Niccolò Ammaniti: Ferro

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Sììììììììì, ancora, mi farai morire cosi, sìììììì, non smettere, sto venendo. AAAHHH.

Spengo il video. 

Spengo la tele.

Carne. Genitali priapeschi. Erezioni. Sudore. Balistiche eiaculazioni.

Tutto quel sesso mi gira in testa e mi frastorna come uno stormo di corvi strepitanti.

Queste cassette mi sfiniscono e stremano.

È oramai solo un rituale introduttivo che cornpio quotidianamente prima di masturbarmi.

Prima guardo la cassetta e poi mi masturbo. 

II film serve solo come antipasto.

Le seghe che mi sparo hanno perso il rigore della realtà per diventare astratte e ispirate a principi complessi, metafisici.

II  bene e il male, la vita, la riproduzione, la duplicazione del DNA, la morte, Dio.

Oggi però ho bisogno di qualcosa di più terreno. 

Vorrei sentire un corpo agitarsi sotto il mio.

Vorrei venire in qualcosa di diverso della mia mano. 

Non vorrei che il mio sperma finisse nel cesso.

Vorrei morire dentro qualcosa che sbatte le gambe. 

Giro per casa indeciso.

Deciso solo ad appagare le voglie torbide che mi si muo­ vono nel cranio come selvatiche fiere alienate dalla cattivita.

Mi faccio una doccia.

L'acqua scorre sul mio corpo, cola in lucide strisce e que­sto invece di placarmi mi eccita ancor di più.

Vecchio babbuino frustrato che non sei altro.


Nella doccia, insieme a me, ci sono donne che mi baciano, mi toccano, mi mostrano i loro attributi sproporzionati come nel più classico dei film pornografici. Donne con seni giganteschi, scuri e terribilmente gonfi.

Ipertrofia della ghiandola mammaria. Palloni di carne. Emiglobi gonfi di silicone. Basta.

Mi vesto.

Prendo un mazzo di banconote.

Spengo tutte le luci.

Scendo in strada. 

Fa freddo.

Monto sulla mia FIAT Croma e giro.

Giro come un  pazzo  attraverso  i  sottopassaggi  che  bucano il sottosuolo di Roma. Esco nel traffico che ristagna immobile e svogliato lungo il Muro Torto.

Arrivo strombazzando ai Prati. 

Via Cola di Rienzo.

Lungotevere.

Mi sta riprendendo la voglia di sesso. Ringraziando Iddio mi sta tornando ai livelli di guardia questa fottutissima voglia di fare l'amore. Posso diventare pericoloso se mi prende male. Poi mi infilo nell'Olimpica e lì lancio la macchina oltre i 150. Mi ingarello con un Golf GTI metallizzato, eterno rivale. Lo straccio, lo fa ccio a pezzi, lo riduco a niente, con una ac­celerata da 128 cavalli.

Giro a destra e sgommando arrivo al Villaggio Olimpico.

Sono le nove di sera e lo smercio della carne è gia cominciato da un po'. Entro, in fila, dietro altre diecimila maèchine nel grande parcheggio alberato.

All'interno degli abitacoli, stipati dentro, giovani manzi urlano e si eccitano sgomitandosi e ridendo fino al, le lacrime. Stereo a palla. In altri invece uomini soli, timorosi più di me, abbassano il finestrino.

Si chiede, si domanda, si contratta.

E poi ci sono i fottuti guardoni, incapaci di comprarsi quello di cui hanno bisogno.

Sapete solo guardare, schifosi.

I brasiliani sono ai lati, nudi, alti, sfrontati. Sono strane bellissime creature. Ridono, si incazzano, non temono asso­lutamente il freddo.

Pellicce.

Mutandine di strass.

Tacchi a spillo.

Un trans con dei vaporosi capelli gialli infila la testa nel finestrino della mia macchina. È gigantesco. Ha delle mani enormi che in altri tempi devono aver fatto altro.

