Dino Buzzati: L'assalto al grande convoglio

Dino Buzzati



Arrestato in una via del paese e condannato soltanto per contrabbando - poiché non lo avevano riconosciuto - Gaspare Planetta, il capo brigante, rimase tre anni in prigione.
Ne venne fuori cambiato. La malattia lo aveva consunto, gli era cresciuta la barba, sembrava piuttosto un vecchietto che non il famoso capo brigante, il miglior schioppo conosciuto, che non sapeva sbagliare un colpo.
Allora, con le sue robe in un sacco, si mise in cammino per Monte Fumo, che era stato il suo regno, dove erano rimasti i compagni. Era una domenica di giugno quando si addentrò per la valle in fondo alla quale c'era la loro casa. I sentieri del bosco non erano mutati: qua una radice affiorante, là un caratteristico sasso ch'egli ricordava bene. Tutto come prima.
Siccome era festa, i briganti si erano riuniti alla casa. Avvicinandosi, Planetta udì voci e risate. Contrariamente all'uso dei suoi tempi, la porta era chiusa.
Batté due tre volte. Dentro si fece silenzio. Poi domandarono: «Chi è?».
«Vengo dalla città» egli rispose «vengo da parte di Planetta.»
Voleva fare una sorpresa, ma invece quando gli aprirono e gli si fecero incontro, Gaspare Planetta si accorse subito che non l'avevano riconosciuto. Solo il vecchio cane della compagnia, lo scheletrico Tromba, gli saltò addosso con guaiti di gioia.
Da principio i suoi vecchi compagni, Cosimo, Marco, Felpa ed anche tre quattro facce nuove gli si strinsero attorno, chiedendo notizie di Planetta. Lui raccontò di avere conosciuto il capo brigante in prigione; disse che Planetta sarebbe stato liberato fra un mese e intanto aveva mandato lui lassù per sapere come andavano le cose. Dopo poco però i briganti si disinteressarono del nuovo venuto e trovarono pretesti per lasciarlo. Solo Cosimo rimase a parlare con lui, pur non riconoscendolo.
«E al suo ritorno cosa intende fare?» chiedeva accennando al vecchio capo, in carcere.
«Cosa intende fare?» fece Planetta «forse che non può tornare qui?»
«Ah, sì, sì, io non dico niente. Pensavo per lui, pensavo. Le cose qui sono cambiate. E lui vorrà comandare ancora si capisce, ma non so...»
«Non sai che cosa?»



«Non so se Andrea sarà disposto... farà certo delle questioni... per me torni pure, anzi, noi due siamo sempre andati d'accordo...»
Gaspare Planetta seppe così che il nuovo capo era Andrea, uno dei suoi compagni di una volta, quello che anzi pareva allora il più bestia. In quel momento si spalancò la porta, lasciando entrare proprio Andrea, che si fermò in mezzo alla stanza. Planetta ricordava uno spilungone apatico. Adesso gli stava davanti un pezzo formidabile di brigante, con una faccia dura e un paio di splendidi baffi.
Quando seppe del nuovo venuto, che anch'egli non riconobbe: «Ah, così?» disse a proposito di Planetta «ma come mai non è riuscito a fuggire? Non deve essere poi così difficile. Marco anche lui l'hanno messo dentro, ma non ci è rimasto che sei giorni. Anche Stella ci ha messo poco a fuggire. Proprio lui, che era il capo, proprio lui, non ha fatto una bella figura.»
«Non è più come una volta, così per dire» fece Planetta con un furbesco sorriso. «Ci sono molte guardie adesso, le inferriate le hanno cambiate, non ci lasciavano mai soli. E poi lui s'è ammalato.»
Così disse; ma intanto capiva di essere rimasto tagliato fuori, capiva che un capo brigante non può lasciarsi imprigionare, tanto meno restar dentro tre anni come un disgraziato qualunque, capiva di essere vecchio, che per lui non c'era più posto, che il suo tempo era tramontato.
