si limitò a guardarla, e Debora ricambiò lo sguardo: rimasero cosi per un istante eterno, fronteggiandosi immobili in uno scontro di volontà ferite. - Questa me la paghi, - disse infine lui a mezza voce. - Sta' sicura che me la paghi -. Poi si voltò e tornò verso di noi.
- Non me ne faccio niente di voi, - ripetè Debora, ma ormai il suo momento era passato. Anche lei doveva essersene resa conto, perché si incamminò verso il portone del suo palazzo lentamente, a testa bassa, senza più nemmeno tentare di guardarci in faccia.
Quando fu a una decina di metri di distanza, però, le arrivò un'altra stoccata. - Guardate, - disse la Betta con una vocina resa stridula dalla perfidia, - ha il culo cosi grosso che ci sono rimasti stampati i numeri della campana!
Era vero. Purtroppo per lei, era proprio cosi: sui quadrettoni bianchi e rossi del suo immenso vestito spiccavano un 3 e un 4 rovesciati. E io, mi vergogno a dirlo, oltre a unirmi alle risate fragorose degli altri, provai anche una soddisfazione selvaggia e primordiale nel vederla cosi assolutamente, definitivamente sconfitta; un pugno di sadico piacere mi serrava la bocca dello stomaco, spingendomi a gridarle cattiverie sempre più feroci e a ridere, ridere, ridere con quanto fiato avevo in gola.
Maria sparecchia la tavola, portando via i piatti senza che il marito stacchi gli occhi una sola volta dalla «Gazzetta dello Sport» che tiene spiegata davanti a sé. Quando gli passa davanti per togliergli il piatto, urta il giornale e lui, senza nemmeno guardarla, impreca: - E stai attenta, che cazzo !
Ha capito subito, non appena lui è entrato in casa poco più di un'ora prima, che quella sarà una serata da dimenticare. L'ha capito dall'assenza di luce nello sguardo aggrottato sotto le sopracciglia nere e cespugliose, dalla barba non rasata, dall'alito puzzolente di alcol che le ha già spiegato a sufficienza dove sia stato durante quell'ora e mezza in cui lei e Debora l'hanno atteso in silenzio, guardando di sottecchi la zuppa di cipolle che si raffreddava nei piatti.
Ha fatto mangiare Beba nonostante l'assenza del padre e l'ha mandata subito a letto. Non le importa che lui a tavola esiga la famiglia al completo: oggi ha deciso di rischiare, e non vuole che la bambina sia presente quando ciò che deve iniziare finalmente inizierà.
Lui, invece, non ha detto niente: si è seduto a mangiare e si è perso nella lettura del giornale. Senza un suono, senza un saluto. Niente. Una qualsiasi altra volta, Maria ne sarebbe stata persino sollevata, ma non oggi... non dopo aver visto l'ago della bilancia portarsi tra il 90 e il 95 quando ci ha fatto salire Beba poco prima di cena.
La bambina ha bisogno di essere visitata, e ne ha bisogno subito. E privatamente, perché con la mutua c'è da aspettare almeno due mesi... ma per una visita privata ci vogliono soldi, e tutto il denaro in pivi che gira per casa (poco, per la verità) lui se lo va a bere da qualche parte o lo spende con qualche puttana.
No. Oggi no. Oggi deve parlargliene.
Cosi affronta il marito, partendo da lontano. - Dove sei stato per arrivare cosi tardi ? - gli chiede, adoperando il tono più neutro e colloquiale che le riesce di trovare.
Lui sposta lo sguardo direttamente dal giornale a lei, fissandola con aria stupita. - Che cosa hai detto ?
- Ti ho chiesto dove sei stato, - ripete Maria, cercando di assumere un tono più deciso.
Non funziona molto bene: lui continua a guardarla con stupore crescente. - E da quando ti sei messa a ficcare il naso nei cazzi miei ?
Nonostante Maria non si aspettasse certo una risposta gentile, la violenza insita nel tono di voce del marito la fa sussultare. In lei compare immediatamente quello che ormai è un riflesso condizionato all'ira di lui: la paura. Le sue mani si ricoprono di una patina di sudore gelido, il cuore le balza in petto, le sue pulsazioni accelerano.
