Niccolò Ammaniti: Carta

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Era strana quella mattina. Forse era quella cappa grigia e stagnante che si era adagiata sulla città, forse era solo che avevo dormito in un letto di merda. Non lo so. Fatto sta che arrivai al lavoro alla solita ora.


A quel tempo lavoravo alla USL della seconda circoscrizione e non facevo un cazzo tutto il giorno. Di lavoro ce n’era da fare ma io trovavo sempre il modo di inguattarmi, di partire per illusorie commissioni.


Lavoravo nel reparto derattizzazione e disinfestazione.


Se vi si riempie la casa di pulci, che vi formano dei calzini neri e pieni di vita intorno alle caviglie, non vi resta che chiamare noi. Se vi si stipa il solaio di sorci e se vi risalgono su dal cesso zoccole grosse come barboncini arriviamo e mettiamo a ferro e a fuoco il vostro appartamento.


A farla breve, quella mattina, arrivai al lavoro più scazzato del solito. Volevo stare a casa. Tomba doveva scendere alle 11:30 nello speciale e avevo calcolato che sarei potuto tornare intorno alle 11 e prepararmi per bene. Appena entrato vidi Franco, l’usciere, che se ne stava seduto dentro la guardiola e giocava a scopa con Carmela, la bidella. Tutte le mattine la stessa storia. Perdeva sempre.


‘A Coluzza, c’è Michelozzi che ti cerca…» disse il portiere senza alzare lo sguardo dalle carte.


E che vuole?»


E che ne so…» sbuffai e chiamai l’ascensore.


Michelozzi, per chi non lo sapesse e credo che nessuno di voi si sia mai preso la briga di conoscere un tipo del genere, è uno scassacazzi. Allora era mio superiore e quando gli pigliava brutta urlava fino a diventare rauco, sputava e diventava tutto rosso.


Una vera punizione di Dio.


Trovai Michelozzi nel suo ufficio e gli chiesi che voleva. Se stava tranquillo seduto nella poltrona e parlava al telefono con la moglie. Mi fece segno di sedermi. Mi sedetti e mi accesi una sigaretta…


«Lo sai che non me la devi preparare la pasta con il pesto, filippina ci mette dentro una quantità d’aglio esagerata… poi devo parlare con la gente… Fammi fare una cosa più seria, che ne so, le penne con i funghi e le salsicce…» Finalmente abbassò.


Avrei voluto questionare sulla leggerezza delle penne con i funghi e le salsicce ma chiesi solo: «Che c’è?»


«Ascoltami bene, Coluzza. Oggi devi dare una mano a Noschesi e a Ferri. C’è un lavoro rognoso da fare. Guarda, Coluzza, che se scopro che ti sei dato ti faccio passare dei guai le neanche ti immagini. Ti precetto.»


«Capo, non si scaldi. Una parola è poco e due sono troppe, tranquillo, lasci fare.»


Uscii bestemmiando. Mi aveva incastrato. Addio prima lanche. Addio Tomba. Andai da Noschesi e Ferri che stavano, come al solito, sbivaccati allo snack-bar “La Perla di Roma”. Bevevano il caffè e parlavano della Lazio, dei debiti della società e del derby.


«’A Ferri, ma che c’è da fare oggi di così importante che si è scomodato Michelozzi per dirmelo?»


Ferri erano dieci anni che lavorava nel reparto derattizzazione ed era considerato un po’ da tutti il capo. Era abbastanza secco, con i capelli lunghi e bianchi, con due gambe che sembravano due rami storti, le mani enormi e una pancia tonda e gonfia che gli sformava tutti i golf e gli cascava sopra i pantaloni. Aveva sul naso due fondi di bottiglia che gli facevano gli occhi piccoli come capocce di spillo. «Lo sa Noschesi, è lui che ha ricevuto la telefonata.» Noschesi era un amico mio. Un fratello. Ci uscivo spesso in quel periodo. Ci andavo a giocare a stecca la sera a San Lorenzo e a scommettere alle Capannelle.