«Mi ha detto» riprese con voce stanca, lui di solito gioviale e sereno «Planetta mi ha detto che ha lasciato qui il suo cavallo, un cavallo bianco, diceva, che si chiama Polàk, mi pare, e ha un gonfio sotto un ginocchio.»
«Aveva, vuoi dire aveva» fece Andrea arrogante, cominciando a sospettare che fosse proprio Planetta presente. «Se il cavallo è morto la colpa non sarà nostra...»
«Mi ha detto» continuò calmo Planetta «che aveva lasciato qui degli abiti, una lanterna, un orologio.» E sorrideva intanto sottilmente e si avvicinava alla finestra perché tutti lo potessero veder bene.
E tutti infatti lo videro bene, riconobbero in quel magro vecchietto ciò che rimaneva del loro capo, del famoso Gaspare Planetta, del migliore schioppo conosciuto, che non sapeva sbagliare un colpo. Eppure nessuno fiatò. Anche Cosimo non osò dir nulla. Tutti finsero di non averlo riconosciuto, perché era presente Andrea, il nuovo capo, di cui avevano paura. Ed Andrea aveva fatto finta di niente.
«Le sue robe nessuno le ha toccate» disse Andrea «devono essere là in un cassetto. Degli abiti non so niente. Probabilmente li ha adoperati qualcun altro.»
«Mi ha detto» continuò imperturbabile Planetta, questa volta senza più sorridere «mi ha detto che ha lasciato qui il suo fucile, il suo schioppo di precisione.»
«Il suo fucile è sempre qui» fece Andrea «e potrà venire a riprenderselo.»
«Mi diceva» proseguì Planetta «mi diceva sempre: chissà come me lo adoperano, il mio fucile, chissà che ferrovecchio troverò al mio ritorno. Ci teneva tanto al suo fucile.»
«L'ho adoperato io qualche volta» ammise Andrea con un leggero tono di sfida «ma non credo per questo di averlo mangiato.»
Gaspare Planetta sedette su una panca. Si sentiva addosso la sua solita febbre, non grande cosa, ma abbastanza da fare la testa pesante.
«Dimmi» fece rivolto ad Andrea «me lo potresti far vedere?»
«Avanti» rispose Andrea, facendo segno a uno dei briganti nuovi che Planetta non conosceva «avanti, va di là a prenderlo.»
Fu portato a Planetta lo schioppo. Egli lo osservò minutamente con aria preoccupata e via via parve rasserenarsi. Accarezzò con le mani la canna.
«Bene» disse dopo una lunga pausa «e mi ha detto anche che aveva lasciato qui delle munizioni. Mi ricordo anzi precisamente: polvere, sei misure, e ottantacinque palle.»
«Avanti» fece Andrea con aria seccata «avanti, andategliele a prendere. E poi c'è qualcosa d'altro?»
«Poi c'è questo» disse Planetta con la massima calma, alzandosi dalla panca, avvicinandosi ad Andrea e staccandogli dalla cintura un lungo pugnale inguainato. «C'è ancora questo» confermò «il suo coltello da caccia.» E tornò a sedere.
Seguì un lungo pesante silenzio. Finalmente fu Andrea che disse: «Be', buonasera» disse, per fare capire a Planetta che se ne poteva ormai andare.
Gaspare Planetta alzò gli occhi misurando la potente corporatura di Andrea. Avrebbe mai potuto sfidarlo, patito e stanco come si sentiva? Perciò si alzò lentamente, aspettò che gli dessero anche le altre sue cose, mise tutto nel sacco, si gettò lo schioppo sulle spalle. «Allora buonasera, signori» disse avviandosi alla porta.
I briganti rimasero muti, immobili per lo stupore, perché mai avrebbero immaginato che Gaspare Planetta, il famoso capo brigante, potesse andarsene così, lasciandosi mortificare a quel modo. Solo Cosimo trovò un po' di voce, una voce stranamente fioca.
«Addio Planetta!» esclamò, lasciando da parte ogni finzione. «Addio, buona fortuna!»