- Vincenzo, - riprende sforzandosi di nascondere il tremito che le vibra nella voce, - Beba ha bisogno di una visita specialistica... non può più andare avanti cosi. Pesa novantacinque chili. Non possiamo aspettare la mutua.
Lui non dà mostra di averla ascoltata. - Non hai risposto alla mia domanda, donna. Da quando ti vieni a fare i cazzi miei ?
Prima che Maria possa rendersi conto di ciò che sta facendo, la sua bocca si è già aperta e le parole sono già uscite: impossibile riportarle indietro. - Da quando Beba ha ripreso a ingrassare e tu spendi tutti i soldi che abbiamo per andare a ubriacarti con quei delinquenti deivtuoi amici !
E terrorizzata da ciò che ha appena detto, si, ma al tempo stesso ha la sensazione di essersi finalmente liberata da un macigno che le pesa sulle spalle da tanto, troppo tempo. La leggerezza e il senso di sollievo che la pervadono sono tali da impedirle di registrare la patina di ghiaccio che scende sullo sguardo del marito, la furia ottusa che nuota sotto quel sottile strato di freddezza.
Con gesti rabbiosi, Debora si affrettò a togliersi di dosso la polvere di gesso, ma ormai si era rovinata l'uscita: avevamo ricominciato a ridere tutti, e a quel punto niente e nessuno avrebbe potuto fermarci.
- Non mi vedrete più qui ! Mai più ! Non tornerò mai più da voi ! Non me ne faccio niente di voi ! Io ho chi mi vuole! Me ne andrò via con l'uomo che vola, avete capito ? Non me ne faccio niente di voi deficienti!
Non credevamo alle nostre orecchie. - Chi è che ti porterà via? L'uomo che vola? Oddio... - Le risate divennero assordanti. C'era addirittura qualcuno (non ricordo chi, forse il piccolo Edoardo) che si rotolava per terra tenendosi la pancia... o forse esagero, ma comunque non è questo il punto: il fatto è che non era la prima volta che Debora la Palla tirava fuori quella storia. Niente di male, per carità: tutti i bambini, si sa, hanno una fantasia preferita e ricorrente, qualcosa a cui si affidano nei momenti di sconforto o in quelli di gioia e che custodiscono come il più prezioso dei segreti. Debora, però, nella sua ottusa ingenuità, era stata tanto stupida da lasciarselo sfuggire e questo, in un gruppo dalla struttura gerarchica come il nostro, basato sulla durezza e sulla virilità dei due capi, era un errore che, semplicemente, non poteva esserle perdonato. La prima volta l'avevamo presa in giro per settimane, tormentandola e stuzzicandola ogni minuto di ogni ora di ogni giorno finché un pomeriggio, esasperata e demolita dal continuo stillicidio di risatine e di sfottò, era scappata a casa in lacrime e non si era fatta vedere per un mese. E ora ci offriva nuovamente il fianco.
Ricordo perfettamente di averla odiata, in quel mo mento: ebbi la netta impressione che lo stesse facendo apposta, quasi volesse attirare su di sé lo scherno e la ferocia del gruppo per immergersi fino in fondo nel fango dell'umiliazione. Ridevo insieme agli altri, sì, ma era come se mi sentissi ridere da un chilometro di distanza: dentro di me, avrei voluto prenderla a schiaffi e gridarle perché, maledetta ? Perché ci costringi a fare questo?
- L'uomo che vola... ma l'avete sentita? - sbottò Carmine. - Ma ce la fa, il tuo uomo volante, a decollare con te sulle spalle ?
Le risate divennero selvagge. Franco e Tonio il Rosso cominciarono a correre in cerchio con le braccia larghe, imitando con la bocca il rumore degli aeroplani.
Debora rimase immobile a guardarci, poi si voltò e riprese a camminare verso il portone. Non ricordo chi fu il primo a far partire il coro e non credo nemmeno che abbia molta importanza: so solo che, prima ancora che avesse avuto il tempo di fare un passo, avevamo già cominciato a scandire la nostra cantilena.