«Hanno chiamato da un condominio a Monte Sacro. Dice che da un appartamento dove vive una barbona arriva una tanfa bestiale. »


«Va bene. Andiamo. Subito però, che se ci sbrighiamo riesco pure a vedere Tomba.» Salimmo sul potente mezzo che ci metteva a disposizione la circoscrizione. Una sgangherata Panda marroncino merda sciolta e ci infilammo nel panico del traffico.


Smontammo mezz’ora dopo sotto uno di quei palazzoni popolari anni Cinquanta caratteristici di quel quartiere. Ci caricammo dell’armamentario: le bombole del DDT sulle spalle, i lanciafiamme sotto le braccia, le maschere antigas poggiate in testa a mo’ di cappello, gli zaini. Entrammo nel- ‘ l’androne. La portiera appena ci vide ci corse incontro. Era abbastanza in carne la vecchia, come d’altronde la maggior parte delle portiere, ai piedi aveva dei moon-boot argentati.


«Ah eccovi, finalmente. Non se ne può più. Meno male. Meno male. Non ce la facevo più, ogni volta che succede qualcosa in questo palazzo se la prendono tutti con me. Come se io fossi il Padreterno!»


Quella donna era un ciclone.


Ferri con la sua solita flemma la inchiodò alle sue responsabilità.


Signora?»


Come signora… Ah, volete sapere come mi chiamo? Delfina.»


Signora Delfina. Ci spieghi, cosa sta succedendo?» Allora, sì. Al terzo piano della palazzina C vive una che ci sta più con la testa. La povera contessa Serpieri. Quella donna è impazzita dieci anni fa quando, in un tragico incidente ferroviario, si ricorderà sicuramente lo scontro ferro–io dell’83 a Viterbo?, gli sono morti in un sol colpo il marito, il conte GianFranco Serpieri, la figlia di ventotto anni giovan…»


Vabbe’, non ci racconti vita, morte e miracoli della contessa. Andiamo al sodo. Che succede?» D’accordo, d’accordo. La poveretta dopo l’incidente è andata ai pazzi. Ha sbroccato. La vedevamo sempre più sporca e trascurata. Poi le è presa la mania. Ha incominciato a portare immondizia in casa, girava per le strade qua vicino con carrello del supermarket e frugava nei cassoni della monnezza.” Abbiamo provato a farla smettere ma non c’era niente lare. Chili di giornali, di spazzatura. Prendeva tutto e portava a casa. Ha pure un sacco di gatti là dentro. Gli inquilini si lagnano ma la casa è sua e lei può fare tutto quello che le pare là dentro. È così che ci hanno risposto le guardie. E da una settimana è incominciata a uscire una puzza terribile suo appartamento, si è sparsa per tutte le scale, si è infilata in tutte le case. La gente si è imbestialita. Se la prendono con me. Ho provato a bussare ma non ha risposto nessuno, credo che la vecchia ha stirato dentro l’appartamento. Dovete andare a vedere.»  Questa era la situazione.


Brutta storia.


E stranamente a me da un paio di mesi mi capitavano solo storiacce.


Noschesi protestava che quello era un problema dei carabinieri, delle forze dell’ordine. E non si sbagliava. Ferri disse solo:


«Forza, non lamentatevi. Glielo spiegate voi a Michelozzi?»


La palazzina C si alzava scura, solitaria e malridotta in fondo a un cortile pieno di bambini che correvano in bicicletta e giocavano a rubabandiera.


La signora Delfina ci fece strada.


Le scale si inerpicavano ripide, tortuose e buie.


Ci avviammo e più salivamo e più l’aria si faceva pregna di un odore pestilenziale, dolce e stucchevole che ti grattava la gola, ti faceva girare la testa.


Noschesi stava a pezzi, ripeteva come un disco rotto: «Che puzza infame, che puzza infame.» Ferri non parlava.


Quando fummo al terzo piano credevo di morire. La portiera, con una mano davanti alla bocca, ci indicò la porta. Anonima, normalissima porta di un appartamento, di un normalissimo anonimo condominio.