Mi guarda come se in me trovasse tutto quello che ha bisogno.

«Bella serata» fa lui.

«Bella serata» faccio io.

«Come ti chiami bel moretto?»

«Mario.»

«Ciao, Mario.»

«E tu chi sei?»

«Margot.»

«Ci vogliamo divertire?» mi fa ancora.

«Quanto?»

«Poco per te!»

«Quanto?»

«Settanta con la bocca, cento il resto.»

«Sei una ladr,a, Margot!» rido io.

«Ma io ti faccio morire di gioia.»

Rimango così, in fila, indeciso sul da farsi. 

Guard o. Me ne vado.

È scoppiata una rissa tra i travestiti che si prendono à borsettate, che si sputano addosso, che si spintonano, che si urlano addosso.

Cagne idrofobe.

Ce n'è una che mostra spavalda le due stupende sfere che gli gonfiano il torace.

Ogni volta è la stessa storia. Finiscono sempre per litigare. C'è una volante della polizia.

Barre di luce blu nel buio.

I poliziotti cercano di dividerli e nello stesso tempo ridono, li lasciano sfogare, piangere.

Vado avanti.

Attraverso una grande arteria intasata di traffico locale ed entro nel dedalo di strade piccole dove battono le troie negre.

Non ne vedo neanche una che mi possa piacere.

Mi fanno schifo.

Sono brutte, malvestite, nei loro cencetti scadenti. Almeno i brasiliani sanno essere provocanti, eccessivi.

Non voglio finire a sbattere le ossa né con un travestito né con una negra.

Cosa voglio?

Vorrei una giovane ragazza bianca. Poco pratica ma esperta. Alta  e bassa. Provocante e timida.

Mi  allontano.

Mi spingo oltre.

Lascio andare la macchina sulle larghe strade periferiche. 120. 140. 160.

Non voglio tornare a casa così, insoddisfatto.

Vado avanti un altro po'.

Lo stereo spara l'ultimo successo di Ponatella Rettore, ''Di notte specialmente''.

Credo che mi andrò a scaricare sulla Roma-I'Aquila.

Lì potrò tirare la macchina ad altri livelli. Poi mi fermerò in un Autogrill e lì mi mangerò un Fattoria.

Sto per imboccare il raccordo anulare quando vedo una zoccola battere sul ciglio opposto della strada.

Che ci fa una topa così al dodicesimo chilometro della Ca­silina?

Conversione a U.

Stridore di gomme sull'asfalto.

Mi affianco.

Mi fa impazzire subito.

Avrà una ventina d'anni. Ha i capelli corti, neri. È alta e magra. Ha belle tettine sotto una magliettina elastica color porpora. Intravedo le collinette dei capezzoli. Ha le labbra gonfie impiastricciate di rossetto viola scuro. Il naso piccolo. Porta una minigonna nera e delle calze rosso scuro. Ha degli stivali di cuoio nero.

Abbasso il finestrino.

Lei si guarda intorno come a controllare qualcosa  poi  mi si avvicina a passi svogliati. Ha le mani in tasca del giubbot­to jeans. Mastica una gomma.

«Sei pazzesca. Quanto vuoi?» dico abbassando lo stereo.

«Non lo so» è dubbiosa. «Poco.» 

Strascica un po' le parole.

«Quanto poco?»

«Tu quanto pensi che possa costare scopare con me?»

Si è appoggiata al finestrino. Sembra nervosa ma nello stesso tempo stanca.

«Ma, non lo so.»

Mi ha preso in contropiede. Per me tre piotte le vale tutte.

Lé dico:

«Centocinquanta  è la tua cifra.»

Ci pensa un po' su. Alza gli occhi al cielo e corruccia la fronte facendo dei calcoli mentali poi dice:

«Ci sto. Salgo?»

«E certo. Sali, sali.»

Monta.