Planetta si allontanò per il bosco, in mezzo alle ombre della sera, fischiettando una allegra arietta.
Così fu di Planetta, ora non più capo brigante, bensì soltanto Gaspare Planetta fu Severino, di anni 48, senza fissa dimora. Però una dimora l'aveva, un suo baracchino sul Monte Fumo, metà di legno e metà di sassi, nel mezzo delle boscaglie, dove una volta si rifugiava quando c'erano troppe guardie in giro.
Planetta raggiunse la sua baracchetta, accese il fuoco, contò i soldi che aveva (potevano bastargli per qualche mese) e cominciò a vivere solo.
Ma una sera, ch'era seduto al fuoco, si aprì di colpo la porta e comparve un giovane, con un fucile. Avrà avuto diciassette anni.
«Cosa succede?» domandò Planetta, senza neppure alzarsi in piedi. Il giovane aveva un'aria ardita, assomigliava a lui, Planetta, una trentina d'anni prima.
«Stanno qui quelli del Monte Fumo? Sono tre giorni che vado in cerca.»
Il ragazzo si chiamava Pietro. Raccontò senza esitazione che voleva mettersi coi briganti. Era sempre vissuto da vagabondo ed erano anni che ci pensava, ma per fare il brigante occorreva almeno un fucile e aveva dovuto aspettare un pezzo, adesso però ne aveva rubato uno, ed anche uno schioppo discreto.
«Sei capitato bene» fece Planetta allegramente «io sono Planetta.»
«Planetta il capo, vuoi dire?»
«Sì, certo, proprio lui.»
«Ma non eri in prigione?»
«Ci sono stato, così per dire» spiegò furbescamente Planetta. «Ci sono stato tre giorni. Non ce l'hanno fatta a tenermi di più.»
Il ragazzo lo guardò con entusiasmo.
«E allora mi vuoi prendere con te?»
«Prenderti con me?» fece Planetta «be', per stanotte dormi qui, poi domani vedremo.»
I due vissero insieme. Planetta non disilluse il ragazzo, gli lasciò credere di essere sempre lui il capo, gli spiegò che preferiva viversene solo e trovarsi con i compagni soltanto quando era necessario. Il ragazzo lo credette potente e aspettò da lui grandi cose.
Ma passavano i giorni e Planetta non si muoveva. Tutt'al più girava un poco per cacciare. Del resto se ne stava sempre vicino al fuoco.
«Capo» diceva Pietro «quand'è che mi conduci con te a far qualcosa?»
«Ah» rispondeva Planetta «uno di questi giorni combineremo bene. Farò venire tutti i compagni, avrai da cavarti la soddisfazione.»
Ma i giorni continuavano a passare.
«Capo» diceva il ragazzo «ho saputo che domani, giù nella strada della valle, domani passa in carrozza un mercante, un certo signor Francesco, che deve avere le tasche piene.»
«Un certo Francesco?» faceva Planetta senza dimostrare interesse. «Peccato, proprio lui, lo conosco bene da un pezzo. Una bella volpe, ti dico, quando si mette in viaggio non si porta dietro neanche uno scudo, è tanto se porta i vestiti, dalla paura che ha dei ladri.»
«Capo» diceva il ragazzo «ho saputo che domani passano due carri di roba buona, tutta roba da mangiare, cosa ne dici, capo?»
«Davvero?» faceva Planetta «roba da mangiare?» e lasciava cadere la cosa, come se non fosse degna di lui.
«Capo» diceva il ragazzo «domani c'è la festa al paese, c'è un mucchio di gente che gira, passeranno tante carrozze, molti torneranno anche di notte. Non ci sarebbe da far qualcosa?»
«Quando c'è gente» rispondeva Planetta «è meglio lasciar stare. Quando c'è la festa vanno attorno i gendarmi. Non val la pena di fidarsi. E proprio in quel giorno che mi hanno preso.»