- Cac-cia-pal-le, cac-cia-pal-le, cac-cia-pal-le... Debora entrò nell'androne sporco e si chiuse la porta alle spalle.
Notai immediatamente l'occhiata che si scambiarono Carmine e Franco e, senza nemmeno sapere perché, sentii un brivido correre lungo la spina dorsale. Tentai immediatamente di abbassare lo sguardo, ma non feci in tempo: mi avevano visto. Carmine mi guardò e, con un brusco movimento del capo, mi fece cenno di seguirli, poi parti con passo deciso verso il portone.
A questo punto, credo, potrei cercare di giustificarmi, potrei dire che non ero in grado di immaginare ciò che sarebbe accaduto... ma mentirei: lo sapevo. Me lo sentivo, era come un'ombra solida che mi premeva dietro gli occhi e mi appesantiva l'inguine, una stretta alla bocca dello stomaco che mi trasmetteva un vago senso di nausea e una strana, perversa eccitazione.
Fu in quel preciso istante, credo, che il mio destino prese un'altra strada. Infinite volte, in seguito, ho cercato di immaginare che cosa sarebbe cambiato nella mia vita se quel giorno mi fossi comportato in maniera diversa; mi sono domandato fino alla nausea se il rifiuto delle donne che ha segnato la mia adolescenza, se le difficoltà nei rapporti con l'altro sesso che mi hanno portato a perdere la verginità quando i miei coetanei avevano già un paio di figli e a sposarmi quasi quarantenne non dipendessero in realtà da ciò che era accaduto dentro di me in quel singolo, brevissimo istante smarrito nel mare di ricordi della mia infanzia. E, nonostante non abbia mai trovato una risposta precisa, una cosa però ho capito: ci sono momenti, nella vita di tutti, in cui le circostanze ci impongono una scelta in grado di condizionare il nostro futuro in modo irrevocabile. Si può andare in una direzione oppure in un'altra, ma non c'è modo di restare fermi, non c'è modo di evitare di decidere. Ebbene, quel giorno io imboccai la direzione sbagliata.
Era la prima volta che Carmine e Franco mi trattavano da pari a pari: con quel breve cenno del capo, Carmine mi aveva offerto l'opportunità di salire al loro livello, di instaurare con loro quella complicità che mi avrebbe immediatamente procurato il rispetto e il timore del resto del gruppo. Era la mia grande occasione e, che Dio o chi per lui possa perdonarmi, mi mossi senza alcuna esitazione e li seguii sulle scale.
- Per il tuo bene faccio finta di non aver sentito, Maria. Non lo fare più. Sono tuo marito e quello che faccio fuori di casa, da che mondo è mondo, sono cazzi miei, - le dice lui con voce terribilmente calma. Un sorriso idiota e innaturale gli stira le labbra, contrappunto malsano alla luce gelida che gli brilla negli occhi. - Fammi il caffè, - ordina tornando a dedicarsi al giornale.
Maria vorrebbe stare zitta, ma non riesce a sopportare ciò che vede: lui si è rimesso a leggere il giornale come se niente fosse. Di Beba non gliene frega niente. Niente. Maria ne è assolutamente certa e, semplice mente, non può e non vuole trattenersi. - Se vuoi il caffè fattelo da solo, - dice.
Lui si alza dalla sedia, fissandola incredulo. Scuote la testa, quasi gli dispiaccia ciò che sta per fare, poi si slaccia la fibbia della cintura. - Maria, hai passato il limite, che cazzo ! - dice con voce pacata e fredda. - Hai proprio bisogno di una bella battuta.
Maria indietreggia. - Starami lontano. Non ti avvicinare. Non ce la faccio più! No... -. Si interrompe per mettere una sedia tra sé e l'uomo, che ora le dà la caccia girando come un predatore intorno al tavolo da pranzo.
Lui butta la sedia di lato con un movimento brusco del braccio, mandandola a sbattere con fracasso contro la parete. La cintura sibila nell'aria.
Ora la sensazione di sollievo è scomparsa dall'animo di Maria. Tutto ciò che rimane dentro di lei, ora, è la morsa fin troppo familiare della paura. La sua voce si incrina, facendosi odiosamente supplichevole. - Vincenzo, pensa alla bambina, ti prego! Ti prego!