Io ingrano e parto.

«Bella macchina!»

«Grazie. Dove andiamo?»

«Continua dritto.»

Andiamo avanti così per un po'. Il traffico è abbastanza scorrevole. La città si sta diradando, disperdendo. Fa spazio a una campagna miserabile e trascurata, ai grandi capannoni di industrie di cessi e di mattonelle e di infissi in alluminio.

«Posso cambiare la musica?» mi fa.

Stiamo ascoltando l'ultimo pezzo di Laura Pausini, quello di Sanremo.

Tira fuori da una tasca del giubbotto una cassetta.

La infila nell'autoradio.

Truce rock. Metallo pesante.

«Cos'è?»

«I Sepultura!»

«Belli rozzi, veramente.»

Le metto una mano tra le cosce, sembra non accorgersene. Non le apre.

Vedo ai lati dei bei  piazzali  sterrati dove potremmo parcheggiarci.

«Ci fermiamo?» chiedo dopo un po' stanco di continuare a guidare.

«Guarda, tra trecento metri c'è una strada che gira a de­ stra. Prendila.»

«Dove mi porti?»

«A casa mia.»

«A casa tua?!»

Cazzo che affare ho fatto. Credevo che lo  avremmo fatto in macchina invece me la sbatterò sotto un tetto, su un letto.

Grande.

Giro a destra.

Proseguo su una stradaccia piena di buche e pozze fangose.

Mi sto sporcando la macchina e ho paura per le sospensioni.

Superiamo un paio di catapecchie, un campo da calcio abbandonato.

«Siamo quasi arrivati» mi fa guardando avanti, sempre con la sua gomma tra i denti.

Facciamo altri cinque, seicento metri attraverso un cam­pone spoglio e parcheggiamo di fronte a una vecchia casa malridotta.

Due piani.

Tetto di mattoni. 

Crepe.

Intonaco a vista.

Una lucina al piano superiore.

«Eccoci finalmente» mi fa e si riprende la cassetta. 

Metto l'antifurto.

Prendo la radio. 

Usciamo.

«Non è che mi rubano la macchina?» dico guardandomi in giro.

«Tranquillo.» 

La seguo.

Ha proprio un gran bel culo.

Tira fuori le chiavi, apre il lucchetto che chiude la porta di ferro.

Entriamo dentro.

Accende una luce al neon secca e morta. 

Salotto.

Televisione.

Divani e poltrone ancora incellofanate.

Un tavolo tondo. In mezzo un centrino di pizzo con sopra una pentola con dei fiori secchi. 

Le pareti sono dipinte a calce.

Quadri a olio con pagliacci tristi.

«Spogliati!» mi fa.

«Fa un po' freddo!»

vado su ad accendere il riscaldamento.»

«Lo facciamo qui?»

«Sì, sul divano.»

«Okay.»

Sale delle scale che portano di sopra.

 Non vedo termosifoni. .

Niente.

Nonostante il gelo sono eccitato.

Ho il cazzo che mi fa male.

Mi levo la giacca.

Mi levo le scarpe.

Rimango in mutande e camicia. 

Non ritorna.

Poi eccola finalmente.

Continua a masticare la sua gomma americana.

Si toglie la giacca.

Si sfila la minigonna. 

Mutandine.

Calze autoreggenti.

La  trascino sul divano.

Mi cade addosso. 

La stringo.

Le alzo le braccia.

Le tiro su la maglietta. 

Le abbasso le mutande. 

Lei fa fare.

''Ti piace ehh? Ne hai  voglia?'' dico io tra me e non perché

lei mi dia questa impressione ma piuttosto perché mi eccita dire cose del genere.

Mi abbasso le mutande e mi prendo il cazzo enorme in mano. .

Lei sprofonda nella plastica del divano e io le sono sopra.

Mi guarda imbambolata.

Le cerco la fica.

Le infilo un paio di dita dentro.