Suonammo.


Niente.


Bussammo.


Niente.


La chiamammo:


«Contessa Serpieri! Contessa Serpieri, apra! Apra per favore…» Niente.


«Sfondiamo sta porta. Noschesi, passami il piede di porco» dissi sbuffando.


Quella dannata porta non pareva volersi aprire. Una roccia. Prima di schiattare la vecchia troia doveva aver dato tutte le mandate. Facemmo leva in tre e piano piano la serratura si strappò dall’intelaiatura. Un ultimo sforzo e finalmente cedette con uno schianto.


Una zaffata di morte ci investì in pieno volto.


Odore di decomposizione, di carne frolla.


Noschesi si piegò su se stesso e vomitò lì sul pianerottolo un cappuccino, un diplomatico e il tramezzino con i funghi della “Perla di Roma”.


«Mettetevi le maschere» disse Ferri.


Ce le infilammo subito. Facemmo segno alla portiera di al-lontanarsi. Entrammo così schierati, io e Ferri davanti con le bombole sulle spalle, Noschesi di dietro con il lanciafiamme.


Davanti a noi si apriva un corridoio lungo, scuro e alto.


I giornali che quella aveva raccolto in non so quanto tempo erano ammassati l’uno sull’altro in pile che toccavano il soffitto, ingialliti e incrostati dal tempo, dalla polvere.


Cataste. Mucchi. Cumuli. Montagne di carta.


In mezzo la vecchia aveva lasciato uno stretto cunicolo in cui passare. Serpeggiava tra le pile angusto. Provai subito un senso di claustrofobia fortissimo, se per caso quelle pile di giornali ci fossero crollate addosso ci saremmo rimasti sepolti sotto.


Avanzammo così, uno dietro l’altro, nella penombra, trattenendo il respiro. Sbucammo in una stanza grande che in un tempo migliore doveva essere stata un salotto.


Ora era diventata una discarica.


Spazzatura, sacchi di immondizia, rifiuti organici formavano un pavimento compatto, scivoloso e unto. Grasso, o qualcosa di simile imbrattava le pareti. Sacchi dell’immondizia strappati da cui rigurgitavano bucce marce, resti di cibo avariato, avanzi fradici di pranzi fatti un sacco di tempo prima.


In mezzo c’erano scarafaggi che si aggiravano indisturbati e grassi.


«Io do fuoco a tutto! Bisogna bruciare tutto» urlò con il panico in gola Noschesi.


«Stai buono, Noschesi, se qua appicchi il fuoco è la fine. Fai un rogo che si vede pure ai Parioli» fece Ferri.


«Non male l’appartamentino. Bell’arredamento! Complimenti! Dov’è la contessa? Andiamo a fare gli omaggi» conclusi io. Chissà dove era schiattata quella sudiciona? Chi poteva sopravvivere in quell’inferno, in quell’intestino di cadavere gonfio di escrementi?


Attraversammo il salotto ed entrammo in una seconda sala.


Fu lì che mi sentii veramente male. È lì che sentii lo stomaco rivoltarsi impazzito, stringersi e stirarsi in frenetiche fitte. È lì che sentii la colazione arrampicarsi decisa lungo l’esofago. Per terra e attaccati a un grande lampadario di cristallo c’erano cadaveri, viscide carcasse, putrefatti resti di gatti. Centinaia di felini scuoiati e decomposti. Quelli appesi scolavano un liquido grasso e incolore, che gocciava pigro a terra.


«Andiamocene Coluzza. Lasciamo perdere.»


Ferri mi tirò fuori dall’intorpidimento che mi aveva preso. Quella stanza faceva uno strano effetto.


La penombra, il caldo assurdo, le lame di sole sparate come da un proiettore dalle persiane chiuse su quella apocalisse felina e il fetore che nonostante la maschera era allucinante mi riempivano, è strano, di una pace diversa.


Una pace ammalata.


Quel silenzio innaturale mi incatenava.


«Sì, andiamocene via» feci riprendendomi.


