Tales of Mystery and Imagination

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Luigi Capuana: Storia fosca

Luigi Capuana


- Tu menti! - urlò il barone.

Era pallido come un morto, tremava tutto e fulminava cogli occhi il vecchio servitore che gli stava davanti, pallido anche lui, la testa bassa, il viso pieno di lagrime.

- Eccellenza!

E il vecchio giungeva le mani, in atto di preghiera.

Ma il barone si era slanciato sulle pistole posate sopra un tavolino:

- Confessa che hai mentito! Confessa che hai mentito! - Soffocava, dalla rabbia.

Il vecchio portò le mani al viso, senza indietreggiare, senza difendersi: - Aveva detto la pura verità! Abbiamo un'anima sola; non voleva dannarsi! -

Allora il barone sentí cascarsi le braccia; e guardava attorno, smarrito: - Non credeva ancora alle sue orecchie! -

La camera era inondata di luce. Per le aperte invetriate un sorriso di verde, un profumo di primavera irrompevano follemente dal giardino della villa. Il cinguettio dei passeri sul tetto e fra gli alberi, lo schiamazzo delle galline e dei tacchini nella corte, l'allegro abbaiare dei cani echeggiavano per la volta come un coro di festa, un'irrisione in quel punto.

Il barone aveva posate le pistole sul tavolino, macchinalmente, barcollando, e si passava le mani sulla fronte bagnata d'un sudore ghiaccio.


Gli pareva di ammattire; provava un dolore di morte; il cuore gli si schiantava! - Ma aveva proprio veduto, coi suoi occhi?

- Sí, eccellenza, con questi occhi!

- Coi tuoi occhi? -

Giuseppe con una mano sul petto spingeva le pupille in alto: - Giurava al cospetto di Dio!

- Era orribile! -

Il barone si torceva le dita, passava la lingua sulle labbra inaridite ad un tratto e guardava per terra di qua e di là, senza sapere quello che si facesse. Non avea piú forza di parlare; e interrogava insistente, collo sguardo, il servitore che esitava: - Sí, sí, ogni volta che il signor barone era andato in Palermo o era rimasto a dormire in villa al tempo della vendemmia e del raccolto delle ulíve. Non si era risolto a parlare per paura di non esser creduto... Ah, lo aveva ben detto lui che la baronessa era troppo giovane pel signor barone! -

Il barone piangeva come un fanciullo, colle gomita appoggiate a un mobile, colla testa fra le mani: - Era orribile! Era orribile! Imbecille! Doveva prevederlo! La colpa era tutta sua, imbecillone! Ah, certo il diavolo gli avea suggerito di rimaritarsi! -

Il sangue gli montava a fiotti alla testa e gli sconvolgeva il cervello. Terribili progetti di vendetta gli si abbozzavano nella mente, uno sopra l'altro, alla rinfusa, gli davano il capogiro; e dimenticava il vecchio Giuseppe che singhiozzava in un canto.

- Grazie! - gli disse, facendo uno sforzo per ricomporsi e asciugandosi gli occhi.

- Voscenza deve perdonarmi! Avevo rimorso a star zitto. Ed ora... che farà voscenza? Non si danni l'anima, non si danni l'anima ! Lo mandi lontano...

- Mio figlio!... Mio figlio! - mormorava il barone, cacciandosi le mani fra i capelli.



Il barone Russo-Scaro era sui quarantanove anni quando avea sposato Cecilia di Pietranera appena di ventidue. - Tu commetti una grande sciocchezza - gli disse suo zio l'abbate di San Benedetto.

- Cecilia è la bontà in persona - avea risposto il barone.

- Sarà sempre una matrigna...

- Giorgio ha quindici anni. Per ora è in collegio: poi verrà l'università; poi daremo moglie anche a lui...

- Ma tu non sei piú un giovane...

- Sono ben conservato! -

Nel viaggio di nozze erano stati scambiati per padre e figlia; ma il barone avea dimenticato subito quella cattiva impressione. Cosí il primo anno del loro matrimonio era passato tranquillamente.

La baronessa amava vivere ritirata. Era seria, quasi triste; e il marito non sapeva che cosa inventare per distrarla. Innamorato, voleva farsi perdonare la sua età col mezzo d'altri compensi: e le profondeva regali.

- Ancora? - esclamava la Cecilia ad ogni nuova sorpresa del marito.