Incurante delle sue parole, lui le si avvicina sempre più. La chiude in un angolo, brandendo la cinghia con forza tale da sbiancarsi le nocche.
- Non mi toccare, bastardo ! Prendo la bambina e me ne vado, giuro che me ne va...
La cintura la colpisce in pieno volto e poi si abbatte di nuovo, rapida e feroce. Maria grida, cerca di proteggersi, ma non serve a nulla: con un rapido passo in avanti, lui le è addosso. La afferra per i capelli e la colpisce. Il pugno la coglie sulle labbra e Maria cade a terra, sentendo il sapore amaro del sangue che sale a riempirle la bocca. Prova a rialzarsi aggrappandosi al bordo del tavolo, ma l'uomo cala nuovamente il pugno, colpendola questa volta sul lato del collo. Maria stramazza a terra, portandosi dietro la tovaglia. La bottiglia di vino si rompe sul pavimento.
Nel buio della sua stanzetta, Debora sente il rumore e chiude gli occhi, si tura le orecchie e ficca la testa
sotto il cuscino, cercando di soffocare i singhiozzi per paura che la senta suo padre.
Non appena ci senti arrivare alle sue spalle, gemette e tentò di scappare... vi lascio immaginare con quale esito. Il primo a raggiungerla fu Carmine: sull'ultimo gradino della terza rampa di scale, la afferrò per le braccia e la spinse con forza in avanti, mandandola a sbattere contro la parete scrostata del pianerottolo tra il primo e il secondo piano.
Debora cominciò a piagnucolare, e Carmine la zitti con uno schiaffo. - Smettila, cicciona del cazzo! - sibilò. Poi si voltò verso di me. - Tu guarda se arriva qualcuno, - mi ordinò.
Indietreggiai di un passo, spostandomi vicino alla ringhiera in modo da poter osservare sia sopra che sotto... ma, in realtà, il mio sguardo era incollato a ciò che stava accadendo a meno di un metro da dove mi trovavo. Con le labbra stirate in un sogghigno, Franco premette le mani sulle spalle di Debora, mollandole un feroce calcio negli stinchi per costringerla a inginocchiarsi.
Lei emise un: - No... - appena sussurrato. I suoi occhi avevano smesso di essere bovini, ora: erano sgranati e attenti, vivificati dal terrore che le faceva tremolare incontrollabilmente gli angoli delle labbra. - Ti prego...
Carmine la afferrò per i capelli e la strattonò con forza. - Sta' zitta, grassona! - Senza lasciare la presa, con la mano libera si sbottonò i calzoni e lo tirò fuori. - Se ti muovi, giuro che ti ammazzo, - le disse, poi glielo infilò in bocca e cominciò a spingerlo avanti e indietro.
Io ero come paralizzato. Avrei voluto scappare, avrei voluto voltarmi e andarmene... no, non sto cercando di sembrare migliore degli altri due, ve lo assicuro; il mio non vuole essere affatto un tentativo di giustificazione, anzi. Volevo scappare, questo si, ma non per l'indignazione o per il disgusto, no... volevo scappare per l'imbarazzo, per la vergogna di trovarmi di fronte al più grande tabù della mia generazione, quella cosa di cui ai miei tempi non si parlava se non di nascosto e a mezza voce, storditi da un miscuglio letale di eccitazione e senso di colpa. Per questo e soltanto per questo.
Avrei voluto fuggire, dicevo. Invece, profondamente affascinato dalla scena che si stava svolgendo davanti ai miei occhi, rimasi a guardare il cazzo di Carmine che entrava e usciva con frenesia crescente da quella bocca imbrattata di succo di lecca-lecca... e, piano piano, dalla passività rassegnata con cui Debora la Palla accettava dentro di sé quel corpo estraneo, dal modo in cui teneva gli occhi serrati senza emettere alcun suono, dalla lentezza con cui le lacrime le scivolavano sulle guance, capii che quella non era la prima volta che qualcuno la costringeva a fare una cosa del genere.