«Capo» diceva dopo alcuni giorni il ragazzo «di' la verità, tu hai qualcosa. Non hai più voglia di muoverti. Nemmeno più a caccia vuoi venire. I compagni non li vuoi vedere. Tu devi essere malato, anche ieri dovevi avere la febbre, stai sempre attaccato al fuoco. Perché non mi parli chiaro?»
«Può darsi che io non stia bene» faceva Planetta sorridendo «ma non è come tu pensi. Se vuoi proprio che te lo dica, dopo almeno mi lascerai tranquillo, è cretino sfacchinare per mettere insieme qualche marengo. Se mi muovo, voglio che valga la fatica. Bene, ho deciso, così per dire, di aspettare il Gran Convoglio.»
Voleva dire il Grande Convoglio che una volta all'anno, precisamente il 12 settembre, portava alla Capitale un carico d'oro, tutte le tasse delle provincie del sud. Avanzava tra suoni di corni, lungo la strada maestra, tra lo scalpitare della guardia armata. Il Grande Convoglio imperiale, con il grande carro di ferro, tutto pieno di monete, chiuse in tanti sacchetti. I briganti lo sognavano nelle notti buone, ma da cent'anni nessuno era riuscito impunemente ad assaltarlo. Tredici briganti erano morti, venti ficcati in prigione. Nessuno osava pensarci più; d'anno in anno poi il provento delle tasse cresceva e si aumentava la scorta armata. Cavalleggeri davanti e di dietro, pattuglie a cavallo di fianco, armati i cocchieri, i cavallanti e i servi.
Precedeva una specie di staffetta, con tromba e bandiera. A una certa distanza seguivano ventiquattro cavalleggeri, con schioppi, pistole e spadoni. Poi veniva il carro di ferro, con lo stemma imperiale in rilievo, tirato da sedici cavalli. Ventiquattro cavalleggeri, anche dietro, dodici altri dalle due parti. Centomila ducati d'oro, mille once d'argento, riservati alla cassa imperiale.
Dentro e fuori per le valli il favoloso convoglio passava a galoppo serrato. Luca Toro, cent'anni prima, aveva avuto il coraggio di assaltarlo e gli era andata miracolosamente bene. Era quella la prima volta: la scorta aveva preso paura. Luca Toro era poi fuggito in Oriente e si era messo a fare il signore.
A distanza di parecchi anni, anche altri briganti avevano tentato: Giovanni Borso, per dire solo alcuni, il Tedesco, Sergio dei Topi, il Conte e il Capo dei trentotto. Tutti, al mattino dopo, distesi al bordo della strada, con la testa spaccata.
«Il Gran Convoglio? Vuoi rischiarti sul serio?» domandò il ragazzo meravigliato.
«Sì certo, voglio rischiarla. Se riesce, sono a posto per sempre.»
Così disse Gaspare Planetta, ma in cuor suo non ci pensava nemmeno. Sarebbe stata un'assoluta follia, anche a essere una ventina, attaccare il Gran Convoglio. Figurarsi poi da solo.
L'aveva detto così per scherzare, ma il ragazzo lo prese sul serio e guardò Planetta con ammirazione. «Dimmi» fece il ragazzo «e quanti sarete?»
«Una quindicina almeno, saremo.»
«E quando?»
«C'è tempo» rispose Planetta «bisogna che lo domandi ai compagni. Non c'è mica tanto da scherzare.»
Ma i giorni, come avviene, non fecero fatica a passare e i boschi cominciarono a diventar rossi. Il ragazzo aspettava con impazienza. Planetta gli lasciava credere e nelle lunghe sere, passate vicino al fuoco, discuteva del grande progetto e ci si divertiva anche lui. In qualche momento perfino pensava che tutto potesse essere anche vero.
L'11 settembre, alla vigilia, il ragazzo stette in giro fino a notte. Quando tornò aveva una faccia scura.
«Cosa c'è?» domandò Planetta, seduto al solito davanti al fuoco.
«C'è che finalmente ho incontrato i tuoi compagni.»
Ci fu un lungo silenzio e si sentirono gli scoppiettii del fuoco. Si udì pure la voce del vento che fuori soffiava nelle boscaglie.