«Aiaaaaaaaaaaaa» urlo.

Un dolore fortissimo e intenso a un orecchio. I

Fuoco.

Riapro gli occhi.

Qualcuno mi ha preso un orecchio e me lo sta strizzando come se fosse uno straccio bagnato.

«Che cosa stai facendo?» una voce aspra alle mie spalle. Vengo trascinato via dal  divano nudo e sbattuto a terra. Il gelo delle mattonelle.

Provo a rialzarmi.

Un calcio mi solleva un labbro.

Sento il bordo della suola raschiarmi via pezzi di gengiva. Quello che mi sta prendendo a calci è tarchiato. I capelli bianchi. Il naso porcino. Gli occhi bovini. Il sorriso ferino da cui  spuntano lapidi  scassate  simili  a  denti. Indossa una canottiera zozza. Dei pantaloni deformi e stracciati di flanella grigia. Sporchi di calce.

In mano ha un lungo coltello seghettato di quelli per il pane. Da dove è uscito?

Che cosa vuole da me?

«Che cosa stai facendo?» mi chiede.

«Chi... io?» rispondo tentando di rialzarmi.

Mi respinge a terra con una pedata.

«Tu!»

«Io?!»

«S ì , t u !»

«Pago. Pago.»

«Dài pa', lascialo, non gli fare male» dice la ragazza mentre si rinfila le mutande.

Mi guarda da lontano come una madonna pietosa. Ho paura.

Ho paura da morire e non posso fare a meno di non guar­dare quel fottuto coltellaccio che tiene in mano.

Ora mi sventrano come un pòrco. Papà e figlia insieme. Avvolgeranno i resti insanguinati della mia anatomia in que­ste fottutissime plastiche trasparenti che coprono le loro pol­trone. Le hanno messe per non sporcare.

Fanno sempre così. Lo so.

Sto malissimo.

«Che volevi da mia figlia, merda?»

«Niente, lo giuro.»

«Come niente? Perché le stavi sopra come un animale?» 

Non so che cazzo rispondere.

Mi metto a piangere.

Sento in bocca il sapore stucchevole del sangue e delle lacrime.

«Che ci volevi fare?»

Perché continua a farmi questa domanda?

È chiaro a tutti quello che ci volevo fare. Cazzo.

«Ehhh, merda, allora, vuoi rispondere?»

Mi tira un calcio nel costato. Urlo.

La ragazza sta seduta e continua tranquilla a masticare la sua stronza gomma americana.

«Allora?»

«... Ci volevo... ci volevo... ci volevo fare l'amore. Avrei pa­gato tutto, tutto quanto. Lo giuro.»

«Bene. Era proprio questo che volevo sentirti dire. Ora alzati.»

Mi tira su.

Mi fa sedere sul divano accanto a sua figlia che intanto ha tirato fuori da un cassetto un walkman e sta allungata con le cuffie in testa . Agita le ginocchia a tempo di musica.

«Fammi  vedere.»

Il padre viene vicino a me, mi solleva il labbro e ci guarda dentro gentilmente.

«Non ti preoccupare. Guarirà.»

«Che vuoi da me? I soldi? La macchina?» frigno.

«Nooo, niente  di tutto questo. Non mi interessano i tuoi beni. Voglio che continui a fare quello che stavi facendo con Priscilla. Voglio che ti accoppi. Voglio che fai del sesso. Ma non con Priscilla, con sua sorella Piera. Vedrai, ti piacerà» mi dice accomodante. Quasi gentile.

«Com'è Piera?» chiedo disperato.

«Niente male e ha tanta voglia, poverina. È arrivata l'ora di riprodursi. Vieni.» .

Mi prende di nuovo per l'orecchio che è bollente e gonfio e mi tira.

«Dove mi porti? Dove mi por ti?!»

Mi trascina in fondo al salotto, oltre la tavola da pranzo, oltre il mobile bar, davanti a una porta.