Mi sentii vacillare. Mi aggrappai al corrimano, con la testa che mi girava e il cuore che mi sfarfallava in gola. Quando Carmine ebbe finito, fu la volta di Franco.
E poi, come era inevitabile...
- Adesso tocca a te, - mi disse Carmine.
A questo punto, in tutta sincerità, i miei ricordi si fanno un po' confusi. I particolari perdono consistenza, stemperati nella rabbia... anzi, nella ferocia che mi sentivo crescere dentro via via che mi avvicinavo alla faccia ottusa e stolida di quella vittima fin troppo perfetta. L'imbarazzo che avevo provato fino a poco prima era scomparso senza lasciare traccia. Non mi importava più di niente, ora: volevo soltanto umiliarla, degradarla, farla precipitare ancora più in basso... il desiderio di sopraffazione mi premeva nel ventre, e non vedevo l'ora di liberarlo.
Non sapevo bene come comportarmi: non avevo mai fatto nulla di simile in vita mia. Cosi lo tirai fuori, glielo ficcai tra le labbra e tentai di imitare i movimenti dei due amici che mi avevano preceduto. Quando sentii Debora che cominciava a ciucciare, qualcosa di enorme e oscuro mi nacque dentro, partendomi dalla base della spina dorsale e allagandomi tutte le terminazioni nervose, dalla punta dei piedi alla radice dei capelli. Non capii più nulla: cominciai a muovermi con violenza, aggrappandomi alle ciocche unte che le pendevano ai lati del viso per tenerla ferma, del tutto incurante della sua testa che sbatteva ritmicamente sull'intonaco crepato e ammuffito del pianerottolo. Vedevo quella parte di me, quell'appendice che fino a quel momento non avevo mai toccato se non per lavarmi, entrare e uscire dalla sua bocca umida, vedevo le lacrime che le scorrevano fino al mento e poi si fermavano nella peluria appena accennata del mio inguine, vedevo i suoi foruncoli farsi sempre più rossi, sempre più congestionati... e intanto sbattevo, sbattevo, sbattevo... sbattevo il bacino in avanti, sempre più forte, sempre più rapido, sempre più violento. La sensazione crebbe, e per un attimo ricordo di aver pensato che stavo per morire. Poi, con un sussulto, riversai il primo orgasmo della mia vita nella bocca bollente di pianto di Debora la Palla.
- Diglielo anche tu, avanti, - mi incitò Franco mentre le serrava le guance con forza per impedirle di aprire le labbra. - Dai!
E io, stordito e ubriaco di cattiveria, con il mio cazzo già moscio di preadolescente ancora fuori dai pantaloni corti, mi chinai su gambe che mi sembravano di gelatina e le dissi ciò che le avevano detto Franco e Carmine quando era stato il loro turno: - Ingoia tutto, puttana.
Debora, continuando a piangere quelle sue lacrime grosse e silenziose, strizzò gli occhi con forza come si fa un attimo prima di ricevere uno schiaffo, e deglutì.
- Te l'avevo detto che te l'avrei fatta pagare, brutta cicciona, - le disse Carmine. Debora si lasciò andare contro la parete, le spalle abnormi scosse da singhiozzi muti e disperati.
La prendemmo un po' a calci e poi ce ne andammo, ridacchiando e dandoci grandi pacche sulle spalle. Carmine e Franco non mi avevano mai trattato con tanta familiarità, e la cosa mi riempi di orgoglio.
Adesso ero uno di loro.
- Guarda che cosa hai fatto, troia, - le grida lui, ritmando le proprie parole con i calci che le fa piovere nelle costole e sui fianchi. - Dovrai anche pulire, dopo! -Abbatte di nuovo la cintura, più volte, colpendola sulle braccia che lei ha sollevato per proteggersi il volto.
Maria singhiozza disperata, respirando la polvere del pavimento e l'odore nauseabondo del vino rovesciato. Pensa soltanto a ripararsi dai colpi che le grandinano sul corpo da ogni direzione.
Con un ultimo grido, lui le balza addosso e la schiaccia sotto di sé con tutto il suo peso, poi la afferra per i capelli e la costringe a guardarlo. Maria sente la puzza del suo alito e chiude gli occhi. - Guardami! - le grida lui. - Guardami, puttana!