- Non era mai abbastanza! -

E la baciava sulla fronte.

Un desiderio lo tormentava:

- Se avesse avuto un figliuolo da lei! Oh, allora soltanto gli sarebbe parsa proprio sua! Ma il figliuolo non veniva.

- Meglio! - esclamava lei quando il barone toccava malinconicamente questo tasto. - Non avevano Giorgio?

- Sí, sí, ma è tutt'altro! - rispondeva quello sospirando.

Infatti la loro casa non era allegra: vi mancava un raggio di sole.

Lei passava le giornate divorando romanzi e libri di viaggi. Non amava il marito, ma non provava ripugnanza di trovarsi sua moglie. I suoi parenti avevano voluto cosí e lei aveva ubbidito, senza che questo le costasse nulla. Certe volte sentiva svegliarsi dal fondo del cuore un sentimento indefinito, qualcosa che lei stessa non arrivava a capire, un bisogno, un'irrequietezza, una smania; ma confondeva il malessere dello spirito col malessere fisico, e consultava il dottore. Il dottore ci perdeva il latino:

- Nervi! -

Le sue ricette non approdavano a nulla.



- Sai? Giorgio torna in famiglia - annunziò una sera il barone.

Cecilia non mostrò né piacere, né dispiacere, ma una leggiera sorpresa:

- Ah! -

Il barone avea creduto che il ritorno di Giorgio non le fosse gradito e per iscusarlo s'era affrettato ad aggiungere:

- È un po' ammalato. I medici consigliano qualche mese d'aria nativa.

- Gli farà bene, certamente -. Lei continuava a leggere, distratta.

Il barone si sentiva sulle spine; quell'indifferenza lui la prendeva in mala parte.

- Quando? - domandò la baronessa dopo qualche minuto di silenzio.

- Presto.

- Bisognerà preparargli le stanze...

- Andremo in villa. L'aprile e il maggio li passeremo là. Ti dispiace?

- Anzi! -

Il barone si era sentito togliere un gran peso dal petto.



La villa del Gelso Nero era deliziosamente situata in mezzo a quel giardino di aranci, malgrado che non fosse molto bella con quel casamento a due piani. Dietro la siepe di nespoli del Giappone, di pomi e di peri che circondava la spianata, gli agrumi affacciavano le loro cime luccicanti, di un verde bronzino. L'aria era tutta imbalsamata del profumo della loro zagara.

Nei primi giorni la baronessa e il figliastro si eran trattati con un po' d'impaccio. Giorgio non sapeva adattarsi a chiamare mamma una matrigna cosí giovane; a lei non riusciva di chiamarlo semplicemente Giorgio, e gli dava del «baronello».

Facevano lunghe passeggiate, a piedi o a cavallo, insieme al barone. Qualche volta andavano anche soli, quando il barone s'intratteneva a dare un'occhiata ai lavori dei calabresi che sterravano la vasca. Cosí in meno di due settimane l'impaccio fra matrigna e figliastro era stato vinto. Già si davano del tu, e il barone n'era lietissimo.

Giorgio, gracile, bianco, pareva un fanciullo addirittura, con quei capelli d'un biondo cinericcio e quella straordinaria dolcezza dello sguardo. Però la sua voce, armoniosa, femminile, turbava la baronessa. Sentendolo parlare lei lo guardava fisso. Tanta gentile freschezza le ridestava, tumultuosamente, le sue prime sensazioni di ragazza. Fremiti deliziosi le correvano per tutta la persona; il cuore le si gonfiava.

Quando passavano la mattina nell'uliveto, sul prato smaltato di fiori e dorato dal sole, o in giardino - lui sdraiato bocconi fra l'erbe, all'ombra di un magnifico albero di arancio; lei seduta al suo fianco sul cuscino che Giorgio portava apposta - intanto che questi leggeva ad alta voce, con una monotonia d'inflessioni efficacissima, la Cecilia stava ad ascoltarlo lavorando all'uncinetto. Di tanto in tanto quei suoi begli occhi neri lampeggiavano fra l'ombra dei rami; poi restavano assorti in un punto lontano.

- Sai che in collegio t'odiavo? - le disse Giorgio una volta sbucciando un'arancia.

- Davvero? E perché?

- Mi ero figurato che fossi brutta. Invece...