«E allora» disse alla fine Planetta con una voce che voleva sembrare scherzosa. «Ti hanno detto tutto, così per dire?»
«Sicuro» rispose il ragazzo. «Proprio tutto mi hanno detto.»
«Bene» soggiunse Planetta, e si fece ancora silenzio nella stanza piena di fumo, in cui c'era solo la luce del fuoco.
«Mi hanno detto di andare con loro» osò alla fine il ragazzo. «Mi hanno detto che c'è molto da fare.»
«Si capisce» approvò Planetta «saresti stupido a non andare.»
«Capo» domandò allora Pietro con voce vicina al pianto «perché non dirmi la verità, perché tutte quelle storie?»
«Che storie?» ribatté Planetta che faceva ogni sforzo per mantenere il suo solito tono allegro. «Che storie ti ho mai contato? Ti ho lasciato credere, ecco tutto. Non ti ho voluto disingannare. Ecco tutto, così per dire.»
«Non è vero» disse il ragazzo. «Tu mi hai tenuto qui con delle promesse e lo facevi solo per sfottermi. Domani, lo sai bene...»
«Che cosa domani?» chiese Planetta, ritornato nuovamente tranquillo. «Vuoi dire del Gran Convoglio?»
«Ecco, e io fesso a crederti» brontolò irritato il ragazzo. «Del resto, lo potevo ben capire, malato come sei, non so cosa avresti potuto...» Tacque per qualche secondo, poi concluse a bassa voce: «Domani allora me ne vado».
Ma all'indomani fu Planetta ad alzarsi per primo. Si levò senza svegliare il ragazzo, si vestì in fretta e prese il fucile. Solo quando egli fu sulla soglia, Pietro si destò.
«Capo» gli domandò, chiamandolo così per l'abitudine «dove vai a quest'ora, si può sapere?»
«Si può sapere, sissignore» rispose Planetta sorridendo. «Vado ad aspettare il Gran Convoglio.»
Il ragazzo, senza rispondere, si voltò dall'altra parte del letto, come per dire che di quelle stupide storie era stufo.
Eppure non erano storie. Planetta, per mantenere la promessa, anche se fatta per scherzo, Planetta, ora che era rimasto solo, andò ad assalire il Gran Convoglio.
I compagni l'avevano abbastanza sfottuto. Che almeno fosse quel ragazzo a sapere chi era Gaspare Planetta. Ma no, neanche di quel ragazzo gliene importava. Lo faceva in fondo per sé, per sentirsi quello di prima, sia pure per l'ultima volta. Non ci sarebbe stato nessuno a vederlo, forse nessuno a saperlo mai, se rimaneva subito ucciso; ma questo non aveva importanza. Era una questione personale, con l'antico potente Planetta. Una specie di scommessa, per un'impresa disperata.
Pietro lasciò che Planetta se n'andasse. Ma più tardi gli nacque un dubbio: che Planetta andasse davvero all'assalto? Era un dubbio debole e assurdo, eppure Pietro si alzo e uscì alla ricerca. Parecchie volte Planetta gli aveva mostrato il posto buono per aspettare il Convoglio. Sarebbe andato là a vedere.
Il giorno era già nato, ma lunghe nubi temporalesche si stendevano attraverso il cielo. La luce era chiara e grigia. Ogni tanto qualche uccello cantava. Negli intervalli si udiva il silenzio. Pietro corse giù per le boscaglie, verso il fondo della valle dove passava la strada maestra. Procedeva guardingo tra i cespugli in direzione di un gruppo di castagni, dove Planetta avrebbe dovuto trovarsi.
Planetta infatti c'era, appiattato dietro a un tronco e si era fatto un piccolo parapetto di erbe e rami, per esser sicuro che non lo potessero vedere. Era sopra una specie di gobba che dominava una brusca svolta della strada: un tratto in forte salita dove i cavalli erano costretti a rallentare. Perciò si sarebbe potuto sparare bene.
Il ragazzo guardò giù in fondo la pianura del sud, che si perdeva nell'infinito, tagliata in due dalla strada. Vide in fondo un polverone che si muoveva.