- Vincenzo... ti prego...
Lui le apre la vestaglia, colpendola ripetutamente sulla testa con la mano libera, poi le strappa le mutande.
- No! No! Vincenzo, ti prego... no!
-Sta' zitta, troia! - Facendo leva con le ginocchia, le divarica le gambe a forza. - Ora apri le cosce e fai quello che vuole tuo marito.
Maria smette di divincolarsi. Non ha più la forza di reagire. Singhiozzando e inghiottendo sangue dalle labbra spaccate, rinuncia a opporre resistenza e lo lascia fare.
Il Rumore arrivò quella sera poco dopo le dieci.
Per una di quelle coincidenze assolutamente fortunate, ero riuscito per la prima volta a strappare a mio padre il permesso di scendere in cortile dopo cena, cosa che di solito mi era proibita. Non dico che se fossi rimasto a casa avrei perso tutto il prestigio che mi ero guadagnato in modo tanto meschino quel pomeriggio, ma di sicuro non sarebbe stata la stessa cosa.
Eravamo noi tre; io, Franco e Carmine. Era andata esattamente come mi aspettavo: ero uno di loro a tutti gli effetti, ora, abilitato a partecipare in qualità di
complice a tutte quelle attività semiclandestine che erano prerogativa dei veri capibanda. La prima boccata della Nazionale che Franco mi aveva offerto da un pacchetto sbiadito e cincischiato mi si era ingrippata in gola come una lisca di pesce ma, sforzandomi fin quasi a soffocare, ero riuscito miracolosamente a non tossire e a non perdere la faccia.
Ora, nella vertigine euforica dell'intossicazione da nicotina, me ne stavo seduto per terra a guardare il cielo insieme agli altri due, con la schiena appoggiata alla finestrella della cantina dalla quale eravamo appena usciti.
- Certo che farselo ciucciare dalla Betta dev'essere un po' meglio, - disse Franco.
Carmine scosse la testa. - Lascia stare. Quella è roba di Tonio il Rosso.
- Che cazzo dici! - sbottò Franco. - Come fai a saperlo ? - Parlava sempre cosi, Franco, facendo domande senza inserirvi alcuna intonazione interrogativa. Teneva sempre le labbra strette, da duro, e sembrava che le parole gli uscissero dalla bocca quasi per sbaglio.
- È vero, - dissi io, felice di poter dare il mio contributo alla conversazione. - Quando giochiamo a nascondino, quei due si infrattano sempre insieme. Tonio una volta mi ha detto che lei gli ha fatto una sega, - conclusi con aria saputa. Mi sentivo come se, dopo quel pomeriggio, il sesso per me non avesse più alcun mistero.
- Be', comunque, una volta o l'altra...
Franco non ebbe il tempo di finire: il tonfo arrivò da dietro l'angolo del palazzo, possente e incredibile, troncandogli la frase a metà.
Nonostante nei mesi e negli anni che seguirono sia stato proprio quel rumore a svegliarmi ogni notte di soprassalto, lasciandomi boccheggiante e ricoperto di sudore gelido nel letto della camera che dividevo con il mio fratellino più piccolo, nonostante sia proprio quel rumore che da qualche tempo a questa parte ha ricominciato a interrompere i miei incubi di uomo di mezza età, so già che non sarò in grado di descriverlo con la precisione necessaria per farvelo anche soltanto immaginare. Fu come se qualcuno avesse appena scaricato dal cielo un camion di angurie. La terra tremò, ma non fu un terremoto vero e proprio; fu piuttosto una vibrazione sorda che si ripercosse nelle nostre spine dorsali con la lentezza ineluttabile di un brivido, quasi che Godzilla avesse scelto proprio il Cortile del Sole per muovere il suo primo, ciclopico passo fuori dallo schermo del cinema dell'oratorio, dove la domenica pomeriggio seguivamo le sue terribili gesta succhiando rotelle di liquirizia e lanciando palline di carta tra i ca*; pelli delle bambine.