«Forza. Porca madosca. Che cazzo fate? Muoviamoci. Usciamo fuori da questo inferno» urlava Noschesi. Era un fascio di nervi in tensione.


Ma volevo vedere che fine aveva fatto quella poveraccia. Volevo vedere il cadavere di quella povera donna divorato dalle blatte. Non mi bastava quello che avevo visto.


È una curiosità morbosa, sporca, quella che in alcune occasioni della mia vita mi ha spinto a proseguire, a perseverare nonostante ogni cosa intorno mi dicesse di smetterla, di lasciar perdere. Be’, quella volta la curiosità mi graffiava e mi sussurrava di cercare la vecchia. E credo che in quel momento anche Ferri sentisse lo stesso.


«Dov’è la contessa?» chiesi. «Io voglio vedere dov’è.»


«Coluzza, vaffanculo. Sei il solito stronzo. Andiamocene via, che aspettiamo?» Noschesi mi tirava per un braccio frignando. Mi divincolai e chiesi a Ferri:


«Andiamo a cercarla?»


«Sì, andiamo a cercarla.»


Passammo attraverso quel mare di gatti morti ed entrammo in cucina. Stessa storia. La pazza aveva tirato delle corde da una parte all’altra della cucina e sopra ci aveva appeso, come panni da asciugare, lividi intestini, budella marrone, scarlatti visceri di quelle povere bestie. Macelleria. Aveva usato un certo ordine per stendere quell’insolito bucato. Le mattonelle erano spalmate di sangue coagulato.


Da lì passammo attraverso altre stanze.


Nel bagno non c’era più il gabinetto. Solo un buco nero da cui spuntavano arti mummificati di felini. La vasca era riempita di una pappa liquida e marrone.


E poi spazzatura. Giornali. Tanfo.


Noschesi ci seguiva di dietro e bestemmiava tra sé.


Entrammo in un corridoio buio. In fondo una porta socchiusa. Ne usciva un bava dorata di luce.


«È l’ultima stanza che rimane. Sta là dentro» fece Ferri indicandomi la porta. Ci avvicinammo incerti, con in gola un groppo di orrore per troppo tempo trattenuto.


Non si sentiva un rumore.


Solo il nostro respiro chiuso dentro le maschere. Aprii la porta.


La stanza era grande. La stanza da letto. Il sole filtrava caldo attraverso gli scuri. Spazzatura. Ancora giornali. Un enorme letto al centro della stanza. Lei era lì.


Stava rannicchiata in mezzo a quell’enorme letto matrimoniale pieno di fogli di giornali, di stracci, di frutta marcia. Era viva!


Stava lì accucciata e mangiava. Giornali. Strappava pezzettini di carta con le mani e se li metteva in bocca. Uno scoiattolino.


Era nuda con i capelli candidi e arruffati. Ci guardava con gli occhi di un coniglio e mangiava. Respirava affannata.


Il corpo era innaturalmente bianco. Un bianco strano, il bianco della carta dei giornali. Sporco, leggermente giallo. La pelle era stropicciata. Aveva come dei tatuaggi che mi resi conto dopo dipendevano da tutto il piombo, da tutto l’inchiostro che aveva buttato giù mangiando carta stampata per tanto tempo. Milioni di lettere, di parole, di frasi, di pubblicità, di articoli di fondo, di cronaca di Roma la coprivano in ogni centimetro del corpo. Braccia, gambe, palmi tutto impressionato da a, b, c, numeri, parentesi, punti a capo.


Mi avvicinai.


Lei si ritrasse veloce in fondo al letto. Aveva paura. Tremava.


«Stia calma. Siamo qui per aiutarla. Non abbia paura.»


«Coluzza. Torna indietro. Chiamiamo qualcuno» disse Ferri da dietro alle mie spalle.


«Sì, qualcuno del manicomio…» aggiunse Noschesi.


Non ascoltai. Volevo vederla meglio. Mi chiesi se quelle frasi avessero un senso oppure era stato il caso a disporle in quel modo.