Il polverone che si muoveva, avanzando lungo la strada, era la polvere del Gran Convoglio.
Planetta stava collocando il fucile con la massima flemma quando udì qualcosa agitarsi vicino a lui. Si voltò e vide il ragazzo appiattato con il fucile proprio all'albero vicino.
«Capo» disse ansando il ragazzo «Planetta, vieni via. Sei diventato pazzo?»
«Zitto» rispose sorridendo Planetta «finora pazzo non lo sono. Torna via immediatamente.»
«Sei pazzo, ti dico, Planetta, tu aspetti che vengano i tuoi compagni, ma non verranno, me l'hanno detto, non se la sognano neppure.»
«Verranno, perdio se verranno, è questione d'aspettare un poco. Un po' la loro mania di arrivare sempre in ritardo.»
«Planetta» supplicò il ragazzo «fammi il piacere, vieni via. Ieri sera scherzavo, io non ti voglio lasciare.»
«Lo so, l'avevo capito» rise bonariamente Planetta. «Ma adesso basta, va via, ti dico, fa presto, che questo non è un posto per te.»
«Planetta» insisté il ragazzo. «Non vedi che è una pazzia? Non vedi quanti sono? Cosa vuoi fare da solo?»
«Perdio, vattene» gridò con voce repressa Planetta, finalmente andato in bestia. «Non ti accorgi che così mi rovini?»
In quel momento si cominciavano a distinguere, in fondo alla strada maestra, i cavalleggeri del Gran Convoglio, il carro, la bandiera.
«Vattene, per l'ultima volta» ripeté furioso Planetta. E il ragazzo finalmente si mosse, si ritrasse strisciando tra i cespugli, fino a che disparve.
Planetta udì allora lo scalpitìo dei cavalli, diede un'occhiata alle grandi nubi di piombo che stavano per crepare, vide tre quattro corvi nel cielo. Il Gran Convoglio ormai rallentava, iniziando la salita. Planetta aveva il dito al grilletto, ed ecco si accorse che il ragazzo era tornato strisciando, appostandosi nuovamente dietro l'albero.
«Hai visto?» sussurrò Pietro «hai visto che non sono venuti?»
«Canaglia» mormorò Planetta, con un represso sorriso, senza muovere neppure la testa. «Canaglia, adesso sta fermo, è troppo tardi per muoversi, attento che incomincia il bello.»
Trecento, duecento metri, il Gran Convoglio si avvicinava. Già si distingueva il grande stemma in rilievo sui fianchi del prezioso carro, si udivano le voci dei cavalleggeri che discorrevano tra loro. Ma qui il ragazzo ebbe finalmente paura. Capì che era una impresa pazza, da cui era impossibile venir fuori.
«Hai visto che non sono venuti?» sussurrò con accento disperato. «Per carità, non sparare.»
Ma Planetta non si commosse.
«Attento» mormorò allegramente, come se non avesse sentito. «Signori, qui si incomincia.»
Planetta aggiustò la mira, la sua formidabile mira, che non poteva sbagliare. Ma in quell'istante, dal fianco opposto della valle, risuonò secca una fucilata.
«Cacciatori!» commentò Planetta scherzoso, mentre si allargava una terribile eco «cacciatori! niente paura. Anzi, meglio, farà confusione.»
Ma non erano cacciatori. Gaspare Planetta sentì di fianco a sé un gemito. Voltò la faccia e vide il ragazzo che aveva lasciato il fucile e si abbandonava riverso per terra.
«Mi hanno beccato!» si lamentò «oh mamma!»
Non erano stati cacciatori a sparare, ma i cavalleggeri di scorta al Convoglio, incaricati di precedere il carriaggio, disperdendosi lungo i fianchi della valle, per sventare insidie. Erano tutti tiratori scelti, selezionati nelle gare. Avevano fucili di precisione.
Mentre scrutava il bosco, uno dei cavalleggeri aveva visto il ragazzo muoversi tra le piante. L'aveva visto poi stendersi a terra, aveva finalmente scorto anche il vecchio brigante.