La apre.

Oltre la porta il buio.

Un mondo nero e senza luce.

«Dài, vai den tro, c'è Piera che ti aspetta.»

Mi butto a terra.

Scappo a quattro zampe.

Mi attacco al mobile bar chiedendo pietà. Un po' di umana pietà.

Mi piglia ancora a calci.

«Non essere sgarbato, stallone!» dice ridendo tra i denti marci.

Mi afferra per i capelli. Mi solleva da terra.

Mi fruIla in aria e mi spinge fino alla porta. 

Inchiodo i piedi ma lui è più forte.

Mi oppongo ma non c'è niente da fare.

Mi lancia.

«Noooo. Noooo. Nooo. Nooo. Nooo. Nooooo» urlo volando nel buio.

La porta si chiude.

liiieeeeeeeee. Sclang.

Precipito in giù, più in giù.

Crollo pesante e maldestro sugli scalini di cemento.

Sbatto la testa.
Mi si accendono in fondo alle pupille dei lampi rossi, dei funghi di luce viola.
Sbatto la schiena.
Rimango un po' cosi, steso a terra sentendo solo il mio corpo urlare di dolore.
Provo a muovermi ma non ce la faccio.
Mi tiro su.
Risalgo uno, due, tre scalini, verso la porta, come un ragno calpestato.
La porta è sprangata dall'esterno.
Comincio a battere con i pugni contro la porta.
«Aprite. Aprite. Fatemi uscire. Bastardi.» Non aprono.
Non aprono. Non aprono. Ho freddo.
Ho addosso solo la camicia.
Batto ancora i pugni. 
L'aria è umida.
C'è  una strana puzza, come di marcio e di rancido.
Una schifa puzza di morte.
«Vi  prego, aprite. In nome di Dio,aprite. Prendetevi la mia macchina, ma aprite. Abbiate pietà , vi prego, vi prego, vi prego ...» continuo a ripetere sempre più piano.
Rimango così tantissimo.
Poi decido di scendere giù.
È una cantina poco illuminata.
A terra solo terra.
In fondo, in fondo, sotto una volta bassa, vedo un letto e una televisione. Un comodino. Una lucina. La televisione è accesa. Qualcuno è sdraiato sul letto e la sta guradando.
Sta guardando "Domenica In". Si sente la voce di Mara Venier.
«Scusi... Mi scusi...» dico cercando di attirare la sua attenzione.
 Mi copro come posso l'uccello. .
«Chi è? Venga avanti.» Una voce di donna.
«Mi chiamo Mario. Non vorrei disturbarla. Sta guardando ''Domenica In''...»
«Venga avanti.» .
«Verrei ma non ho i pantaloni...>> .
«Non si vergogni. Faccia come fosse a casa sua.» Avanzo con le mani davanti.
È una ragazza bellissima.
Con il naso all'insù. Con gli  zigomi alti. Con due laghetti  di montagna al posto degli occhi. Con i capelli biondi raccolti sopra la testa. Con due labbroni morbidi morbidi.
È mitica.
«Piacere, Recchi Mario...»
Le allungo una mano. Lei rimane immobile sotto la coperta che la copre fino al collo.
«Piacere, Nardi Piera... È venuto per quella cosa?»
«Per quale cosa?»
«Per darmi un figlio. Mio padre mi ha detto che avrebbe cercato qualcuno... È lei?»
«Certo. Certo. Sono io. Suo padre mi ha chiesto questo favore...»
Dico tutto questo cercando di darmi un tono.
«Vede, io ho un problema... È sicuro? Non vorrei che poi se ne pentisse. Io poi non l'ho mai fatto...»
«Non ci sono problemi. Veramente. E semplice, lasci fare...»
Mi avicino e le do un bacio mentre lei chiude gli occhi.
Com'è carina!
 Le levo la coperta da dosso
Oddio!