- Sono meno brutta che non ti immaginavi?

- Sei bella! -

Glielo aveva detto sinceramente, con un'ammirazione di fanciullo, continuando a sbucciare.

La baronessa s'era alzata, e preso il libro messo a cavalcioni di un ramo, lo sfogliava inoltrandosi lentamente pel viale. Giorgio andò a raggiungerla per offrirle l'arancia.

- No, grazie.

- Metà almeno!...

- No, non ne aveva voglia.

- Almeno uno spicchio!

- No -.

E sorrideva, guardandolo negli occhi, stranamente intenerita.

Giorgio le si era piantato dinanzi, porgendole lo spicchio presso la bocca, insistendo

- Metà -.

Cedeva, per compiacerlo. Giorgio mangiava l'altra metà: - Come era dolce! -

E assaporava.

- Via, lasciami leggere - disse la baronessa impallidita.



Ma quel ragazzo non s'avvedeva di nulla. Trovata in casa non un'intrusa ma una sorella, anzi qualche cosa di piú, un'amica, si sentiva felice.

- Beata giovinezza! - esclamava Cecilia nel suo interno. Però non si mostrava sempre del medesimo umore con lui. Certe volte mutava da un momento all'altro, dalla dolcezza a un tono brusco.

- Ha i nervi - diceva Giorgio a suo padre.

- Ti senti forse male? - le domandava il barone.

- No; perché dovea sentirsi male?

- Giorgio mi ha detto: «Cecilia ha i nervi» -.

La baronessa abbassava la testa e aggrottava le sopracciglia.

Il barone interpretava quell'atto a modo suo: ci vedeva lo stesso dolore che tormentava lui, il desiderio smanioso di quel frutto della loro unione che tardava tanto a venire!

- La presenza di Giorgio doveva essere una continua irritazione di quel sentimento, un'offesa, involontaria, alle legittime esigenze di quel cuore! Lo capiva, pur troppo! Ma chi ne avea colpa?... Ora che suo figlio s'era rimesso in salute, poteva ritornare in collegio. Intanto, c'era ancora da sperare! -

Ma quando partecipò la sua risoluzione alla baronessa, questa si oppose: - Quel ragazzo era ancora sofferente. Perché tanta fretta di mandarlo via? Voleva far sospettare che lei, la matrigna, cercasse di tenerlo lontano? Le vacanze erano prossime. In ottobre Giorgio sarebbe stato rimesso del tutto...

- E lui che credeva di farle piacere! Com'era lieto di scoprire che si era ingannato!



In città la vita della Cecilia e di Giorgio scorreva piú monotona. La lettura, il pianoforte potevano svagarli per qualche ora. Le giornate parevano eterne! La sera, durante la solita passeggiata pel viale alberato, fuori il dazio, mentre il barone giocava a' tarocchi nel casino di convegno, Giorgio diceva delle barzellette, osava delle confidenze come ad un camerata. Una sera le raccontava la storia di un suo amoruccio a dieci anni, una vera fanciullaggine.

- E poi?

- Poi?... Nulla - aveva risposto Giorgio.

Lei gli si era aggravata sul braccio camminando a passi lenti, muta, cogli occhi fissi nel cielo stellato. Poi aveva lasciato il braccio per ficcare le mani nelle maniche della mantiglia con un gesto di freddolosa, e avea avuto il capriccio di andar quasi di corsa; poi si era fermata a un tratto: - Voleva tornare a casa. La serata era troppo fresca... Sentiva dei brividi...

- Faceva caldo invece!... -

E in casa si era svestita in fretta ed era andata a sedersi sul terrazzino, colla testa appoggiata al ferro della ringhiera, cogli occhi socchiusi, dondolando la seggiola.

- Ninna, ooh! Ninna ooh! - cantava Giorgio, ridendo, agevolando colla mano quel dondolamento. - Ninna, ooh! -

Al lume di luna che cadeva a sbieco dalla cornice della casa, i capelli di lei e la mano appoggiata sulla sbarra della ringhiera risaltavano luminosi; il resto della figura si velava nell'ombra: e in quell'ombra il bianco dei suoi denti brillava fra le labbra semiaperte a un sorriso.

- Ninna, ooh!

- Giorgio, stai fermo! stai fermo! -

E tentava fiaccamente di trattenergli la mano.