Planetta lasciò andare una bestemmia. Si alzò con precauzione in ginocchio, per soccorrere il compagno. Crepitò una seconda fucilata. La palla partì diritta, attraverso la piccola valle, sotto alle nubi tempestose, poi cominciò ad abbassarsi, secondo le leggi della traiettoria. Era stata spedita alla testa; entrò invece dentro al petto, passando vicino al cuore.
Planetta cadde di colpo. Si fece un grande silenzio, come egli non aveva mai udito. Il Gran Convoglio si era fermato. Il temporale non si decideva a venire. I corvi erano là nel cielo. Tutti stavano in attesa.
Il ragazzo voltò la testa e sorrise: «Avevi ragione» balbettò. «Sono venuti, i compagni. Li hai visti, capo?»
Planetta non riuscì a rispondere ma con un supremo sforzo volse lo sguardo dalla parte indicata.
Dietro a loro, in una radura del bosco, erano apparsi una trentina di cavalieri, con il fucile a tracolla. Sembravano diafani come una nube, eppure spiccavano nettamente sul fondo scuro della foresta. Si sarebbero detti briganti, dall'assurdità delle divise e dalle loro facce spavalde.
Planetta infatti li riconobbe. Erano proprio gli antichi compagni, erano i briganti morti, che venivano a prenderlo. Facce spaccate dal sole, lunghe cicatrici di traverso, orribili baffoni da generale, barbe strappate dal vento, occhi duri e chiarissimi, le mani sui fianchi, inverosimili speroni, grandi bottoni dorati, facce oneste e simpatiche, impolverate dalle battaglie.
Ecco là il buon Paolo, lento di comprendonio, ucciso all'assalto del Mulino. Ecco Pietro del Ferro, che non aveva mai saputo cavalcare, ecco Giorgio Pertica, ecco Frediano, crepato di freddo, tutti i buoni vecchi compagni, visti ad uno ad uno morire. E quell'omaccione coi grandi baffi e il fucile lungo come lui, su per quel magro cavallo bianco, non era il Conte, il famigerato capo, pure lui caduto per il Gran Convoglio? Sì, era proprio lui. Il Conte, col volto luminoso di cordialità e straordinaria soddisfazione. E si sbagliava Planetta oppure l'ultimo a sinistra, che se ne stava diritto e superbo, si sbagliava Planetta o non era Marco Grande in persona, il più famoso degli antichi capi? Marco Grande impiccato nella Capitale, alla presenza dell'imperatore e di quattro reggimenti in armi? Marco Grande che cinquant'anni dopo nominavano ancora a bassa voce? Precisamente lui era, anch'egli presente per onorare Planetta, l'ultimo capo sfortunato e prode.
I briganti morti se ne stavano silenziosi, evidentemente commossi, ma pieni di una comune letizia. Aspettavano che Planetta si movesse. Infatti Planetta, così come il ragazzo si levò ritto da terra, non più in carne ed ossa come prima, ma diafano al pari degli altri e pure identico a se stesso.
Gettato uno sguardo al suo povero corpo, che giaceva raggomitolato al suolo, Gaspare Planetta fece un'alzata di spalle come per dire a se stesso che se ne fregava e uscì nella radura, ormai indifferente alle possibili schioppettate. Si avanzò verso gli antichi compagni e si sentì invadere da contentezza.
Stava per cominciare i saluti individualmente, quando notò che proprio in prima fila c'era un cavallo perfettamente sellato ma senza cavaliere. Istintivamente si avanzò sorridendo.
«Così per dire» esclamò, meravigliandosi per il tono stranissimo della sua nuova voce. «Così per dire, non sarebbe questo il mio Polàk, più in gamba che mai?»