Rimango abbagliato da fulgori metallici. Al posto delle braccia delle gambe ha delle protesi di metallo. Grossi ingranaggi di cromo vanadio. Lunghe stecche di fibra dicar­bonio. Microchip.
Un terminator. Un cyborg.
«Ma questa è tutta, tecnologia teaesca. Quem,» dico indicandole degli amortizzatori che ha al posto dei polpacci «Sono dei Porsche,  li ho montati sulla mia Croma. Vanno alla  grande. E com'è?»
«Quando avevo dieci anni mi piaceva passare da una macchina 
 all'altra in corsa. Un giorno mentre ci provavo, le due macchine hanno  voltato una destra e una a sinistra imboc­cando due vicoli paralleli. Io sono rimasta in mezzo e... Ora non esco mai da qua dentro. Si vergognano di me. Mi sto ar­rugginendo?»
«Noo. Bando alle ciance... mettiamoci al lavoro» dico io. 
Le monto sopra. Piera mi stringe in un abbraccio metalli­co. Incomincio a farmela.
È una deliziosa vergine.
Mentre lo facciamo sento i rumori che fanno gli ingranag­gi, i fruscii dei servosterzi, i ronzii dei cuscinetti a sfera.
Lo facciamo in tutte le posizioni.
A carriola. A gru. A ruspa. A sedia da dentista.
Dopo  un'ora sono stanco morto. .
Siamo stesi  uno accanto all'altro a guardare ''Domenica In''.
«Ti è piaciuto?» le chiedo sodisfatto. .
«Moltissimo, veramente... A un certo punto ho sentito una cosa strana.»
«È normale. È Il il bello.»
Tiro fuori daI taschino della camici le sigarette.
«La vuoi una MS?»
«Certo. Ma non ho mai fumato.»
Le spiego come si butta giù il fumo e come lo si caccia dal naso. Impara subito.
È bello vederla stringere nei suoi artigli d'acciaio la sigaretta. .
«Scusa, levami una curiosità. Come mai volevi tanto un figlio?» ·
«Sono sempre sola. Mio padre e mia sorella vengono po-­co. Io guardo la tele. Ho deciso che volevo un figlio, una pic­cola creatura da allevare e da amare. Sai com'è...»
«Senti Piera, ho una proposta da farti, vienitene via con me. Potremmo essere felici... A me piaci una cifra, io ti risul­to?»
«Molto .»
Ci baciamo.
«Allora andiamo...» dico io.
«Certo.»
Piera si alza, rigida come un burattino. La copro con la mia camicia. Io mi avvolgo addosso un lenzuolo.
Avanza precisa e poi sale le scale.
«Forza! Sfonda quella porta Piera...»
Piera si attacca alla porta con le sue protesi e la scardina con facilità. Io le sono dietro.
In salotto ci sono il padre e la sorella seduti a tavola. Mangiano linguine al pesto.
«Signore, mi scusi... Io sono pazzo di sua figlia Piera. Me la vorrei sposare...»
Il bastardo si alza e  mi si avventa addosso cercando di strozzarmi, intanto dice:
«Come cazzo ti permetti... L'hai appena conosciuta. Io ti ammazzo!»
Io non posso parlare, respirare, niente. Fortunatàmente Piera allunga iI suo braccio meccanico e me lo strappa di dosso. Lo lancia sopra un di  vano.
«Scusami papà. Ma io e Mario ci amiamo...»
La sorella non si è mai mossa e continua a mangiare linguine come niente fosse.
Usciamo per mano. Ma appena fuori, Piera incomincia a suonare.
«È stato papà! Mi ha montato l'antifurto!» dice piangendo.
«Non ti preoccupare! È un Cobra. È una schifezza!» le dico.
Poi prendo il telecomando e lo azzittisco.
«Andiamo. Il mondo ci aspetta» dico infine stringendole la mano d'acciaio.

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