Ma Giorgio non smetteva, da ragazzo imbizzito. All'ultimo, improvvisamente, le soffiava sul viso e scappava. Cecilia s'era rizzata d'un colpo, come se quel soffio l'avesse frustata. Si mordeva le labbra, si passava le mani sui capelli, col petto che le si sollevava. Giorgio, battendo le mani, rideva in fondo alla stanza, nel buio.



Il barone era andato a Palermo; ed essi avevan seguitato a fare il chiasso per gli appartamenti, rincorrendosi, nascondendosi dietro agli usci, proprio come due ragazzi, appena si sentivano stanchi di leggere o seccati di suonare.

Due volte erano anche andati al Gelso Nero in carrozza, per poche ore, il tempo di fare una giratina pel giardino degli agrumi e di perdersi sotto gli archi a sesto acuto dell'uliveto o sotto il pergolato che attraversava la vigna. Tornando, sul tardi, la Cecilia si rannicchiava in fondo alla carrozza, muta, guardando fissamente Giorgio con certi sguardi divoratori, quando lui non poteva vederla: e di tratto in tratto aveva certe scossettine nervose che le facevano strizzar gli occhi e scuoter la testa.

Giorgio, rincantucciato nel lato opposto, non pensava a nulla; e se si voltava verso la matrigna e incontrava la punta acuta degli sguardi di lei, sorrideva a fior di labbra con puerile compiacenza, senza sottintesi. Allora sorrideva anche lei, tristamente, e stendeva la mano ad accarezzargli la bionda capigliatura che gli si arruffava sulla fronte d'avorio, con una carezza da mamma; e il suo polso batteva piú celere e la sua mano, piccola e bianca, tremava.

In uno di questi ritorni Giorgio, destandosi dalla sua indolenza, le avea detto:

- Domenica avrò diciassette anni; divento quasi un uomo -.

La Cecilia lo aveva guardato come se queste parole significassero chi sa che cosa:

- Diciassette anni!



E la settimana dopo erano andati di nuovo al Gelso Nero, questa volta a cavallo. Era una giornata d'estate, col cielo leggermente nuvoloso, piena di tepori. Ma verso sera, quando essi già si apparecchiavano a ritornare, aveva cominciato a venir giú un'acquerugiola fina fina che sembrava un gran velo di tulle steso contro il sole al tramonto.

- Pioggia d'estate! - disse Giorgio osservando il tempo dalla finestra.

La baronessa guardava il cielo e la campagna, muta, colla fronte corrugata, colle labbra strette, gustando quel sordo e carezzevole rumore della pioggia sul fogliame che luccicava, agitato lievemente dal vento. Lontano, lontano, brontolavano i tuoni: il temporale s'avvicinava, preceduto da lampi.

I cavalli, insellati, nitrivano e scalpitavano sotto la tettoia della stalla. Ma la pioggia avea continuato a venir giú piú fitta. Il sole era già sparito dietro montagne di nuvoli nerastri.

- O dove vuole andare, voscenza? - disse massaro Turi. - Pioverà certamente tutta la nottata -.

La baronessa aveva guardato Giorgio e si erano messi a ridere:

- Che bella sorpresa! -

Anche la massaia era comparsa sull'uscio della stanza col suo grembialone bianco di traliccio: - Doveva accendere i lumi? Preparare i letti? Cuocere un po' di verdura, un filu d'amareddi, per la cena? C'era delle uova fresche; il pecoraio, piú tardi, avrebbe portato la ricotta...

- Oh, bene! Oh, bravo!



Giorgio ruzzava come un bimbo, intanto che la baronessa, addossata alla finestra, mordevasi lievemente la punta dell'indice, cogli sguardi sprofondati nella oscurità a traverso la nera campagna.

I canali scrosciavano sull'acciottolato davanti la casa. Le fiammate dei contadini vi gettavano larghe striscie di luce rossiccia dagli usci aperti del pianterreno, e su quelle passavano di tratto in tratto strane ombre allungate. La voce di Giorgio, sceso un momento giú dagli uomini, scoppiava argentina fra le risate, a riprese. Un cane abbaiava.

Poi Giorgio era tornato su ridendo:

- Che grullo quel boaro! Lo canzonavano tutti. Aveva paura delle Nonne che gli spastoiavano le vacche per farlo arrabbiare! Una notte gli avevano anche impiastricciato quattro ciocche della sua zazzera; se lui le avesse tagliate, sarebbe morto sul corpo. Che grullo!