Mi avvicinai piano piano, come quando si cerca di afferrare un animale selvatico impazzito dal terrore. A piccoli passi, cercando di non fare gesti bruschi.


«Stia calma. Stia calma.»


Le arrivai a un paio di metri di distanza. Non so che volessi farle, forse solo toccarla, stringerla, tirarla fuori da quell’incubo. Feci un altro passo e lei scattò. Si alzò e come una furia impazzita incominciò a correre per la stanza, saltando sul letto, tirando in aria la spazzatura. «Bloccatela» urlai.


Anche la vecchia urlava. Una specie di aspro miagolio, co-me quello dei gatti in calore. Ferri provò a fermarla ma fu inutile. Gli sgusciò dalle ma-ni. Anche Noschesi tentò di abbrancarla ma senza successo.


Era rapida. Sparì frusciando nel corridoio.


«È scomparsa» disse Ferri


«Occhei, ci abbiamo provato. Siete contenti? Ora andiamocene, cazzo.» Noschesi non ce la faceva più. Tremava come un bambino.


Rientrammo nel corridoio, in quel budello scuro.


Ero stanco di quell’odore, della vecchia tatuata, di quella macelleria domestica.


Rumori nel buio.


Ferri urlò. Urlò disperatamente, urlò di più. Crollò a terra.


«Ferriiii. Che hai? Che hai?» dissi senza capire.


Provai a cercare l’accendino tra le mille tasche del mio giaccone. Niente. Ferri intanto strillava come un maiale sgozzato. Noschesi urlava anche lui in preda al panico.


«Che hai?» chiesi a Ferri tirandolo su da terra. Lo presi per una gamba e la sentii viscida, il tessuto dei jeans zuppo.


Sangue.


«Quella troia mi ha ferito. Mi ha pugnalato. Mi ha aperto una coscia. Mi ha massacrato.» Incominciammo a trascinarlo. Bestemmiava. Nella cucina ci facemmo largo attraverso i cadaveri dei gatti.


Poi successe ancora e fu la volta di Noschesi.


Vidi solo un’ombra sbucare da dietro al frigorifero, passare velocissima e scomparire.


Noschesi cadde a terra, in ginocchio, guaendo.


Si stringeva con una mano il braccio. Aveva un taglio che gli aprivi come una bocca la giacca e il golf. Di sotto già si stava inzuppando di rosso.


«Troia rotta in culo. Che cazzo mi hai fatto!?»


«Ammazzala. Ammazzala» ululava a terra Ferri.


«State calmi. State calmi» dicevo io cercando di calmarli.


Non riuscivo a pensare. Non riuscivo a fare niente.


«Uccidi quella puttana! Coluzza» diceva piangendo Ferri.


«L’ammazzo io. Ora vediamo…» disse Noschesi e abbassò la leva del lanciafiamme. Dalla bocca usci una piccola fiammella blu. Si rialzò.


«Aspetta, Noschesi. Cristo! Non fare cazzate» dissi, ma era troppo tardi. Lo inseguii in salotto.


La vecchia era finita in un angolo.


Prendeva le carcasse dei gatti e le tirava contro Noschesi. In una mano aveva un rasoio. Faceva impressione. La sua pelle di giornale si era imbevuta del sangue formando delle enormi macchie rosse.


Noschesi aumentò la fiamma.


«Aspetta. Aspetta. Noooooo. Cristo!» urlai.


Troppo tardi.


Noschesi abbassò del tutto la leva del lanciafiamme investendo la vecchia con un’enorme lingua di fuoco che l’avvolse completamente.


Mi tirai indietro. E la guardai bruciare.


Non bruciò facendo sfrigolare la pelle, non bruciò arrostendo le carni.


No, bruciò come carta: in un’enorme vampata.


Si accartocciò, diventò nera, si disperse in polvere. Fu sol-levata in aria, oramai cenere, vorticando, dalla stessa fiamma che la bruciava.


Era solo un giornale che arde.


Poi prese fuoco tutta la casa. Arrivarono i pompieri e ci tirarono fuori.

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