Era davvero Polàk, il suo caro cavallo, e riconoscendo il padrone mandò una specie di nitrito, bisogna dire così perché quella dei cavalli morti è una voce più dolce di quella che noi conosciamo. Planetta gli diede due tre manate affettuose e già pregustò la bellezza della prossima cavalcata, insieme ai fedeli amici, via verso il regno dei briganti morti ch'egli non conosceva ma ch'era legittimo immaginare pieno di sole, dentro a un'aria di primavera, con lunghe strade bianche senza polvere che conducevano a miracolose avventure. Appoggiata la sinistra al colmo della sella, come accingendosi a balzare in groppa, Gaspare Planetta disse:
«Grazie, ragazzi miei» disse, stentando a non lasciarsi vincere dalla commozione. «Vi giuro che...»
Qui s'interruppe perché si era ricordato del ragazzo, il quale, pure lui in forma di ombra, se ne stava in disparte, in atteggiamento d'attesa, con l'imbarazzo che si ha in compagnia di persone appena conosciute.
«Ah, scusa» disse Planetta. «Ecco qua un bravo compagno» aggiunse rivolto ai briganti morti. «Aveva appena diciassett'anni, sarebbe stato un uomo in gamba.»
I briganti, tutti chi più chi meno sorridendo, abbassarono leggermente la testa, come per dare il benvenuto.
Planetta tacque e si guardò attorno indeciso. Cosa doveva fare? Cavalcare via coi compagni, piantando il ragazzo solo? Planetta diede altre due tre manate al cavallo, tossicchiò furbescamente, poi disse al ragazzo:
«Be' avanti, salta su te. E giusto che sia tu a divertirti. Avanti, avanti, poche storie» aggiunse poi con finta severità vedendo che il ragazzo non osava accettare.
«Se proprio vuoi...» esclamò infine, il ragazzo, evidentemente lusingato. E con un'agilità che egli stesso non avrebbe mai preveduto, poco pratico come era stato fino allora di equitazione, il ragazzo fu di colpo in sella.
I briganti agitarono i cappelli, salutando Gaspare Planetta, qualcuno strizzò benevolmente un occhio, come per dire arrivederci. Tutti diedero di sprone ai cavalli e partirono di galoppo.
Partirono come schioppettate, allontanandosi tra le piante. Era meraviglioso come essi si gettassero negli intrichi del bosco e li attraversassero senza rallentare. I cavalli tenevano un galoppo soffice e bello a vedere. Anche da lontano, qualcuno dei briganti e il ragazzo agitarono ancora il cappello.
Planetta, rimasto solo, diede un'occhiata circolare alla valle.
Sogguardò, ma appena con la coda dell'occhio, l'ormai inutile corpo di Planetta che giaceva ai piedi dell'albero. Diresse quindi gli sguardi alla strada.
Il Convoglio era ancora fermo, al di là della curva e perciò non era visibile. Sulla strada c'erano soltanto sei o sette cavalleggeri della scorta; erano fermi e guardavano verso Planetta. Benché possa apparire incredibile, essi avevano potuto vedere la scena: l'ombra dei briganti morti, i saluti, la cavalcata. In certi giorni di settembre, sotto alle nuvole temporalesche, non è poi detto che certe cose non possano avvenire.
Quando Planetta, rimasto solo, si voltò, il capo di quel drappello si accorse di essere guardato. Allora drizzo il busto e salutò militarmente, come si saluta tra soldati.
Planetta si toccò la falda del cappello, con un gesto molto confidenziale ma pieno di bonomia, increspando le labbra a un sorriso. Poi diede un'altra alzata di spalle, la seconda della giornata. Fece perno sulla gamba sinistra, voltò le spalle ai cavalleggeri, sprofondò le mani nelle tasche e se n'andò fischiettando, fischiettando, sissignori, una marcetta militare. Se n'andò nella direzione in cui erano spariti i compagni, verso il regno dei briganti morti ch'egli non conosceva ma ch'era lecito supporre migliore di questo.
I cavalleggeri lo videro farsi sempre più piccolo e diafano; aveva un passo leggero e veloce che contrastava con la sua sagoma ormai di vecchietto, un'andatura da festa quale hanno solo gli uomini sui vent'anni quando sono felici.

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