Si era fatto precedere da un sibilo sordo (uno di quei suoni innocui della cui presenza ci si rende conto soltanto quando cessano all'improvviso) e poi, una frazione di secondo più tardi, era stato completato da una raffica umida e in un certo qual modo densa, come se qualcuno avesse lanciato in cortile un gavettone pieno di melassa. Ma la sua qualità principale, quella che mi fece gelare il sangue nelle vene prima ancora che la parte conscia del mio cervello avesse il tempo di registrarlo come realmente accaduto, si può riassumere con il termine che ho adoperato in una delle prime pagine di questo mio racconto: definitivo. Qualsiasi cosa l'avesse prodotto, sicuramente non sarebbe stata più la stessa, dopo un simile urto... Ve lo dico io... io che quel rumore lo sento ancora e lo sentirò per il resto dei miei giorni... io che a volte, nei momenti peggiori, non posso fare a meno di pensare che quel rumore sarà l'ultima cosa che sentirò prima di andare all'altro mondo.
- Che cazzo è stato ? - disse Franco.
Ci alzammo e corremmo a vedere. Quando voltammo l'angolo del palazzo, ci bloccammo come se qualcuno ci avesse inchiodato i piedi al selciato. La prima sensazione che avvertii fu la cena che mi saliva prepotentemente in gola, reclamando una via d'uscita. Vacillai e, stringendo i denti, riuscii a non vomitare. Franco ebbe meno fortuna: si voltò dall'altra parte di scatto, pallido come un cencio. Udii i conati che gli squassavano lo stomaco, ma non lo guardai... perché, semplicemente, non potevo: io e Carmine fissavamo come paralizzati lo scempio che imbrattava il cortile, assolutamente incapaci di distogliere lo sguardo.
Era Debora la Palla. O meglio, la sua parte posteriore, resa inconfondibile dai polpacci enormi e dal cu-lone colossale. La parte anteriore del suo corpo si era fusa con il selciato: sembrava quasi una statua pronta per essere tirata fuori dal calco di gesso. C'era sangue ovunque, e quando dico ovunque intendo proprio dire ovunque: sul muro del palazzo, sul vetro smerigliato del portone, sulla colonnina dell'Enel... e poi per terra, raccolto in una pozza viscosa e tentacolare che si allargava lentamente sul cortile, spingendo le sue propaggini nel buio come un polipo che si distende sul fondo del mare. Frammenti perlacei di tessuto cerebrale galleggiavano nel liquido rossastro, allontanandosi pigramente dal cranio sfondato.
Passò del tempo, non saprei assolutamente dire quanto. A un certo punto, mentre già la gente cominciava a gridare dalle finestre, Carmine voltò le spalle al corpo e, parlando a mezza voce, disse: - Minchia che schifo.
Adesso potrei anche raccontarvi di averlo preso a sberle, o di averlo mandato a fare in culo. No, mi dispiace, niente di tutto questo. Mi limitai a voltarmi verso di lui e, quando vidi la sua espressione disgustata, mi strinsi nelle spalle e non dissi assolutamente nulla.
Mi incamminai lentamente verso il portone del mio palazzo, perché sapevo che, quando fossero scesi i genitori di Debora, non sarei riuscito a guardarli in faccia.
Nella sua cameretta, Debora apre gli occhi e si toglie le dita dalle orecchie. Cautamente, emerge da sotto il cuscino.
La casa è silenziosa.
Scosta le cooerte e anoossia un Diede sul pavimento. La gamba che vede sporgere dal letto è grassa, brutta, sgraziata; la pelle è tesa e bianca, come se stesse per scoppiare.
Al buio, attraversa la stanza e si avvicina alla finestra.
Lui è li, bellissimo, più bello di un divo del cinema. Fluttua oltre i vetri della cameretta e le sorride, felice di vederla.
Timidamente, Debora afferra la maniglia e la tira verso di sé. Lui le porge la mano. Debora accetta l'aiuto e si issa sul davanzale. Rimane in piedi per un istante, godendosi l'aria della sera che le asciuga il sudore dalla pelle martoriata dall'acne, poi si sporge in avanti e, sorridendo, sale sulla schiena dell'uomo che vola.


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