- E la biancheria da letto? Ah! Gli toccava a dormire sulle materasse belli e vestiti! -

Allora s'eran messi a rovistare pei cassettoni. Finalmente, in fondo a un armadio, avean trovato due paia di lenzuola rimaste in campagna per caso. E rifacevano i letti, chiassosamente. Giorgio strappava il lenzuolo rimboccato; la Cecilia fingeva d'arrabbiarsi: - Com'era strambo! -

E tornavano a rimboccare, ridendo, irrefrenabilmente, abbandonandosi a traverso il letto, l'una di qua, l'altro di là, tenendosi i fianchi, non ne potendo piú. E cosí daccapo nell'altra camera attorno il letto di lui.

La cena era parsa deliziosissima.

- Ghiotti quegli amareddi!

- Squisito quel pane dei contadini! -

Seduti di faccia, coi gomiti sulla tavola e il viso fra le mani, colle ginocchia che si toccavano, perduti in mille discorsi inconcludenti, indugiavano ad andare a letto. Giorgio un po' sonnacchioso, lei cogli occhi foschi, luccicanti, colle labbra umide e piú accese del solito. Parlavano a voce bassa, ad intervalli.

Giorgio si alzò il primo, snodandosi la cravatta, sbottonando la camicia che scoprí il suo collo tornito, piú bianco della spuma, un collo di vergine. Cecilia lo accompagnò fino all'uscio della camera e rimase sí, addossata allo spigolo, mentre lui appostava sbadatamente una sedia a piè del letto.

- Buona notte!

- Buona notte! -

La pioggia veniva giú forte ma uguale, con uno scroscio sordo sordo. Tutta la villa dormiva.

La baronessa cominciò a spogliarsi, lasciando cadere i capelli snodati sulle spalle ignude. Si passava sulla fronte le mani fredde, madide come quelle d'una ammalata. Tutt'a un tratto, cosí come trovavasi, barcollante come una persona ebbra, aveva fatto uno, due passi verso l'uscio... e l'avea aperto, risoluta.



Era stata lei!

Al povero ragazzo non era mai passato pel capo che ciò potesse accadere.

Ah, tutto gli avea preparati!

E avean continuato, insaziabili, come due esseri senza coscienza, come due bruti belli e giovani che tracannavano la coppa della vita, per esaurirla.

Nulla era venuto a turbarli: né cura del presente, né pensiero dell'avvenire.

Una figura, fantasma, non s'era mai rizzato in mezzo a loro! Ogni sentimento era stato soffocato da quel delirio di sensi scoppiato pari a un fulmine in mezzo alla loro serenità gioconda. Lei lo avea fatto tremare sotto la violenza del suo fascino; lui l'avea scossa tutta colla sua carne di fanciullo piú bianca della spuma, fresca, vellutata, colla soavità del suo sorriso, coll'azzurro profondo del suo sguardo; complici: la libera solitudine, la cieca confidenza di chi non poteva neppur sospettare e il cielo e la terra e ogni cosa, in quell'autunno siciliano che ha tutte le seduzioni della primavera con qualche cosa di piú intimo e di piú seducente!



Il pretore, il brigadiere dei carabinieri e due amici erano stati introdotti dal barone in punta di piedi, allo scuro.

Il barone avea acceso un fiammifero; la sua mano, che lo teneva in alto per rischiarare il gran letto nuziale a traverso le cortine, tremava convulsa.

- Per carità, signor barone! Siamo ancora a tempo, sia generoso! -

Il pretore lo scongiurava, stringendogli fortemente le braccia.

- È molto se invoco soltanto la legge! - avea risposto il barone.

Da quella mattina in poi le imposte del palazzo Russo-Scaro non sono state piú aperte, chiuse per un lutto eterno. La villa del Gelso Nero è rimasta anch'essa deserta.

Quando lo zio del barone, il vecchio abbate di San Benedetto, passa per caso davanti quel palazzo che gli rammenta la catastrofe dell'ultimo rampollo della sua famiglia, abbassa la testa, accasciato:

- Se vedete una grande rovina - suol ripetere colla sua profonda amarezza di cenobita - dite pure, senza timore d'ingannarvi, che una donna è passata per lí!

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